Giustizia

Mancata cattura di Provenzano, pseudo-trattative e altre stravaganze

26 Ottobre 2021

Non sono ancora state archiviate, giornalisticamente parlando, le fantasie relative alla presunta trattativa stato-mafia la cui esistenza è stata di fatto smontata dalla sentenza di appello del procedimento denominato “Bagarella+9”, seppur in attesa delle relative motivazioni, che le truppe cammellate pescano a piene mani in ogni dove alla ricerca delle loro certezze e, soprattutto, delle loro verità. Ancora una volta assistiamo a una citazione parziale delle carte processuali utilizzata a proprio uso e consumo al fine di legittimare nuove fantasiose tesi, non riscontrate, ma, soprattutto, senza porsi gli interrogativi necessari in questi casi proprio quando i testi citati, nel corso degli anni e dei diversi procedimenti, hanno fornito versioni diverse aggiungendo, mi si consenta un paragone gastronomico, il sale dopo aver assaggiato la pietanza già servita in tavola.

Sfruttano inoltre testi, a loro dire, di specchiata genuinità e coerenza dimenticando, spesso, la storia degli stessi testi che si trovano a citare, siano essi pseudo-collaboratori di giustizia, le cui dichiarazioni il più delle volte risultano non riscontrate, o rappresentanti dello Stato che hanno ricoperto, pro-tempore, incarichi investigativi.

Uno degli ultimi tentativi di sparigliare le carte è, sempre per giustificare improbabili trattative e quindi continuare a mettere in dubbio le recenti sentenze di appello relative al “Borsellino quater” e al “Bagarella+9”, quella relativa alla mancata cattura di Bernardo Provenzano che sarebbe dovuto avvenire nel 1995 principalmente grazie, a  dir loro, ad un affidabile confidente. Nello specifico si tratta di Luigi Ilardo, erroneamente definito collaboratore di giustizia, che, come indicato dalla sentenza della Corte di Cassazione emessa l’1 ottobre 2020 e le cui motivazioni sono state depositate in Cancelleria l’8 marzo 2021, il cui fatto oggetto di giudizio risulta rappresentato dall’omicidio commesso in Catania il 10 maggio del 1996 in danno di Ilardo Luigi. Costui, appartenente alla famiglia mafiosa nissena dei Madonia, venne raggiunto da numerosi colpi di arma da fuoco mentre si accingeva a fare rientro nella propria abitazione, sita alla via Quintino Sella di Catania. Si legge nelle motivazioni che «le fonti di prova esaminate nelle due decisioni di merito hanno consentito – nell’ottica esposta nelle motivazioni – di affermare che l’omicidio Ilardo venne ‘ordinato’ da Madonia Giuseppe (all’epoca del fatto detenuto) con mandato trasmesso agli esecutori da Santapaola Vincenzo (anch’egli detenuto). La fase esecutiva sarebbe stata curata da Zuccaro Maurizio, La Causa Santo, Cocimano Orazio, Signorino Maurizio e Giuffrida Piero».

