Giustizia
Ci siamo dimenticati dei detenuti con disturbi mentali
Quattro lettere, un piccolo mondo: Rems, residenze per la esecuzione delle misure di sicurezza. È lì dentro che le persone con malattia mentale che hanno commesso reati scontano il loro periodo di detenzione e vengono curate. Ma come funzionano queste strutture che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici giudiziari, chiusi sull’onda di una vera e propria emergenza nel 2015? Di esse si sa ben poco. Il ministero della Giustizia dice di sapere solo quanti e quali sono i posti liberi. Il ministero della Salute fornisce giusto l’elenco di queste strutture sanitarie, che sono in capo alle Regioni. Ma, come lamentano alcune associazioni che si battono per i diritti dei detenuti, manca un organismo di coordinamento nazionale. E il risultato, in effetti, pare avere un che di arlecchino.
In alcune ci sono sbarre alle finestre. In altre, no. In alcune si pratica ancora, in casi estremi, la cosiddetta contenzione fisica, con i pazienti immobilizzati a letto. In altre, la maggior parte, no. Per alcune, poi, ci sono lunghe liste d’attesa, attesa che qualcuno trascorre anche in carcere. E per altre, no. E se alcune sono piccolissime, altre accolgono più di cento persone. E l’elenco delle differenze potrebbe continuare.
La legge, in teoria, è uguale per tutti. In pratica, per le persone con malattia mentale, in Italia, non è mai stato così. Da sempre esiste per loro quello che viene chiamato un binario ad hoc: se si viene ritenuti incapaci di intendere e di volere, non si va in prigione, ma in una Rems. Ma una Rems in Friuli non è esattamente come una in Lombardia o in Puglia. Domanda: ma esista una forumla di Rems migliore di un’altra? Risposta: difficile dire perché mancano dati: uno su tutti il tasso di recidiva. In altre parole, non sappiamo quante delle persone che passano in queste residenze, una volta uscite, tornano a commettere reati. Il ministero della Giustizia non l’ha mai calcolato.
Provvisoriamente
Le Rems in Italia, a fine 2019, erano 30 e ospitavano in totale 601 persone. Circa il 70% di queste residenze, però, si trova ancora in una sede provvisoria. Ne abbiamo visitate tre. La prima è a Castiglione delle Stiviere, in provincia di Mantova: dovrebbe traslocare perché occupa ancora i locali del vecchio ospedale psichiatrico giudiziario. Ma oltre il “dovrebbe” non si va, perché del nuovo progetto, a Castiglione delle Stiviere, non hanno posato nemmeno la pietra numero 1. La seconda, a Spinazzola in Puglia, a quattro anni dall’apertura, è in una sede provvisoria, in un padiglione di un poliambulatorio: fino a un anno fa, mancavano perfino gli arredi della sala da pranzo. La terza, ad Aurisina, in provincia di Trieste, sempre in una sede provvisoria, stava per chiudere causa lavori urgenti.
Realizzare queste nuove residenze non è semplice. Ma sono passati ormai dieci anni da quando la commissione parlamentare d’inchiesta guidata dall’allora senatore Ignazio Marino scoprì i casi di «disumano abbandono» che fecero balzare agli onori delle cronache gli Opg, cioè gli ospedali psichiatrici giudiziari, le strutture che allora ospitavano, in alcuni casi in condizioni realmente degradanti, chi aveva commesso un reato ed era stato giudicato incapace di intendere e di volere.
E sono ormai passati altri sei di anni, da quando il Parlamento ha deciso la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari italiani e ha istituito le Rems: strutture più piccole, più moderne, pensate per essere in grado di offrire agli ospiti percorsi di cura e riabilitazione efficaci. Eppure, secondo l’elenco fornito dal ministero della Salute, 20 strutture su 26 stanno ancora aspettando una sede definitiva.
Castiglione, tra passato e presente
Gianfranco Rivellini è uno psichiatra e lavora a Castiglione delle Stiviere dal 1998, prima all’ospedale psichiatrico giudiziario e ora alla Rems. Spiega che il problema non sono i soldi: «Nel 2012 per realizzare queste residenze erano disponibili da subito 172 milioni di euro a livello nazionale, grazie alla Finanziaria 2011. Sono passati otto anni, ma…». Ma Lombardia come nella maggior parte delle altre Regioni, queste strutture ancora non ci sono.
