A che serve uno Stato se non protegge i deboli come Cucchi?
Sulla sentenza che, in appello, ha assolto tutti gli imputati nel processo per la morte di Stefano Cucchi è stato già scritto molto, in questi due giorni. Sulla vergognosa presa di posizione del sindacato di polizia SAP (“In questo paese bisogna finirla di scaricare sui servitori dello Stato le responsabilità dei singoli, di chi abusa di alcol e droghe, di chi vive al limite della legalità. Se uno ha disprezzo per la propria condizione di salute, se uno conduce una vita dissoluta, ne paga le conseguenze”), già noto per iniziative di altissimo livello come gli applausi agli agenti condannati per la morte di Federico Aldrovandi e per gli stretti legami con esponenti politici di destra, c’è pochissimo da aggiungere. Così come non merita commento lo squallido gesto di amici e parenti degli imputati che insultano i familiari della vittima.
Il titolo più efficace, stamattina, lo ha fatto Il Manifesto: “Nessuno è Stato”. Quel titolo esemplifica molto bene il senso di disagio che molti stanno provando di fronte a uno stato incapace di giudicare se stesso: è “Lo stato che assolve lo stato”, come ha scritto Jacopo Tondelli riassumendo brevemente gli eventi e il significato della vicenda. I temi sono, tristemente, sempre gli stessi: l’impunità delle forze dell’ordine, l’atteggiamento omertoso dell’autorità, la distanza dello stato dai cittadini, l’assenza di una regolamentazione del reato di tortura, la situazione delle carceri e dei carcerati. Il rischio, sempre più reale, è che la perdita di fiducia nelle istituzioni diventi generalizzata e irreversibile: siamo già a buon punto, e sentenze come questa contribuiscono a peggiorare il problema. E se è razionalmente comprensibile l’atteggiamento degli imputati perché, come ha ben scritto Mattia Granata, “ognuno degli imputati da solo ritiene di non aver cagionato una morte, peraltro avvenuta, e quindi ognuno, salvando se stesso, avvia la catena di sant’Antonio che alla fine produce l’impunità di tutti.”, non per questo esso è giustificabile, e non per questo diventa accettabile che la responsabilità individuale delle persone coinvolte nell’omicidio venga da una sorta di responsabilità collettiva, peraltro del tutto impalpabile.
C’è chi ha svolto queste riflessioni, dopo la sentenza di ieri e già prima, in seguito alla morte di Stefano e poi alla sentenza di primo grado, in modo più approfondito e preciso di come possa fare io – chi fosse interessato può leggere il libro Mi cercarono l’anima. Storia di Stefano Cucchi o, sulla tematica più in generale, Quando hanno aperto la cella. Stefano Cucchi e gli altri. Quello che mi preme sottolineare, invece, è un aspetto per nulla secondario della vicenda che non è emerso a sufficienza. Casi come questo portano inevitabilmente a cedere all’indignazione e alla sua inseparabile compagna, la semplificazione. E se una certa qual dose di semplificazione può essere d’aiuto, nel momento in cui si voglia prendere una posizione netta e veicolare un messaggio forte e chiaro, quasi sempre finisce per offuscare il giudizio e provocare approssimazioni e inesattezze.
Non si può sostenere, come hanno fatto in tanti, che “Poteva toccare a chiunque. Potevi essere tu, tuo fratello, il tuo migliore amico”. Stefano Cucchi non era una persona qualunque. Stefano Cucchi soffriva di epilessia e aveva una storia personale di marginalità: un passato – e, in parte, un presente – di tossicodipendenza, una storia di disagio psichico e una mai chiarita propensione all’anoressia. Ammettere queste semplici verità non significa in alcun modo sostenere che se la sia cercata, o schierarsi con la – purtroppo folta – schiera di quelli che “se non si fosse drogato non sarebbe morto”. Assodato che tutti gli elementi relativi alla marginalità di Stefano (droga, epilessia, eventuale stato di magrezza patologica) non hanno avuto alcun ruolo nella dinamica della sua morte, che è stata invece causata dal violento pestaggio che ha subito e dall’assenza di cure adeguate, ammetterli e portarli al centro del discorso contribuisce a mettere in luce una volta di più la gravità della vicenda. “Non c’è giustizia per gli ultimi”, ha dichiarato Ilaria Cucchi dopo la sentenza di primo grado: ed è proprio questo uno degli aspetti centrali della situazione, uno dei temi sui quali riflettere.
La marginalità di Stefano, il suo essere uno degli “ultimi”, ne faceva una delle persone alle quali lo stato dovrebbe dedicare i maggiori sforzi di protezione, di aiuto. Una di quelle persone che, per qualche verso più fragili o più deboli di altre, hanno bisogno più degli altri di trovare l’appoggio della società. E invece, in un rovesciamento vergognoso della sua funzione e della sua ragion d’essere, è proprio contro queste persone che lo stato rivolge la sua violenza: trasformando così la debolezza in una colpa, e certificando in questo modo il proprio tragico fallimento.
E se oggi il problema maggiore è in seno alla giustizia, e ha a che fare con l’incapacità dello stato di controllare i controllori, e di giudicare se stesso, la questione è in realtà più ampia e più grave. Perché chiama in causa il modello di società in cui viviamo: che non accetta la marginalità e il disagio, e sfoga la sua incapacità (o mancata volontà) di attuare delle politiche inclusive proprio su quei deboli e quegli ultimi che dovrebbe aiutare e proteggere. Il fatto che, molto probabilmente, non potrebbe succedere a noi di essere arrestati e picchiati a morte da chi dovrebbe proteggerci nell’indifferenza e nel disprezzo di chi dovrebbe curarci non dovrebbe farci sentire al sicuro, o peggio far sì che ci consideriamo distanti. Al contrario, dovrebbe farci capire la gravità di questa vicenda, perché siamo tutti coinvolti: la società siamo noi.
E poi vi chiedete perché vi odiamo
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