Perché il livello della politica è così basso?
Alla domanda ricorrente “perché il livello medio della politica (e dei politici con mirabili eccezioni) è così basso nel nostro paese?” dobbiamo avere la lucidità di rispondere senza banalizzazioni, guardando alla radice del problema. La “pochezza” del dibattito pubblico ha numerosi indicatori che quotidianamente osserviamo: post su social di eminenti politici, capacità retorica, analitica e professionalità dei rappresentanti pubblici, dispositivi contradditori e arruffati, debolezza endemica delle forze organizzate, teatrini parlamentari, protagonisti che sembrano parvenu come l’ultimo eclatante esempio Ciampolillo ex 5S, il successo di posizioni culturali che di culturale non hanno nulla, la rinuncia alla complessità a favore delle estreme semplificazioni.
Una appendice alla domanda la dobbiamo fare subito: la relativa pochezza non è un’esclusiva italiana, ma attraversa tutto l’occidente del nostro pianeta, non risparmia nessuno, non gli Stati Uniti, non la Germania, nessuno dei paesi liberali. Forse, ma sarebbe troppo complesso affrontarlo qui, neanche paesi orientali o del sud del mondo.
La politica ha un basso livello perché la politica, così come la intendiamo, conta sempre meno nei processi reali. Rimanendo in Italia, basta un dato per cogliere l’evidenza del dato:
Il recovery plan, nel suo complesso, vale 209 miliardi in 3 anni. Ed è riconosciuto come il più grande intervento economico degli ultimi anni, dopo il Piano Marshall.
Il fatturato annuo delle prime 10 aziende in Italia vale 2 volte e mezzo questa cifra: 485 miliardi.
La politica è sempre meno la detentrice del potere sostanziale, è irrilevante negli investimenti, è impotente al confronto della potenzialità di generare benessere, economie, welfare, reddito, sviluppo delle grandi aziende private o di diritto privato e, di converso, impotente di fronte alle decisioni private di disinvestimento, di fronte alle crisi, alle delocalizzazioni, allo smantellamento delle produzioni.
E’ un processo storico di lunga durata, probabilmente senza precedenti, che oggi manifesta i suoi più evidenti effetti: irrilevanza progressiva della politica, incapace anche di svolgere il ruolo regolatore che nel liberalismo gli competerebbe e a volte fin incapacità anche di pensare e capire dove siano le questioni importanti e rilevanti.
Tutte questione che, invece, sono sulle scrivanie delle grandi aziende, loro solo in grado di affrontarle.
E’ la conseguenza (che era prevedibile e prevista da alcuni) del liberismo degli ultimi 50 anni, di una globalizzazione finanziaria ed economica che nessuno ha affrontato o voluto governare (aveva ragione il movimento di Seattle dei primi anni 2000, sconfitto dalla geopolitica dei radicalismi religiosi e dalla reazione dei liberisti statunitensi ed europei). In questo clima, in questo processo cresce il brodo di cultura dell’antipolitica e della demagogia, perché alla politica si chiede di risolvere i problemi e se la politica è irrilevante, mai potrà dare la sensazione di poter rispondere alle aspettative.
I processi storici non sono mai irreversibili, lo diventano se non si comprendono, se non si leggono le dinamiche, se non si ha la volontà di invertirli o se non si costruisce una strategia atta a modificarli.
Questa è la sfida dei prossimi mesi e anni, almeno per chi, in questo paese e altrove, pensa che il primato della politica non sia solo una questione di metodo, ma la definizione di quali interessi si difendono e si promuovono, quali scelte si compiono e, prima ancora, appunto, si è in grado di compiere.
Ci sono alcune strade possibili, dal fermare l’accumulo esasperato di economie, con qualsiasi strumento possibile, pensare ad una nuova strategia di antitrust, alla realizzazione di patrimoniali progressive, la regolamentazione dei mercati, la guerra ai paradisi fiscali (anche quelli mascherati), passando dalla tassazione delle rendite e delle transizioni finanziarie.
Sono tutte azioni possibili, che taluno definirebbe radicali. E radicali sono se la radicalità è la coerenza di perseguire un obiettivo: in questo caso, far tornare la politica protagonista e quindi, far tornare la democrazia e la difesa degli interessi del demos.
Certo, per realizzarli ci vorrebbe una politica forte, credibile e capace, ma questi sono i paradossi del nostro tempo, da affrontare però se non ci si vuole arrendere.
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