A tutti gli effetti, l’Ilardo sin dal 1993, periodo in cui era detenuto nella casa circondariale di Lecce, è stato il confidente dell’allora tenente colonnello Riccio Michele, dell’Arma dei Carabinieri anche dopo la sua scarcerazione, avvenuta nel gennaio 1994 per motivi di salute. Durante il suo rapporto con il Riccio ha fornito, attraverso dichiarazioni spontanee, informazioni relative a “cosa nostra” e ha contribuito all’arresto di diversi sodali della compagine mafiosa. Sulla sua affidabilità e sul suo spontaneismo informativo, però, sorsero diversi dubbi, come risulta da una relazione della Direzione Nazionale Antimafia del 13 settembre 1995 indirizzata alla Procura della Repubblica – Direzione Distrettuale Antimafia di Palermo. Nella citata relazione si legge che peraltro, sui pochissimi spunti d’indagine, offerti da “Oriente” (nome in codice di Luigi Ilardo, ndr) e caratterizzati da un minimo di concretezza, venivano avviate approfondite attività investigative, autorizzate da codesta A.G. (intercettazioni telefoniche, servizi di osservazioni e pedinamenti) e di riscontro che, comunque, non sortivano alcun esito apprezzabile. In particolare, sull’abbrivio della certezza più volte manifestata dalla fonte e della conseguente aspettativa, rimasta delusa, di un incontro tra la fonte medesima e il PROVENZANO, per l’asserita indispensabile necessità di trattare al massimo livello questioni di importanza fondamentale per la “famiglia”, veniva, dall’Ufficio, predisposto, senza che venisse mai decisamente attivato, un complesso meccanismo d’intervento, per la realizzazione del latitante, con previsione d’impiego di reparti speciali, elicotteri attrezzati per il volo notturno e sofisticate apparecchiature di trasmissione a distanza di impulsi radio-satellitari. Progressivamente, però, il flusso d’informazioni provenienti dalla fonte per il tramite del RICCIO andava scemando sino ad una effettiva e sostanziale posizione di silenzio e di stallo che perdura, a  tutt’oggi, da circa quattro mesi».

Interessante notare, contestualmente, la posizione del Riccio che, si legge nella medesima relazione: «in tempi relativamente presumibilmente brevi, cesserà dal servizio prestato presso la Direzione Investigativa Antimafia per essere restituito alla Forza di polizia di appartenenza». A tal proposito «veniva, pertanto, data disposizione all’Ufficiale (Riccio, ndr) di attivarsi predisponendo contatti con fonte fiduciaria e misure opportune a realizzare il passaggio di gestione operativa della fonte medesima ad altro operatore, in persona di Ufficiale di P.G. già designato da questa Direzione». E, come riportato dalla medesima relazione, il Riccio “dopo reiterate richieste in questo senso ed a conclusione di una serie di tentativi rimasti in un primo tempo vanificati da asserite difficoltà a mettersi in contatto con “Oriente”, in data 7 settembre 1995 produceva una relazione di servizio, che si allega, con la quale riferiva dell’assoluta indisponibilità della fonte fiduciaria a stabilire contatti confidenziali con altri che non fosse lo stesso Riccio». La relazione porta la firma dell’allora Capo del II Reparto dottor Antonio Pappalardo.

A questo proposito, nell’informativa del Raggruppamento Operativo Speciale Carabinieri, I° Reparto Investigativo, protocollo n. 231 del 30 luglio 1996 avente per oggetto «Indagine “Grande Oriente”», indirizzata alle Procure di Caltanissetta, Catania, Palermo e, per conoscenza, alle Procure di Genova e Messina, si fa il punto sulle diverse confidenze e informazioni che l’Ilardo avrebbe fornito e si fa riferimento ad una serie di registrazioni spontanee rese dall’Ilardo stesso.

Nell’informativa si tratta anche l’argomento riguardante la cattura del boss Bernardo Provenzano che sarebbe dovuto avvenire grazie alle informazioni fornite dall’Ilardo che fu convocato, in quanto ancora organico all’organizzazione mafiosa e con compiti di responsabilità, dal Provenzano per discutere di problematiche relative la “famiglia” di Caltanissetta, cui l’Ilardo era organico. A questo proposito si legge che «dati i tempi ristretti di preavviso e non essendo pronto il materiale tecnico idoneo a garantire la cattura del latitante, in considerazione anche che l’incontro sarebbe avvenuto in territorio sconosciuto, in quanto in quel periodo il Provenzano si era allontanato da Bagheria, si decideva solo di pedinare il confidente. Servizio che veniva sospeso, allorquando, ci si accorgeva che i mafiosi, che proteggevano il latitante, stavano attuando manovre tese a verificare la presenza di eventuali servizi di pedinamento. I sopralluoghi svolti successivamente con la fonte, permettevano di localizzare il luogo degli incontri nonché identificare uno dei favoreggiatori del latitante».

