A Roma la Raggi può perdere? Assolutamente sì, ma solo se…
I grillini oggi festeggiano loro candidata che nella tarda serata di ieri si è presentata in conferenza stampa enfatizzando (con l’ormai celebre recitazione da attrice […]
I buffet secchi sempre più risicati e la paura di non riuscire a riempire le sedie in polipropilene. I post sponsorizzati su Facebook al posto dei manifesti sulle plance elettorali ai bordi delle strade. Anche le notti, un tempo terra di scontro delle bande di attacchini, sono solo un ricordo. Resistono i bigliettini, quelli si, economici e per questo immortali. Volare basso, evitare ogni polemica o possibile conflitto. Soprattutto se gli avversari di oggi possono divenire gli alleati di domani. Fra occhiate e programmi coincidenti. I campi rom? Vanno chiusi. Le buche? Vanno chiuse. Gli sprechi? Vanno eliminati. Le incompiute? Mai più.
A poco meno di 10 giorni dalle elezioni amministrative, a Roma la campagna elettorale non è ancora entrata nel vivo. O meglio, non sembra nemmeno iniziata. Sarà perché la girandola dei sondaggi, ufficiali o clandestini, non permette veramente a nessuno di cogliere lo spirito della città. Sarà perché prima di capire come voteranno i romani, bisognerà capire quanti andranno veramente a votare. Sarà perché, come si lamentano i campioni delle preferenze,“stavolta non gira ‘na lira prima del ballottaggio”. Oppure, più semplicemente, sarà perché in una città in totale autogestione ormai da mesi, da prima dell’insediamento del prefetto Francesco Paolo Tronca, la sopravvivenza quotidiana ha la priorità più tutto. Anche sul futuro.
Per questo, senza favoriti, né sconfitti in partenza, tutti in maniera diversa possono sperare in qualcosa. Alfio Marchini, Giorgia Meloni, Roberto Giachetti e Virginia Raggi. Anche Stefano Fassina, tornato nell’oscurità mediatica, dopo aver vissuto giorni di gloria con l’esclusione della sua lista. Il collasso di sistema, generato dall’inchiesta di Mafia Capitale nel dicembre 2014, non solo ha corroso il tessuto amministrativo e sociale della città, ma ha contribuito a creare uno scenario politico incerto e al tempo stesso schizofrenico, in cui anche esponenti politici imputati nel processo come l’ex consigliere comunale Giordano Tredicine, riescono ancora a riempire una piazza di anziani per sponsorizzare il candidato su cui dirottare i propri voti in assenza del proprio nome sulla scheda elettorale.
Gli occhi, è chiaro, sono tutti puntati su Roberto Giachetti, il candidato sindaco del Pd. Sia per le modalità con cui l’ex sindaco Ignazio Marino è stato allontanato dal Campidoglio, sia perché ad investire su di lui è stato il premier in persona Matteo Renzi, candidandolo, quasi con forza, alle primarie del Pd e rompendo, al tempo stesso, il blocco di centro sinistra che aveva caratterizzato il cosiddetto “Modello Roma”. Recuperare il controllo della capitale, parrebbe sulla carta un’operazione quasi impossibile, soprattutto dopo le inchieste giudiziarie e gli arresti. Ma Giachetti è fiducioso, o almeno ci prova. Quando lo scorso 20 aprile presentò la sua lista civica, ad esempio, evocò lo spirito delle elezioni europee del 2014, in cui il M5S sembrava pronto a stravincere “ma poi il Pd prese il 40%”. Però, nel suo partito c’è chi al contrario agita l’incubo del 2008, quando il suo mentore Francesco Rutelli, riuscì nell’impresa di perdere 90mila voti, voti al ballottaggio, consegnando la città a Gianni Alemanno. E’ evidente, da allora sono passati 8 anni, Berlusconi nel frattempo ha perso terreno, mentre il M5S è diventato una forza a due cifre.
Però, dalle parti del Pd romano, a tenere banco è sempre l’eterno scontro fra gli ex Margherita (questa volta i rutelliani ex Api e quelli vicini al ministro Franceschini) e gli ex Ds (almeno quelli che non si sono allineati al commissario Matteo Orfini). “Una parte del partito è stata di fatto esclusa dal comitato elettorale guidato da Luciano Nobili, che gioca a fare il Bettini. I circoli – riferisce la nostra fonte – sono stati completamente ignorati, come se ci fosse la paura che, in caso di vittoria, qualcuno possa rivendicare qualcosa nella gestione della città”. La scelta di presentare i nomi della giunta in anticipo, per ora, ha calmato le acque.
