Dimissioni di Lupi: in democrazia nessuno è indispensabile
A parte le grida di scandalo lette e ascoltate negli ultimi due giorni tra social e tg, la vera ragione per cui il ministro Lupi doveva dimettersi l’ha […]
L’ex ministro Lupi ha fatto un passo indietro e potremmo chiudere qui una storia non esemplare se le motivazioni e il passaggio a Porta a Porta non portassero in se qualcosa di fastidioso.
Lasciamo stare le dichiarazioni a margine della signora Serracchiani e allegra brigata di coristi vari in libera uscita, scontate nella pochezza e inutilità; affrontiamo il nocciolo e cioè le motivazioni alle spalle del gesto: mi dimetto perché “Tengo famiglia”. Ministro, Lei non ci crederà ma questo l’avevamo capito. Ma Lei non deve dimettersi per proteggere suo figlio, Lei deve dimettersi perché ciò che è accaduto, al di là della rilevanza penale, ha rotto il rapporto di fiducia con quella parte di opinione pubblica che vive secondo regole scritte e non scritte. Lei è un ministro, non deve prendere come standard quello “del così fa tutti”, compresi parte di quei giornalisti che hanno mostrato verso di Lei poca comprensione. Non si deve dimettere per “rafforzare il Governo”, perché è una giustificazione che fa scoppiare dal ridere. Lei si deve dimettere perché ha commesso una sciocchezza (secondo me anche come padre, ma lì non può dimettersi e solo redimersi).
Invece questa incapacità, sua ma non solo, nel comprendere il perché autentico delle regole non scritte mostra come il complesso del gruppo dirigente oggi al potere per una questione generazionale, essendo nato e cresciuto all’interno della Seconda Repubblica, ha limiti culturali che lo rendono inadeguato al compito. Questo gruppo di edipici quarantenni che ha rivendicato in questi mesi con determinazione la volontà di sostituire i padri e i padrini, cresciuto però in larga parte grazie alla cooptazione degli stessi e succedutogli solo per la incapacità dai padri dimostrata, ha una idea condivisa della politica, una idea che si è resa cultura pervasiva: quella di una politica intesa come opera e destino individuale e non come parte di un agire collettivo, sia esso un ideale o una ideologia. A tale punto che è l’aspetto generazionale o di genere e non uno qualsiasi delle autentiche culture politiche ad essere divenuto l’elemento legittimante. Essere donna o essere giovani oggi vale più che essere bravi e apparire leader conta più che esserlo.
Lei, oltre al “tengo famiglia”, ha confessato di avere passione per la politica e che Le piace essere ministro: le assicuro, comprendiamo anche questo passaggio senza difficoltà. Ma non basta. Quanti suoi colleghi, nei comuni o in Parlamento, animati dalla stessa “passione” abbiamo visto non solo cambiare casacca ma anche solo gruppo e referenti in base alle prospettive di carriera, ai progetti di vita individuali, alle aspettative di reddito o alle convenienze meno nobili? Vogliamo citare candidati alla presidenza regionale della sua maggioranza? Il suo stesso partito? Quanto c’è di politico nelle convulsioni che agitano il centrodestra afflitto da anni dalla convinzione vana che Berlusconi sia finito e quanto di fuga a grandi bracciate verso zattere che assicurino un futuro?
Lei è andato a Porta a Porta con sincerità, mostrando ciò di cui è capace e per questo non posso che apprezzarla ma ha mostrato, ancor più, ciò di cui Lei e molti altri siete incapaci: la non comprensione del senso di un gesto politico, la estraneità ad un costume, la rivendicazione di ragioni individuali e non il rispetto di quelle di molti di noi. Edipo riuscì, per Lei invece l’indovinello della Sfinge della Politica rimane un enigma.
Di una cosa però le sono personalmente debitore: grazie a Lei possiamo mettere la parola “Fine” alla “teoria del quarantenne” e tornare a comprendere che l’età non è un discrimine in politica ne tanto meno una legittimazione, che non è vero che essere giovani o vecchi sia un valore in se ma è semplicemente una condizione che viviamo e non scegliamo.
Rimane forte invece ciò che l’atto della raccomandazione ha in sé negato, e cioè il valore del merito inteso come capacità e coerenza al servizio di una visione. Vision e Mission sono due cose che il management ha imparato studiando filosofia ma erano un patrimonio primo della politica che, professionalizzandosi e individualizzandosi, ha invece comodamente dimenticato. Forse qui sta il male del paese, ancor prima che nel suo debito pubblico.
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