Governo
Quando eravamo seri
Ho letto con grande piacere misto a struggente nostalgia “Le riforme dimezzate” (Egea), il libro appena pubblicato da Marco Leonardi, che racconta dall’interno la sua esperienza nella cabina di regia delle politiche per il lavoro e le pensioni durante i governi Renzi e Gentiloni.
Leonardi è un economista liberal di vaglia che racconta con passione e invidiabile chiarezza tecnica gli anni trascorsi nella West Wing di Palazzo Chigi, a cavallo tra il piacere dello studioso di plasmare la materia e l’ebrezza del politico di fare accadere le cose, nel caso dei governi Renzi e Gentiloni di fare avanzare riforme strutturali di settori fondamentali della vita del Paese come il mercato del lavoro e il welfare. L’autore argomenta senza reticenze il razionale anche di pura ma necessaria mediazione politica dietro alcune scelte e non scelte degli esecutivi a guida PD, dolendosi a ragione di come riforme importanti, sorrette da una visione lungimirante e solidamente riformista del futuro dell’Italia non siano state comprese dall’opinione pubblica e soprattutto non abbiano portato agli autori alcun premio nell’urna, anzi.
Nelle stesse stanze che hanno ospitato il lavoro di Marco Leonardi e dei suo gruppo ora si aggirano oscuri teorizzatori della guerra permanente con l’Europa e della redistribuzione lauriana (dal Comandante Achille) di risorse pubbliche inesistenti. Non solo, alla visione riformista del futuro che permea il racconto non si è sostituita una legittima visione conservatrice, ma la negazione del futuro stesso come orizzonte della politica e la sua sostituzione con il tweet non solo come forma di comunicazione, ma come misura della durata dell’azione di Governo.
Qui entra in campo la struggente nostalgia per un’esperienza politica, culturale e istituzionale, quella dei Governi Renzi e Gentiloni che, al di là del caratteraccio del Toscano, avrebbe merito molto migliore fortuna e certamente non ha meritato il public shaming che ha portato alle elezioni più pazze del mondo concepite come vendetta collettiva contro il principale partito di governo.
Sul perché di questo enorme scarto tra risultati e successo elettorale Leonardi pecca di educazione e soprattutto attribuisce a mio parere troppo potere al Governo e troppa fiducia al Paese. Troppo potere al Governo perché ormai la separazione tra fatti e percezione dell’opinione pubblica si è da lungi definitivamente consumata e le contorsioni di Di Maio e Co per cercare di fare finta di mantenere le impossibili promesse elettorali stanno scavando un ulteriore golfo tra realtà e percezione che sarà duro da riempire. Troppa fiducia al Paese perché postula che, qualora fossero state comprese, le riforme avrebbero determinato una reazione differente da parte dell’elettorato, ipotesi rispetto alla quale sono meno ottimista.
Scriveva Gobetti a proposito della genesi del Fascismo nel malcontento diffuso dell’Italia post I Guerra Mondiale che “a un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio”, ché altrimenti si rivolta. Senza entrare in stucchevoli dibattiti su Salvinismo e Fascismo è certo che il riformismo dei governi di cui parla Leonardi chiedeva, proprio in quanto vero riformismo, uno spirito di sacrificio che il corpo elettorale del Paese e prima ancora i suoi spin doctor non intendevano minimamente tirare fuori, nemmeno di fronte all’evidenza che gli sforzi richiesti (quasi sempre più a livello di cambiamento di consuetudini e aspettative che a livello di peggioramento delle condizioni materiali) servissero per ottenere un bene superiore ad essi e molto più duraturo.
Il Jobs Act, il REI, gli ITS (e la Buona Scuola e l’alternanza Scuola – Lavoro di cui il nostro non si è occupato ma che insistono sul medesimo filone riformista) ridisegnavano profondamente il modo in cui il Paese produceva e distribuiva ricchezza con un occhio alle prospettive delle giovani generazioni, ovviamente mettendo in discussioni decenni di pratiche e aspettative, dal posto fisso alla cassa integrazione infinita al figlio Dottore per tutti. Chiedevano al paese di andare più veloce, di alzarsi dal divano, in cambio di una sua maggiore modernità e competitività, ossia di una maggiore creazione e redistribuzione di ricchezza. Uno schema zemaniano nel suo dinamismo e nelle sue vene di follia che purtroppo, come troppo spesso capita al Boemo, non ha per nulla funzionato. A partire dal referendum costituzionale, il Paese ha risposto a questa scommessa con uno stentoreo gesto dell’ombrello.
