Si può parlare di un populismo di sinistra?
Strana parola populismo, chiamata a rappresentate cose molto diverse fra loro.
Lemma che pure ha attraversato gli ultimi decenni dell’Ottocento, l’intero Novecento per tornare con forza in questi primi vent’anni del nuovo millennio.
Osteggiata, irrisa, blandita, la parola fa riferimento a qualcosa di davvero poco definito come il popolo. Populismo nato nelle campagne (quelle americane dei farmers o quelle russe dei contadini poveri e servi della gleba) è diventato fenomeno urbano in America Latina e oggi sembra tornare nelle “campagne” non nel senso agricolo della parola ma in quello che contrappone le città e chiude tutto il resto (centri medio piccoli periferie slabbrate quel tessuto fitto di capannoni e vigne, depositi e orti) sotto questa denominazione. Viene da chiedersi oggi cosa sia il populismo italiano e quali radici abbia da noi anche nella sinistra.
La parola viene ritirata fuori in senso positivo da Giuseppe Conte, anche se è costretto ad accompagnarla con qualche aggettivo (ad esempio parla di mite, qualcuno direbbe “addomesticato” dopo i “vaffa” e le rozzezze giovanili) ma il senso resta quello di un populismo “sociologico” e sentimentale che mette al centro il popolo come misura della politica.
Un popolo (altra parola sdrucciolevole) che sembrerebbe fatto di ceti medi in difficoltà, di piccolissima borghesia ai limiti della sussistenza, di gruppi ormai scolarizzati ma che si sentono lontani dalle élite intellettuali e figuriamoci da quelle politiche (laddove ne fosse rimasta qualcuna).
In un paese in cui non ci si riconosce più nella propria condizione di lavoro (di classe avremmo detto un tempo) quanto in quella di consumatori, in cui hanno poco peso i sentimenti nazionalistici in senso tradizionale ma ne hanno invece gli elementi localistici e di gruppi di campanile, questo modo di essere popolo è difficile da ricondurre a una distinzione classica destra sinistra. E’ perciò interessante il fatto che Conte si ponga il proposito di condurre questo populismo all’interno del centrosinistra. Se ci pensiamo in fondo Salvini non si è mai definito populista ma semmai sovranista (d’altra parte nella Germania di Weimar due parole ben diverse definivano il fenomeno, una era Populismus e guardava soprattutto al populismo del passato, l’altra invece usava la radice tedesca della parola e si definiva völkisch è guardava più che al popolo alla razza alla stirpe alla nazione e sappiamo come è andata a finire).
Ecco perchè nell’area di destra la definizione populista è più adattabile al Berlusconi degli inizi, quello meno istituzionale che guardava a un rapporto diretto popolo leader in cui “l’unto del Signore” rappresentava tutti e “non lasciava indietro nessuno”.
Un popolo – lo scrivo senza astio o valutazione alcuna – di “casalinghe di Voghera” o meglio di spettatori televisivi, in cui alla parola popolo si sostituiva quella di gente.
Per questo uno storico come Bongiovanni coniò la definizione di “populismo senza popolo”.
E la sinistra? La parola fu usata tra i primi in Italia da Gobetti sull’Ordine Nuovo e – parlando di quelli russi – li definiva “sognatori e agitatori illusi e sentimentali”. E Gramsci sui Quaderni non fu più tenero contrapponendo alla parola popolo la parola classe, al sentimentalismo la prassi rivoluzionaria e definendolo come la tendenza della borghesia di “avvicinarsi” alle classi più povere. Eppure nella sua lunga storia il Pci ha costeggiato il populismo almeno nell’accezione “sentimentale” e non negativa del termine. Togliatti non rifuggiva alla parola popolo e all’identificazione nazionale della propria politica.
Certo alla boria anti elitaria contrapponeva l’idea di una élite che si chiamava partito che però era “di massa” e non di “quadri”, che aveva una vocazione didattica e di formazione delle coscienze. Anche nella disputa tra “scrittori e popolo”, quella condotta da Asor Rosa contro la letteratura di sinistra realista e sentimentale (la critica cadeva addosso a Pasolini di Ragazzi di vita e ancora di più ai Cassola e Pratolini) il Pci non stava dalla parte del professore quanto degli scrittori. E persino le scelte artistiche che preferivano Guttuso a Vedova più che ai comandamenti zdanoviani sembravano dipendere da una idea di popolare non così lontana dalle nostalgie pasoliniane per una sorta di età dell’oro.
Poi – ovviamente – il Pci era una cosa molto complessa sia dal punto di vista politico che culturale e vi convivevano culture (e culture politiche) diverse e spesso lontane tra loro, ma sarebbe come sempre banale cercare di attribuire a ciascuna parte ruoli stereotipati.
Per fare un esempio, nella sinistra del Pci c’era insieme una consapevolezza di cosa stava diventando il capitalismo italiano (operaio massa, finanziarizzazione, competizione internazionale), o delle incipienti difficoltà delle istituzioni repubblicane nell’affrontare i problemi di un paese avanzato.
Ma insieme a tutto questo c’era una grande vicinanza emotiva alle condizioni dei più deboli e anche dei ceti più lontani dalla modernizzazione ai valori alla storia e alla cultura dei ceti popolari.
Cosa che – lo dico con dolore e cognizione di causa – vedo mancare da tempo in buona parte di quel partito che ne è comunque per piccola parte erede.
Insomma: c’è uno spazio interpretativo per parlare di un populismo di sinistra? Con tutte le avvertenze del caso si può rispondere di sì. Il problema è se in questo nuovo millennio la parola abbia cambiato del tutto senso allontanandosi dai suoi significati storici, persino da quelli sperimentati in epoca berlusconiana. Forse sarebbe il momento di riprenderla in mano rimodellarla e verificare se è utile a parlare con le persone sapendo che le vecchie categorie identitarie (il lavoro, le appartenenze, le ideologie) sono inservibili non perché non esistano più ma perché sono diventate tutte facce di un prisma a cui se ne sono aggiunte molte altre. L’uomo a una dimensione, la grande lente interpretativa di Herbert Marcuse, è oggi in qualche modo più vera anche se dietro a quella dimensione unica (quella del pensiero borghese e dalla democrazia senza libertà) si nasconde una estrema complessità tanto da far pensare ad un uomo senza alcuna dimensione. E allora la parola popolo potrebbe tornare utile. Ma va maneggiata con cura.
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