Gli edifici non sono malconci: anche la commissione parlamentare d’inchiesta non rilevò particolari criticità. «L’ospedale – si legge nella relazione finale – consta di vari edifici, in condizioni verosimilmente buone, dislocati in un ampio parco verde recintato(…)».
Visitando la Rems sembra che poco o nulla sia cambiato da allora. Ma una Rems non dovrebbe essere come un ospedale psichiatrico giudiziario: neppure dal punto di vista delle strutture. Un decreto ad hoc, varato 8 anni fa, stabilisce i requisiti di queste residenze, fissando anzitutto un limite: non più di 20 posti. I pazienti a Castiglione oggi, invece, sono 160.
La contraddizione è stata risolta distribuendo i pazienti su otto moduli, di cui uno femminile. Una soluzione provvisoria, che però dura da un po’ di anni. Essite un progetto per costruire sei nuove residenze, da 20 posti ciascuna, sempre a Castiglione delle Stiviere, in un’area non lontana da quella oggi occupata dall’ex ospedale psichiatrico giudiziario. Tre dovrebbero essere pronte nel 2022. Altre due Rems da 20 posti dovrebbero essere realizzate a Milano.
Mura vecchie, metodi nuovi
Per ora però i nuovi edifici esistono solo sulla carta e questa Rems di Castiglione delle Stiviere rimane la più grande d’Italia: nessun’altra struttura ospita così tante persone. E questo ha attirato non poche critiche. «L’ex Ospedale psichiatrico giudiziario di Castiglione ha sì cambiato denominazione: ora è “Sistema polimodulare di Rems provvisorie”, ma è sostanzialmente rimasto, a partire dagli edifici e dal numero dei posti letto, ciò che era prima della riforma che ha chiuso gli Opg», scrive l’Osservatorio per la salute mentale di StopOpg, l’associazione di medici, psicologi e persone della società civile che si è battuta per anni per il superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari.
Critiche che chi lavora a Castiglione respinge con forza. Gli ospedali psichiatrici giudiziari erano sostanzialmente degli istituti di detenzione,che facevano capo al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Le nuove Rems sono invece strutture sanitarie regionali. Il senso della riforma non era cambiare il nome, ma il modo di lavorare. E il modo di lavorare, dice Elena Marrucci, coordinatrice di un reparto che si chiama Aquarius, a Castiglione è cambiato eccome: «Prima noi infermieri facevamo prettamente servizio di custodia e sorveglianza. Oggi abbiamo cambiato metodo: siamo passati alla presa in carico del paziente. Vengono valutate potenzialità e bisogni, vengono strutturate attività e giornate. L’obiettivo fondamentale è la riabilitazione».
La chiave di volta di questo cambiamento? È aumentato il personale: qui lavorano 215 tra medici, infermieri, psicologi e terapisti. Si è ridotto il numero degli ospiti. «Con meno persone, è anche più facile vivere gli spazi vitali e costruire rapporti. Il paziente si deve fidare di te», sottolinea Patrizia Bozzola, coordinatrice dell’area riabilitava della Rems.
Camminando per i vialetti all’interno del parco della Rems, non posso fare a meno di notare le sbarre alle finestre, ma anche la quantità di servizi a disposizione dei pazienti. Oltre alla piscina e a un campo da calcio, c’è una scuola dove, tra l’altro, si fanno corsi di alfabetizzazione per gli ospiti stranieri, che qui sono ben un terzo degli ospiti. C’è una chiesetta. C’è anche un bar che serve anche per fare corsi per chi vuole lavorare nel campo della ristorazione. Sembra un piccolo paese, ma il paese vero, Castiglione delle Stiviere, dista qualche chilometro. A separare la residenza dalla campagna c’è una cancellata altissima. E sopra la cancellata il filo spinato.