“Una persona di spessore come Livia Turco al sociale – racconta un esponente della sinistra del partito – ha messo d’accordo tutti, anche se proporre una squadra in cui dovrebbero comparire un magistrato (Alfonso Sabella), un questore (Francesco Tagliente), e una dirigente dell’amministrazione penitenziaria (Carla Ciavarelli) non è decisamente un segnale di speranza per la città”. L’obiettivo principale è arrivare almeno al ballottaggio, poi si vedrà come far fruttare al meglio le tre caselle lasciate scoperte da Giachetti, che per ora ha reso noti solo 9 dei 12 ipotetici futuri assessori. Lo stesso Renzi prima di scendere in campo “con l’artiglieria pesante” aspetterà i risultati del primo turno, evitando il rischio di intestarsi una disfatta, per poi giocarsi il tutto per tutto nel rush finale, anche se a chiudere la campagna elettorale potrebbe essere lui in persona in un evento, ancora top secret, che si terrà all’Eur.
L’avversario più temuto è soprattutto uno, il Movimento 5 Stelle, che, invece, per chiudere la sua campagna elettorale ha scelto piazza del Popolo. Non portò fortuna nel 2013, quando il risultato del 13% della lista cittadina fu ben al di sotto delle previsioni. Ma da quei giorni sembra passata un’era geologica. E Virginia Raggi non è Marcello De Vito, anche perché, a differenza del suo predecessore candidato sindaco, all’apputamento arriva con un minimo di esperienza. Inoltre, da novità politica, come era nel 2013, il Movimento che la sostiene, nel frattempo, è diventato un vero partito, con dei capi, delle regole e delle correnti, come quella romana capitanata dalla deputata Roberta Lombardi, che, dopo aver disertato gran parte della campagna elettorale, è stata inserita nello staff che supporta la Raggi.
Mai sopra le righe, sobria nell’abbigliamento, sempre con un filo di trucco, al massimo un ombretto chiaro che evidenzia gli occhi e un ciondolo portafortuna a forma di bebè che difficilmente abbandona il suo collo. Sponsorizzata da Alessandro Di Battista, ma più simile, come stile, a Luigi di Maio, i suoi la vorrebbero più aggressiva, almeno in questi ultimi giorni, ma Virginia Raggi, dopo il caso Acea, in cui venne accusata dai giornali di proprietà del costruttore Caltagirone di aver fatto perdere ai romani circa 70 milioni di euro, ha faticato a prendere il volo definitivo. “Spontanea e convincente nel rapporto coi cittadini, ma forse ancora troppo ingessata quando va in televisione”, dice di lei chi l’ha seguita in questi mesi. Eppure se anche realtà storicamente vicine alla sinistra e “allergiche” alla dottrina legalitaria dal Movimento, come i comitati per la casa, hanno iniziato a sondare il terreno, significa che tutto è possibile. Domenica scorsa, mentre la Raggi, insieme ad Alessandro Di Battista, partecipava ad un evento elettorale in quartiere alla periferia di Roma, Gabii, alcuni esponenti di Action l’hanno fermata per sottoporgli le criticità della delibera con cui il prefetto Tronca ha stravolto le linee guida sull’emergenza casa varate dalla giunta regionale di Nicola Zingaretti. “L’avevamo invitata anche all’occupazione di San Giovanni, ma lei ha preferito non venire per evitare possibili strumentalizzazioni”.
In questo momento, tanto per lei, quanto per Giachetti, approdare in sicurezza all’appuntamento del 5 giugno, data delle elezioni, senza incappare in scivoloni, è la vera priorità, a costo di rinunciare a qualche stoccata che rischia di essere controproducente. Anche perché a destra, il quadro è ancora fosco e pieno di incertezze. L’unica ad avere una concreta speranza di arrivare al ballottaggio è Giorgia Meloni, la migliore fra i candidati nei confronti pubblici, capace di tenere testa senza problemi ai cittadini di Tor Sapienza infuriati per i roghi tossici, ma impotente di fronte all’esuberanza del suo alleato Matteo Salvini, che vorrebbe far pagare il Gra ai romani. Mentre Alfio Marchini, campione di selfie al femminile in qualsiasi iniziativa venga ospitato, nonostante il sostegno di Silvio Berlusconi, risulta essere leggermente in ritardo. In una coalizione normale, senza i giochi di potere che negli ultimi anni hanno contraddistinto il centrodestra italiano, ancora appeso alle sorti Berlusconi, i partiti che li sostengono sarebbero riusciti a convergere su un candidato unico, con molta probabilità di vittoria. Invece, a meno di sorprese, rischieranno di essere decisivi con le loro indicazioni di voto della felicità, o disgrazia, altrui. C’è chi lo chiama partito della Nazione. O chi, più semplicemente, complotto.
(fotografie di Marco Carta)
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