Governo
Il PNRR, il futuro non arriva. Fascismo, il passato di La Russa non passa
La settimana che finisce e quelle che iniziano, guardando prima alla festa cattolica di Pasqua e poco più in là al 25 Aprile, hanno il pregio di portare al centro della scena pubblica dibattiti vitali per il futuro di questo paese, e il difetto di tornare a dare dignità pubblica a voci che, dalle istituzioni più alte dello Stato, reinventano la storia passata a favore del regime fascista e a discredito di chi vi si oppose.
Nei giorni scorsi, a seguito delle parole del ministro Raffaele Fitto sui ritardi accumulati negli adempimenti necessari a ottenere i fondi del PNRR, si è finalmente iniziato a parlare con qualche parvenza di onestà della questione. Ricapitoliamola, in breve. In piena prima ondata della pandemia, forse anche preda dell’emotività e della paura di quel momento, le istituzioni europee – stimolate da alcuni governi nazionali, tra cui sicuramente quello giallorosso guidato da Conte – decidono uno stanziamento monstre di risorse pubbliche da destinare, in prestito, ai paesi che ne faranno richiesta e avranno i requisiti, sostanzialmente in proporzione ai danni che i paesi stessi avranno subito a causa della panfemia. Il piano ovviamente si precisa col tempo, e ha bisogno che siano gli stati richiedenti a presentare progetti di investimento in vari ambiti, dai lavori pubblici alla sanità, che devono poi essere approvati prima genericamente e poi nello specifico al momento dello stanziamento dalla Commissione Europea. All’Italia, come noto, spetta la fetta teoricamente più grande dei fondi, 209 miliardi. Il piano ipotizzato da Conte viene modificato dal governo Draghi, e ufficialmente presentato in Europa e in Italia a fine aprile del 2021. Del governo che materialmente formalizza il piano facevano dunque parte tutte le forze politiche presenti in parlamento, ad eccezione dei Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni. Il 27 aprile 2021, al momento del voto in Parlamento, il partito della futura presidente del Consiglio tuttavia non votò contro, ma si astenne, come del resto i suoi europarlamentare avevano fatto in tutte le occasioni a Bruxelles, sul tema.
Fu la stessa Meloni a criticare, dal suo scanno a Monte Citorio, il fatto che il Parlamento aveva avuto poco tempo per esaminare un progetto di investimento e indebitamento così imponente, senza poter davvero discutere di un programma che avrebbe condizionato in modo importante il futuro del paese. E tutti i torti, va detto, probabilmente non li aveva: anche perchè è molto più facile rispettare il parlamento quando si è parlamentari di opposizione che non quando si è figure di governo. Poi, arrivata al governo, affidando i gangli del piano a quel Raffaele Fitto che aveva seguito criticamente il piano dal parlamentare europeo, la musica è cambiata. Ha centralizzato le decisioni e i passaggi a palazzo Chigi, cioè attorno a se stessa, e si è accorta di quelli che, fin dall’inizio, erano i problemi pratici del piano. Per usare l’efficace sintesi del superministro leghista per tutte le stagioni, Giancarlo Giorgetti, “la burocrazia italiana non è all’altezza del compito”. Non perchè in questo caso sia troppa e schiacciante, come l’antica retorica berlusconiana e leghista ha cantato per decenni, ma perchè poca, vecchia, non abbastanza formata. Soprattutto nelle piccole amministrazioni locali, ma non solo. Perchè sarà anche vero che i dipendenti pubblici sono molti e spesso mal impiegati, o impegnati ad applicare leggi che complicano la vita ai cittadini. Ma per un programma ambizioso come il PNRR servono professionalità che la PA non ha, che non aveva quando il piano è stato predisposto e che, a quanto pare, continua a non avere. A questi problemi strutturali, che attanagliano un paese che ha demonizzato e reso sempre meno appetibile il lavoro di qualità nel pubblico, si sono aggiunti e stratificati sicuramente errori commessi da diversi governi del passato e del presente. Ad esempio – per citare una questione che abbiamo sentito menzionare in diverse occasioni – è un errore l’aver vincolato le assunzioni “per il PNRR” alla sola durata del programma, il che rende poco appettibili le posizioni lavorative per professionisti qualificati. Poi sono arrivate inflazione e guerra, e quindi altra inflazione, a rendere ulteriormente problematico il timing, oltre che l’applicazione concreta, di misure espansive e destinate forse a mettere nuova pressione sui prezzi delle materie prime contro le quali le banche centrali combattono a colpi di inflessibili e depressivi aumenti dei tassi.