Siamo dunque condannati ad essere un paese di dannunziani senza redenzione che si meritano Mr. Ping? In parte purtroppo sì, secondo una tradizione che da Dante al condono di Ischia ama troppo il tiepido della propria materia organica per accettare il freddo dell’incerto, ma per una parte preponderante per fortuna c’è ancora speranza, o almeno da ottimista irredimibile mi piace pensare così.
Ottimisticamente penso che, passata la nottata di Mr. Ping e di Selfieman, si potrà tornare a fare prevalere la corda seria e riprendere il filo di quel discorso interrotto, con qualche necessario cambiamento che dimostri che la lezione è stata appresa.
Il primo cambiamento riguarda la stessa cultura riformista, che deve riaffermare la propria inevitabilità di fronte alle tentazioni di tanta parte della Sinistra di abbandonare ogni velleità di sviluppo in favore di un’adesione acritica alla pancia del Paese, eccezion fatta ovviamente per le posizioni sull’immigrazione. Questa scuola di pensiero, che pensa che i 5 Stelle siano dei compagni che sbagliano amicizie (ma de ché), non crede ad alcuna forma di Progresso e invidia la redistribuzione di risorse pubbliche come sola igiene del mondo: Tolte tre o quattro cose del Governo attuale in fondo ne ammira il radicalismo parolaio. Essendo molto meno educato del buon professor Leonardi io penso che questa tentazione debba essere radicalmente sconfitta con gli strumenti democratici nel Congresso del PD e nel mondo delle idee con un radicalismo dello sviluppo ancora più accentuato (kudos per il coraggio di Leonardi di invocare una spesa pubblica di qualità).
Radicalismo dello sviluppo che deve però fare i conti con quella parte importante (si spera maggioritaria) del Paese reale che non condona la casetta a Pomigliano d’Arco come babbo Ping ma ha paura, legittima e fottuta, della contemporaneità come perenne rischio di perdere posizione, status, potere d’acquisto, lavoro. Su questo, a parte alcune idee forti come gli ITS e Impresa 4.0 e un’idea paracula ma giusta come gli 80 euro, i Cavalieri della Camelot di Renzi e Gentiloni hanno peccato di superficialità, snobismo e cosmopolitismo.
L’Italia deve e può diventare un paese compiutamente europeo e occidentale, ma deve farlo facendo innanzitutto l’Italia, il che significa più attenzione all’economia reale (piccole imprese manifatturiere da innovare più e prima che start up) e alla geografia (territori mondo da mettere in rete e non solo incrostazioni di potere da centralizzare) di quanta ne abbiano dedicata i nostri eroi.
La terza lezione è quella di immaginare modalità nuove, efficaci ma democratiche (nel senso di veritiere e rispettose dei destinatari) per comunicare con il Paese anche argomenti complessi. Non si tratta di una questione marginale né solo di comunicazione, ma sempre più di una questione di democrazia sostanziale, per la quale raccontare sistematicamente fole ai propri elettori (per quanto deboli di mente possano essere) è e deve essere considerato eticamente sbagliato e ricevere una sanzione.
Venute meno le grandi organizzazioni di irregimentazione e controllo dei poveri e degli umili, la Chiesa e il Partito comunista, come interloquire con una massa di elettori privi di strumenti e senza freni inibitori, ristabilendo quel minimo principio di autorità che evita la tirannia e l’autocrazia casaleggiana sarà sempre più un discrimine tra sistemi politici a democrazia compiuta e sistemi politici a democrazia Rockefeller (il corvo, non il miliardario).
Direi che di cose da fare ce ne sono. Buona fortuna a tutti.
Devi fare login per commentare
Accedi