Giustizia

Un gattopardo digitale

27 Novembre 2020

La mia tessera di iscrizione all’Albo è ormai prossima alla maggiore età, mentre per Cassa Forense sono giunto all’incirca a metà del percorso che dovrebbe, non che ci speri troppo, condurmi alla pensione. Appartengo quindi ad una generazione mediana, per definizione non particolarmente fortunata, inevitabilmente frenata da chi l’ha preceduta e tallonata alle spalle da quella più giovane ed arrembante che l’ha seguita.

Uno dei pochi vantaggi di questa condizione consiste – almeno così mi piace pensare – nel riuscire ad osservare la professione con occhi piuttosto lucidi, non annebbiato dai ricordi di un mondo che non esiste più, ma ancora fermo sui principi che, da sempre e per sempre, so che ogni legale ha il dovere di coltivare in sé.

Negli ultimi vent’anni non c’è stile di vita che non abbia subito significativi cambiamenti: sono nati i social network; gli smartphone sono diventati, per molti, un’appendice irrinunciabile, in grado di incidere tanto sul lavoro quanto nella vita privata; internet ha consentito una inimmaginabile diffusione della cultura – e questo è un bene – in molti casi, però, di una cultura grossolana, inesatta e fallace – e questo è un male – mentre la mappatura del genoma umano ha aperto nuove prospettive alla scienza ed alla medicina che chissà per quanto tempo cercheremo di comprendere e studiare.

Nel medesimo arco temporale abbiamo visto crollare le Torri Gemelle e i titoli delle Lehman Brothers, abbiamo vissuto le guerre del primo decennio e le crisi economiche del secondo e, quando pensavamo che insomma, forse, almeno per un po’, le sorprese potevano bastare, ha bussato alla nostra porta Covid-19.

Molte professioni sono state condannate ad estinguersi, senza troppi complimenti, mentre altre sono nate dall’oggi al domani, ed in poco tempo hanno consolidato la propria presenza sul mercato, sicché oggi è più facile che le aziende vadano alla ricerca di un data analyst o di un social media manager piuttosto che di un capomastro o di un consulente finanziario.

Come esce l’avvocatura da questo travagliato ventennio? Probabilmente non benissimo, di certo più grande e più povera.

I 120 mila iscritti all’Albo degli anni duemila sono diventati oltre 240 mila alla fine del 2020. Oltre il doppio degli avvocati in un paese che non ha certo raddoppiato i propri abitanti, il cui numero è rimasto sostanzialmente invariato, e che prima che l’emergenza sanitaria stravolgesse le dinamiche dell’economia viveva già una paludatissima situazione di stallo, con un PIL inchiodato al palo ormai da tempo immemore.

Attualizzato ai nostri tempi, il reddito medio di un avvocato, alle soglie del 2000, sfiorava i 50 mila euro annui, mentre secondo le ultime statistiche disponibili, circa il 7 % dei colleghi, oggi, dichiara di non aver ricavato nulla dalla propria attività professionale, in un contesto in cui il 26 % dichiara un reddito non superiore ai 10 mila euro annui.

Le ultime statistiche prodotte da Cassa Forense offrono molti altri spunti, e compongono uno scenario su cui obiettivamente sarebbe opportuno riflettere, perché una categoria non più in grado di produrre un reddito adeguato, inevitabilmente fatica a conservarsi indipendente, e rischia di cedere alla tentazione di improntare la propria attività verso il perseguimento dei propri interessi, a discapito di quelli dei clienti.

Si spiega, purtroppo, (non solo ma) anche in questo modo l’ipertrofia del nostro contenzioso, caratterizzato da un’animosità che i legali anziché placare spesso cavalcano ed accendono.

Malgrado queste riflessioni siano sul tavolo ormai da tempo e in molti abbiano ben compreso la gravità della situazione, sembra che la categoria, nel suo complesso, proprio non riesca a produrre una convincente visione di prospettiva.

Dietro la ferrea difesa di alcuni malintesi tratti costitutivi della professione forense spesso si cela solo la convinzione, in realtà, che nulla debba cambiare.

 

L’avvocato, quindi, non viene considerato un vero avvocato al di fuori delle aule di giustizia, dove può ancora esibire superbo ed elegante la sua toga; deve conservare la propria indipendenza e non può avere datori di lavoro; non può proporre i suoi servizi in maniera, per così dire, poco elegante, perché ciò che le imprese inseguono attraverso sempre più sofisticate e costose campagne di marketing, per l’avvocato rischia di tradursi in accaparramento della clientela.

 

L’avvocato, quindi, non viene considerato un vero avvocato al di fuori delle aule di giustizia, dove può ancora esibire superbo ed elegante la sua toga; deve conservare la propria indipendenza e non può avere datori di lavoro; non può proporre i suoi servizi in maniera, per così dire, poco elegante, perché ciò che le imprese inseguono attraverso sempre più sofisticate e costose campagne di marketing, per l’avvocato rischia di tradursi in accaparramento della clientela.

Tre pillole quindi, tre semplici spunti di riflessione su cui ci si dovrebbe poter confrontare senza eccessiva retorica forense: il ruolo dell’avvocato fuori dal processo, i principi di autonomia e indipendenza, i limiti alla promozione “commerciale” dell’attività forense.

Oltre lo steccato di questi retaggi maturano, ormai da tempo, situazioni connotate da evidenti distonie.