A tal proposito vale la pena ricordare le dichiarazioni spontanee rese dal Generale Mori il 7 giugno 2013, nel corso del procedimento che vede imputato, oltre allo stesso Generale Mori anche il Colonnello Mario Obinu, che «è, invero, possibile che sulla rilevata inerzia investigativa abbia inciso la determinazione di non “smuovere le acque”, indotta, da una parte, dal timore per l’incolumità dell’ILARDO (e si è già evidenziato come tale preoccupazione fosse assai viva nel RICCIO) e, dall’altra, in linea con quanto dichiarato dal teste IERFONE, dall’attesa di un ulteriore incontro con PROVENZANO, che veniva previsto come certo, secondo quanto risulta, a tacer d’altro, dall’ottimismo del RICCIO riferito dal PIGNATONE».
Sempre nel medesimo documento si ha traccia del “carattere” investigativo del Riccio e il Generale Mori, che lo conobbe negli anni settanta del secolo scorso, quando entrambi erano parte del Reparto dei Carabinieri, comandato dal gen. Carlo Alberto dalla Chiesa, che operò nel contrasto al terrorismo. «In quella fase, che per me si chiuse nel 1985, quando venni assegnato allo Stato Maggiore dell’Arma, i miei rapporti con Riccio, seppure sempre corretti, non furono mai stretti e circoscritti esclusivamente all’ambito professionale. Lui operava a Genova ed io a Roma. Entrambi al comando di unità antiterrorismo, le Sezioni Anticrimine.
Ci separava un carattere diverso, ma soprattutto una concezione operativa quasi opposta, privilegiando io, con la quasi totalità dei colleghi impiegati nel settore, un’azione investigativa basata sul coordinamento dei reparti, mentre Riccio si segnalava per una marcata tendenza individualistica che escludeva la stretta collaborazione nelle indagini. Oltre a ciò, la sua prassi di lavoro, mi appariva connotata da una disinvoltura lontana dai canoni tradizionali della metodica investigativa dell’Arma in cui io, invece, mi riconoscevo».

E, sempre a proposito del possibile arresto di Bernardo Provenzano, il generale Mori afferma che «il 30 ottobre 1995, Riccio si presentò al ROS comunicandomi che la sera prima la sua fonte, denominata “Oriente”, da lui gestita a lungo e positivamente durante il periodo di permanenza alla DIA, lo aveva informato di essere stato contattato da Ferro Salvatore e Vaccaro Lorenzo, noti esponenti mafiosi, rispettivamente dell’agrigentino e del nisseno, che l’avevano convocata per un appuntamento, fissato per le prime ore dell’indomani 31.10.1995, presso il bivio di Mezzojuso, sulla strada di scorrimento veloce Palermo – Agrigento. Circostanza che la fonte, poi indicata da Riccio stesso in Ilardo Luigi, nato a Catania il 13.05.1951, “uomo d’onore” della famiglia di Giuseppe Madonia, non escludeva come potenzialmente propedeutica ad un incontro con Bernardo Provenzano. Nel corso di una riunione estemporaneamente indetta, alla luce delle indicazioni disponibili, malgrado la sostanziale incertezza su partecipanti, terreno e modalità dell’incontro – fattori questi determinanti ai fini dell’efficace adozione di una qualsivoglia scelta operativa – preliminarmente mi orientai sull’ipotesi di approntare un dispositivo che potesse eventualmente procedere al pedinamento dell’Ilardo e dei suoi accompagnatori, dal luogo dell’appuntamento sino al successivo intervento, qualora in una delle fasi del servizio si fosse riscontrata la presenza del Provenzano. Riccio, però, si mostrò decisamente contrario a tale soluzione, chiedendo un tipo di servizio mirato all’esclusiva documentazione dell’incontro al bivio di Mezzojuso, mediante l’osservazione a distanza dell’evento e la sua ripresa fotografica. Ciò anche in relazione all’indeterminatezza dei dati disponibili, con particolare riferimento alla località teatro dell’ipotizzato incontro ed alle modalità con cui il contatto si sarebbe potuto sviluppare. Tale soluzione, sollecitata a detta di Riccio anche dall’Ilardo, sarebbe servita a non fare sorgere sospetti sulla fonte, permettendogli, in prospettiva, di acquisire la piena fiducia degli interlocutori. Il tutto nella certezza, asseritamente espressa dalla fonte, di potere realizzare ulteriori incontri col latitante, con cui l’Ilardo aveva già contatti epistolari, così come poi sarà anche documentato nell’operazione “Grande Oriente” che ha tratto origine dall’indagine basata sulle notizie da lui fornite. Riccio si dichiarò altresì contrario a dotare la fonte di qualsiasi attrezzatura tecnica per la registrazione, nell’ipotesi, paventata proprio dall’Ilardo, che non si potesse escludere una perquisizione prima della prospettata riunione. In funzione di queste valutazioni, posta l’esclusività del rapporto fiduciario con la fonte che ne faceva il vero “dominus” per quanto si riferiva alla sua gestione, e su concorde parere degli ufficiali presenti, col. Giampaolo Ganzer e ten. col. Mauro Obinu, convenni con l’ipotesi, senz’altro corretta dal punto di vista tecnico, prospettata dal Riccio che, peraltro, sosteneva di operare in piena aderenza alle direttive della Procura della Repubblica di Palermo, che già dai tempi della DIA seguiva la sua attività, con delega affidata al sostituto procuratore Giuseppe Pignatone».