Eventi critici
«Ha visto sbarre e filo spinato? Vede, è che in caso di allontanamento, noi siamo responsabili», fa notare Stefano Pellizzardi, il direttore della Rems di Castiglione delle Stiviere. Qui del resto si seguono alcuni aspetti del regolamento penitenziario: «Questa è una struttura che serve per la esecuzione di una pena detentiva. Il nostro committente è la magistratura», aggiunge. La contenzione fisica, con il paziente legato al letto, si usa sempre meno, assicura Pellizzardi, anche se a volte in casi sporadici può essere necessaria, per il minor tempo possibile, per preservare la salute e l’incolumità del paziente e degli altri: «Proprio l’anno scorso abbiamo licenziato un protocollo che regolamenta questa procedura, che prevede degli step molto stretti».
È Roberta Dotti, dirigente delle professioni sanitarie della Rems, che spiega questi step: «Tutti gli operatori sono in grado di utilizzare tecniche di de-escalation per ridurre la aggressività espressa. Nel momento stesso in cui il contenimento relazionale non è più sufficiente, ci può essere, come consiglia la letteratura, il contenimento di tipo ambientale: si mette il paziente in un ambiente in cui lui stesso possa abbassare i toni. Una stanza? Sì, una stanza in cui non ha più gli stimoli irritativi che possono essere gli altri pazienti, gli operatori, i disturbi o le allucinazioni ambientali… E solo in caso di estrema necessità, la contenzione chimica e poi…». E poi, appunto, quella a letto.
All’interno della Rems di Castiglione non ci sono guardie o vigilanti, solo personale sanitario e ci sono stati casi di ospiti che hanno aggredito operatori. Casi simili purtroppo sono accaduti anche nella maggior parte delle altre Rems, in questi anni. Secondo i dati raccolti attraverso un questionario dall’osservatorio di StopOpg, tra marzo 2015 e aprile 2019, ci sono state in tutto 202 aggressioni ad altri pazienti e 161 aggressioni a membri dello staff. Solo cinque Rems hanno dichiarato di non avere avuto eventi critici di questo genere.
Inoltre, il problema degli allontanamenti, cioè dei tentativi di fuga, è reale: sempre i dati elaborati da StopOpg sulla base dei questionari rivelano, tra marzo 2015 e aprile 2019, che ci sono stati 98 pazienti che hanno cercato di scappare dalle Rems.
Ma per quel che riguarda la contenzione, Castiglione fa ormai parte di una minoranza. Sempre secondo i dati raccolti dall’Osservatorio sulla salute mentale di StopOpg, il 75% delle Rems non hanno utilizzato, tra marzo 2015 e aprile 2019, questa pratica fortemente restrittiva delle libertà personali, che di recente è finita nel mirino del garante dei detenuti, Mauro Palma, per via di un incidente avvenuto nel reparto psichiatrico di un ospedale.
Numeri che mancano
Tornando ai numeri, va detto che quelli di StopOpg sono però dati parziali: riguardano solo 24 strutture su 31, quelle che hanno risposto al questionario. Non ci sono dati nazionali ufficiali sugli eventi critici. L’ufficio stampa del ministero della Salute sostiene che questi dati sarebbero «verosimilmente in possesso» di altri, e cioè «del Dipartimento per l’Amministrazione penitenziaria del ministero della Giustizia e delle Regioni, amministrazioni che hanno competenza primaria in materia».
Il ministero della Giustizia risponde di essere «escluso dalla gestione delle Rems, strutture prettamente sanitarie (…). Rispetto al monitoraggio ed alla verifica della situazione delle Rems, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ha la contezza» solo «della disponibilità o indisponibilità dei posti letto presso le stesse strutture».
E le Regioni? Sedici su 20 utilizzano un database, che si chiama Smop (Sistema informativo per il monitoraggio del superamento degli Opg). Un software made in Campania. A crearlo, nel 2008, è stato il Laboratorio di sanità penitenziaria “Eleonora Amato”, guidato da Giuseppe Nese: «Il nostro sistema copre il 95% del nostro territorio nazionale, le Regioni sono tutte convenzionate tranne il Friuli, Trento, Bolzano, Valle d’Aosta e Umbria».
Perché manca un’unica regia a livello nazionale? «Le Regioni devono comunicare al ministero della Salute alcune informazioni. Informazioni che le Regioni inseriscono direttamente nel sistema (Smop, ndr) e se il ministero lo ritiene, accede. Se poi mi si chiede se serve un coordinamento centrale, io dico che assolutamente serve e tutte le Regioni sono di questo avviso», risponde Nese.