L’avvocatura consulenziale, sviluppata al di fuori dell’ambito processuale, non è valorizzata né regolamentata e non gode di adeguata attenzione formativa. Eppure si rivolge, con ogni probabilità, al mercato di servizi più interessante e proficuo del momento, poiché assistere il cliente in una situazione di fisiologia, guidandolo nel coacervo di norme che sovrintende ogni attività d’impresa, potrebbe offrire interessanti prospettive di sviluppo. Ma servirebbe trovare il modo di riposizionare l’avvocato anche al di fuori della sua collocazione tradizionale, e liberarlo da una concezione che tende a nobilitare solo l’intervento ortopedico processuale, che sorge in fase di patologia, quando il cliente è già nei guai.

Per nulla autonomi, molti dei 240 mila colleghi iscritti all’Albo, svolgono in realtà un’attività lavorativa dipendente, assimilabile al lavoro subordinato, ma non possono beneficiarne delle garanzie e dei meccanismi di protezione.

Anche se il bivio presenta connotati drammatici, per quanto tempo ancora ci si può permettere di osservarlo senza imboccare una strada? Alcuni fondamenti dell’Ordine sono incompatibili con un numero così elevato di iscritti e non vederlo è segno di grande miopia.

Superare i principi di autonomia ed indipendenza, in tempi non molto lunghi, potrebbe minare la ragione costitutiva dell’Ordine e, di conseguenza, la sua stessa sopravvivenza, ma non affrontare il problema e limitarsi ad affermare apoditticamente, come da più parti invocato, che “la selezione la fa il mercato” significa sottovalutare il problema ed alimentare sacche di lavoro poco qualificato, scarsamente retribuito e svolto con sempre meno entusiasmo e disamoramento generalizzato verso la professione.

L’ordinamento deontologico, negli ultimi anni, ha registrato forti aperture nei confronti della comunicazione “promozionale” consentita all’avvocato, ma è ancora fortemente diffusa l’idea che il vero professionista dovrebbe restare chiuso nelle sue stanze, ad aspettare che il cliente bussi alla sua porta, al massimo affidandosi ad un nobile passaparola che gli porti una fortuna che sarebbe quasi disdicevole andare a cercare al di fuori dello studio.

A questo punto è opportuno allargare la riflessione all’informatica.

Che tra informatica e diritto il dialogo non sia sempre facile è risaputo, ed è spesso palpabile la sufficienza che porta molti professionisti a considerare l’informatica altro da sé, alla stregua di semplice strumento che, in alcuni casi, ha semplificato qualche procedura, in molti altri le ha complicate, ma tutto sommato forse si stava meglio prima.

Basta, tuttavia, riprendere le riflessioni fin qui condotte e introdurvi qualche pillola di informatica, per accorgersi che sarebbe un grosso errore sottovalutarne il potenziale impatto, anche in chiave strutturale, sul futuro della categoria.

Le realtà che si sono integrate con sistemi di comunicazione digitale, oggi decisamente performanti, hanno di fatto superato gli stucchevoli e anacronistici dibattiti su chi debba raggiungere chi: il tema non è più se sia il cliente a doversi recare presso lo studio dell’avvocato o viceversa, ognuno può restare al proprio posto, e l’incontro tenersi in videoconferenza.  Con pochi accorgimenti è possibile demolire i limiti territoriali della consulenza ed aprirsi ad un mercato, come poc’anzi accennato, in cui i servizi extragiudiziali offrono prospettive di crescita probabilmente irrinunciabili.

Molto spesso l’avvocato non è autonomo, e quindi non è indipendente, perché incapace di far fronte alle spese, ingenti, necessarie per il mantenimento di uno studio, ma sono infinite le soluzioni tecnico-informatiche in grado di ridurre l’incidenza delle spese nella gestione ordinaria di una professione che, in fin dei conti, ha natura puramente intellettuale, quindi esercitabile a prescindere da qualunque forma di sovrastruttura.

Paradossalmente, grazie agli strumenti sviluppati per far fronte al cosiddetto “lavoro agile”, si potrebbe superare perfino il concetto stesso di “studio”, ed affidarsi solo a qualche supporto ed una buona connessione alla rete.

Di sicuro non tutti gli iscritti all’Albo riuscirebbero a mantenersi solo grazie a questi accorgimenti, ma non c’è dubbio che in molti ne trarrebbero significativi benefici.

Mentre, infine, le imprese investono con sempre maggior convinzione e profitto nella comunicazione digitale, non si vede perché il mondo delle professioni dovrebbe mantenersi estraneo a tali dinamiche, vincolato da limiti deontologici discutibilmente sovrapposti a quelli normativi – forse in sé bastevoli – che già impediscono alle imprese di veicolare contenuti ingannevoli e aggressivi.

Riflessioni, spunti, nessuna pretesa di risposta, ma l’intima certezza che certi problemi vadano affrontati seriamente e che alcune scelte non siano ulteriormente differibili, pena la continua disgregazione di una professione indispensabile e nobile, che tale deve rimanere.

È un contesto delicatissimo che non ammette la presenza di un avvocato gattopardo, seppur evoluto in forma digitale, che appoggi in apparenza le innovazioni ma che, in realtà, non voglia cambiare nulla di sostanziale e miri unicamente a preservare i propri privilegi, al giorno d’oggi per lo più logori e sgualciti.

Chi si affida al motto “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima” non considera che esistono rivoluzioni inevitabili – e la professione forense ne sta vivendo una – e che se non si è in grado di guidare il cambiamento, il rischio è di finire per subirlo.

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