Risulta evidente che «il presupposto operativo concordato si fondò sulla decisione di dare vita esclusivamente ad un’attività consistente in riprese fotografiche e di controllo della zona circostante il bivio di Mezzojuso ed attendere le successive notizie fornite da Ilardo, evitando operazioni invasive su di un terreno non conosciuto e da ritenersi oggetto di osservazione da parte di elementi di “cosa nostra”» e che «a parte il fatto che anche Riccio, nelle sue dichiarazioni, ha ammesso che io, quel 30 ottobre 1995, avevo prospettato anche l’ipotesi dell’intervento repressivo, oltre ad essere il gestore della fonte, egli era il solo che conosceva tutti i pregressi sviluppi della vicenda e quindi era colui che poteva valutare meglio la situazione d i suoi possibili sviluppi».

E, a questo punto, vale la pena di osservare con attenzione la figura del Riccio che, il 22 maggio 1996 nell’ambito dell’inchiesta per l’omicidio Ilardo, fu audito dal dott. Sebastiano Ardita, magistrato della Procura della Repubblica di Catania, limitandosi a riferire quanto a sua conoscenza nel rapporto con l’Ilardo, senza avanzare accuse verso chiunque. Durante il dibattimento del procedimento “Mori-Obinu”, il Riccio lamenta di aver ricevuto pressioni per non fare menzione della riunione di Mezzojuso, dichiarazione non attendibile e impossibile perché della riunione erano a conoscenza, oltre a Mori e Obinu anche i magistrati della Procura di Palermo, oltre ai militari della Sezione Anticrimine di Caltanissetta che aveva svolto il servizio di osservazione su sua richiesta. Lamenta inoltre, sempre il Riccio, che sia stata omessa la parte del racconto di Ilardo che si riferiva ad alcuni politici ma solo il 31 luglio 1996, peraltro dopo diversi e ripetuti solleciti, il Riccio consegnò, al magistrato incaricato, l’informativa riepilogativa delle vicende relative al suo rapporto con Luigi Ilardo, denominata “Grande Oriente”, che venne indirizzata anche alle DDA di Caltanissetta, Catania e Messina. In realtà tutti i fatti e i nomi refertati dal Riccio sono stati oggetto d’indagini svolte sotto la diretta responsabilità dell’A.G. e quindi è riscontrabile che nessun nome sia stato omesso e che quindi, verosimilmente, nelle dichiarazioni dell’Ilardo non comparissero nomi di politici.