Come si vede a un primo sguardo, parliamo di molte questioni, e molto complesse. Come sempre nel nosrtro dibattito pubblico sono arrivate a emersione tardi e male, e hanno portato con sè polemiche di parte, rinfacci e rimpalli di responsabilità. Anche questa volta, come altre, la colpa è di diversi attori e diverse parti, e in generale c’è una colpa condivisa: non prendersi mai la responsabilità di dire, dall’inizio, la verità. In questo caso, avrebbe ragionevolmente significato dire che era giusto provare ad avere i fondi teorici più ricchi possibile, sapendo che sarebbe stato molto difficile spenderli viruosamente per intero. Che il livello della nostra Pubblica Amministrazione non risultava all’altezza del compito e difficilmente avrebbe potuto diventarlo in pochi mesi. Che di lavoratori specializzati, poi, non ce ne sono abbastanza neanche nel privato, come ha spiegato Carlo Luzzato, ad del gigante delle costruzioni, Pizzarotti, in un’intervista su La Stampa. Dopo anni di retoriche e propagande, ad esempio, sul reddito di cittadinanza come causa dell’assenza di manodopera, insomma, si potrebbe dire tutti insieme la verità. Non sarà facile e probabilmente non succederà, ma il fatto che un discorso serio e problematico venga a emersione proprio adesso che governa l’unica forza nata come “anti-sistema” che ancora non aveva avuto gli oneri e gli onori del potere esecutivo è tutto sommato positivo. Nessuno potrà più dire di non essersi cimentato con gli spigoli della realtà, almeno fino alla prossima volta.
Decisamente meno positivo, invece, è doversi confrontare ancora una volta, con le uscite da bar malfrequentato da relitti sanbabilini degli anni Settanta proferite naturalmente da Ignazio La Russa. Non facesse di mestiere il presidente del Senato, cioè la seconda carica dello Stato, potremmo alzare le spalle e dire: “va beh, ma è La Russa, che cosa vi aspettate?”. Solo che di mestiere, adesso, non fa più il capo di una corrente nostalgica del fascismo in un partito pieno di ex fascisti, e non è più nemmeno l’uomo di fiducia di Salvatore Ligresti che taglia e cuce tra Roma e Milano, tra la consulenza legale e il lobbysmo politico. Adesso in teoria ha proprio cambiato mestiere, e dovrebbe saperlo anche lui, che del suo “uomo di parte” ha fatto rivendicazione in un lungo discorso d’insediamento che sembrava pronunciate e scritto al più tardi nei primi anni Ottanta del 900 e invece eravamo nell’autunno del 2023. Dimentico di questo, o forse solo fedele a una cultura politica che fa storicamente fatica ad accettare la Costituzione italiana nata dall’antifascismo, ha riscritto in maniera penosa uno degli episodi più importanti della storia della Resistenza, sfociato nell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Costretto a denti stretti, o digrignati, a scusarsi, il presidente del Senato ha rappresentato in materia plastica l’essenza della classe dirigente che rappresenta. A settantacinque anni suonati, senza che nessuno gli abbia mai davvero chiesto conto di cosa ha prodotto una lunga stagione politica nella quale è stato potente, o molto potente, dagli scranni più alti delle istituzioni può dire gravi falsità che offendono la storia e la giustizia. Falsità, peraltro, che scaldano il cuore a poche migliaia di stupidi, e a qualche giovane giornalista che negli anni in cui La Russa faceva il saluto romano c’è solo nato. Contenti voi, ragazzi.
Intanto, nel presente, il paese ha altri guai. Ben altri guai. Del Pnrr abbiamo detto, e torneremo a dire. Ma tra le notizie della settimana che si chiude che colpiscono, per quel che dice in sè e per quel che rappresenta in proiezione, va ricordata la scoperta, effettuata dalla guardia di finanza, di 1951 lavoratori irregolari, i cui diritti sono stati violati o disattesi, all’interno del sistema della cantieristica navale di Fincantieri. Quasi duemila casi, che lavorano nell’indotto di una società controllata dal pubblico, cioè da Cassa Depositi e Prestiti. Immaginiamo che per chi governa sia più importante dire scemenze su via Rasella, minacciare multe da 100 mila euro a chi nella Pubblica Amministrazione eccede con l’inglese, o dichiarare improbabili guerra alla ricerca alimentare per accontentare le lobby degli allevatori intensivi italiani. È lo stesso principio per il quale è stato più importante ingolfare di retorica il discorso pubblico per qualche decennio, per poi trovarsi senza gambe per correre quando servivano teste e occhi per far arrivare un fiume di soldi dall’Europa. È quel che è successo e che – le premesse ci sono tutte – continuerà a succedere.
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