Sempre il Generale Mori nelle sue dichiarazioni spontanee dichiara che «sulla personalità di Riccio, ma anche e soprattutto su aspetti che hanno precise connessioni con le vicende trattate in questo processo, intanto, si è a suo tempo espresso anche il Gip del Tribunale di Catania, dott. Antonino Ferrara, nel procedimento n. 4932/99 R. GIP, con il quale, in data 19 aprile 2000 e in seguito delle richieste del PM, venivano archiviate, sia le illazioni calunniose formulate nelle sue agende dall’ufficiale nei confronti alcuni magistrati siciliani in relazione alla vicenda Ilardo, sia l’ipotesi successiva di calunnia verso gli stessi, una volta accertata l’inconsistenza delle sue accuse. Nella motivazione, dopo avere definito “farneticanti” le considerazioni accusatorie del Riccio, in particolare per ciò che si riferiva al dott. Tinebra, il giudice sosteneva che gli accertamenti svolti, testuale, “evidenziano una personalità assai incline all’autoesaltazione con un malcelato desiderio di porsi al centro dell’attenzione – che nei suoi appunti – si abbandona ad uno sfogo, senza alcun supporto di qualsivoglia natura, nei confronti dei magistrati e dei superiori“. Il tutto, nel tentativo di “ritagliarsi un ruolo”, non cedendo la gestione del proprio confidente che “gli sarebbe venuto meno con la collaborazione dell’Ilardo“».

Purtroppo, col tempo, il Riccio ha messo sale in una pietanza che riteneva, forse, insipida. Come nel caso delle sue dichiarazioni nel citato procedimento “Mori-Obinu” nella cui sentenza la corte «osserva che le appena riportate dichiarazioni rivelano la natura di certe informazioni o affermazioni dell’Ilardo (o della libera elaborazione che ne ha fatto il Riccio), fondate non su precise conoscenze, ma su congetture e, talora, su luoghi comuni» e che «esplicite annotazioni critiche concernenti la lacunosità delle indagini sono state vergate dal Riccio nella sua agenda solo dopo l’uccisione dell’Ilardo» e ancora che «è, ad avviso del Tribunale, evidente che, data la incerta attendibilità del Riccio sui temi immediatamente rilevanti sulla decisione delle imputazioni, le riportate indicazioni del predetto non possono essere assunte quale prova a carico degli imputati, specie se si considera che in quei frangenti era necessario agire con la massima cautela sul territorio interessato, piuttosto addentrato rispetto alla SS.121 e frequentato da possibili fiancheggiatori del Provenzano, per non mettere a rischio l’incolumità dell’Ilardo (che avrebbe potuto essere immediatamente sospettato di tradimento se, a ridosso dell’incontro, fosse stata rilevata una anomala attività investigativa) e, soprattutto, per non pregiudicare l’operazione in corso, che puntava essenzialmente (come meglio più avanti si preciserà) sulla possibilità offerta del previsto, nuovo incontro con il boss corleonese» e ancora che «in conclusione, la prudente gestione degli accertamenti sui luoghi in cui, secondo le indirette dichiarazioni del Riccio si è svolto l’incontro fra l’Ilardo ed il Provenzano, non può ritenersi del tutto ingiustificata e non può, pertanto, essere assunta ad elemento sintomatico della volontà degli indagati di salvaguardare la latitanza del capomafia».

Nelle conclusioni, si legge che «è vero che le peculiari circostanze che caratterizzarono l’episodio del 31 ottobre del 2013 e la stessa, personale esperienza investigativa del col. Riccio non consentono di nutrire alcuna certezza in ordine all’esisto fausto che la operazione avrebbe potuto avere se fossero state prescelte linee di azione diverse: si è già evidenziato come la peculiarissima prudenza usata nella gestione della latitanza del Provenzano abbia reso vano il ricorso a mezzi investigativi (intercettazioni, pedinamenti, osservazioni) che, a differenza che nel caso di specie, erano stati attivati nel corso della indagine denominata “Scacco AL Re”. E, come già rilevato, proprio il fallimento della pregressa attività investigativa può aver consigliato di puntare sull’auspicato, nuovo incontro del boss con l’Ilardo, che per molti mesi è stato ritenuto imminente».

Da quel 31 ottobre 1995 al giorno della morte di Ilardo, il 10 maggio 1996, l’auspicato secondo incontro non c’è stato. Secondo quanto riferito da Brusca, audito in occasione del procedimento “Bagarella+9” il 10 novembre 2015, le famiglie nutrivano un atteggiamento diffidente nei confronti di Ilardo, e se ne parlava apertamente. Incalzato dal Pubblico Ministero e dagli avvocati, Brusca si limita a descrivere un clima di sospetto tutto intorno a Ilardo, non di certezze “altrimenti – chiarisce – sarei intervenuto personalmente, anche se si fosse trattato della sola vicinanza ad un Vigile Urbano”. Ilardo faceva così tanto parlare di se stesso – all’epoca dei fatti, i suoi rapporti con Maurizio Zuccaro non erano idilliaci – che lo stesso Brusca informò Bernardo Provenzano con un “pizzino” (prodotto e fatto acquisire dal Pubblico Ministero), «ma Provenzano – racconta Brusca –, senza nascondermi il suo stupore, mi invitò a controllare le voci che correvano sul conto di Ilardo». Infine Brusca aggiunge: «non ho memoria che le commissioni regionale e provinciale di Cosa nostra si siano riunite per decidere l’omicidio di Luigi Ilardo, altrimenti, per rispetto, mi avrebbero avvisato».

È apparsa «pienamente verosimile – si legge nella sentenza definitiva per l’omicidio di Ilardo – che la reale motivazione della decisione di uccidere Ilardo fosse l’intervenuta consapevolezza – in capo al Madonia ed ai suoi più stretti accoliti – della attività di confidente da Ilardo posta in essere ma tale ragione, come spesso è avvenuto nei contesti mafiosi, non venne in quel momento disvelata e si preferì “addossare” ad Ilardo la responsabilità dell’omicidio Famà (l’avvocato ucciso nel 1995, ndr), sì da determinare la sicura adesione – asseriscono i giudici della Suprema Corte – dei Santapaola al progetto omicidiario». «Ilardo “doveva” essere eliminato in quanto confidente delle forze dell’ordine» scrivono ancora i giudici «con mandato proveniente da Giuseppe Madonia e veicolato tramite Santapaola Vincenzo».

L’assoluzione di Mori e Obinu divenuta definitiva ha fatto mancare, facendo altresì diventare azzardato servirsene, un pezzo tutt’altro che secondario nel teorema della trattativa che oggi, anche alla luce delle risultanze processuali sia dell’appello del “Borsellino quater” sia del “Bagarella+9” sembra essersi disgregato per sempre.

E i ROS sotto processo? Può sembrare inutile dire, ma non lo è, che si tratta degli stessi ufficiali su cui avevano riposto la propria fiducia il dottor Falcone prima e il dottor Borsellino poi. Gli stessi ufficiali che realizzarono il dossier “mafia-appalti”, quel dossier investigativo realizzato dal Ros e voluto da Giovanni Falcone. Quel dossier investigativo che, nonostante il costante tentativo di sminuirne l’importanza e, addirittura, considerarlo una semplice indagine locale, conteneva un’approfondita analisi delle connessioni tra le famiglie mafiose siciliane, i loro interessi, le connessioni con la politica e quelli di grandi aziende coinvolte in appalti locali. Delegittimare loro significa delegittimare il loro operato complessivo e le loro inchieste. Significa delegittimare il dossier “mafia-appalti”.

Dopo la richiesta di archiviazione firmata dagli allora sostituti procuratori della Repubblica di Palermo Guido Lo Forte e Roberto Scarpinato il 13 luglio 1992, senza averlo comunicato al dottor Paolo Borsellino che aveva manifestato in diverse occasioni il suo interesse per il proseguo dell’indagine scaturita dal dossier, l’allora Procuratore della Repubblica Pietro Giammanco approvò la richiesta il 22 luglio 1992, approvazione che portò il 14 agosto 1992 all’archiviazione del procedimento e alla restituzione degli atti.

Il 22 luglio 1992 il corpo di Paolo Borsellino era ancora caldo.

Con buona pace dei vari Purgatori, Ranucci, Giletti e company.

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