Fatto sta che lo Smop svolge molte funzioni ed è in grado di elaborare diverse statistiche, in particolare sui flussi in entrata e in uscita, come il numero degli ospiti (601) delle Rems a fine 2019. Ma neppure Smop rileva i dati sulle aggressioni o sul ricorso alla contenzione, e tantomeno elabora il tasso di recidiva.
Nese, comunque, ha una sua idea: «Il sistema documenta che la salute mentale italiana – a dispetto delle pure esistenti difficoltà, criticità, riduzione di risorse – regge perfettamente a questo compito. In tutte le Rems d’Italia, in tutti questi anni, ci sono stati quattro suicidi. Provi a ricordarsi quanti suicidi avvenivano quando c’erano gli ospedali psichiatrici giudiziari…».
A Spinazzola, dove Tommaso cerca di ripartire
Quella degli ospedali psichiatrici giudiziari è una pagina del nostro arcipelago carceri ormai chiusa. Per chi ha vissuto quell’esperienza, però, è difficile dimenticare: «Le finestre avevano il ferro; i letti pure erano di ferro e attaccati a terra; anche il televisore aveva il ferro davanti… Era tutto di ferro. Era duro, ci ho fatto due mesi, poi mi hanno mandato in un carcere normale», dice Tommaso (nome di fantasia), uno degli ospiti della Rems di Spinazzola, piccolo paese sulle montagne sopra Barletta.
Tommaso, dopo quella volta, ha combinato un altro “guaio”, una rapina. Nella sala comune della residenza, uno stanzone con una televisione a schermo piatto e tavoli e sedie per tutti racconta le attività di gruppo che scandiscono la giornata: «Stamattina abbiamo fatto addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni…». Esercizi per allenare la mente. Si allenano anche le abilità sociali, simulando delle situazioni. «Poi curo anche l’orto e faccio palestra qui dentro, e lunedì vado anche in palestra fuori. Partecipo ogni giorno ad attività, perché mi piace farle», dice sempre Tommaso.
È Giusi Lombardo, la psicologa della Rems di Spinazzola, a spiegare il senso di questo lavoro: « È chiaro che se hanno commesso reati è perché la malattia non è stata gestita adeguatamente. Cerchiamo di dargli stimoli e fargli scoprire che sanno fare delle cose. Quindi il lavoro riguarda sia la consapevolezza di essere malati che la capacità di gestire la malattia in maniera adeguata. Obiettivo: tornare sul territorio più capaci di gestire se stessi con la prospettiva che il rischio della recidiva di reato si riduca».
Questa Rems pugliese, a differenza di Castiglione, non è isolata. Occupa praticamente l’intero primo piano del poliambulatorio di Spinazzola: su un lungo corridoio si affacciano le stanze degli ospiti e le aree comuni. C’è anche un laboratorio di informatica, ma i pazienti non possono accedere al web.
Per sicurezza
«Dovremmo utilizzare il regolamento del carcere, anche se lo applichiamo in maniera molto più lassa», mi spiega Antonio Lattanzio, direttore della Rems di Spinazzola. Gli ospiti, però, in questi primi quattro anni di vita, non hanno dato particolari problemi e non c’è mai stato bisogno di ricorrere alla contenzione, con il paziente immobilizzato a letto.
I problemi, semmai, sono stati e sono altri. Lo staff è ridotto. La Rems ha uno psichiatra e mezzo, cioè Lattanzio che fa il direttore e un secondo medico a metà, per così dire, tra la Rems e il Dipartimento di salute mentale. Dovrebbero essere cinque. «Gli spazi sono molto ristretti: non abbiamo una sala colloqui; c’è una sola stanza per i medici; con i vecchi computer che abbiamo fatichiamo perfino ad aprire la posta», dice sempre il direttore della Rems di Spinazzola.
Anche in questo caso, il progetto per una sede definitiva c’è già: la Rems dovrebbe traslocare in una ex scuola, sempre a Spinazzola. Dal punto di vista burocratico è tutto pronto. Ma ancora bisogna preparare il primo sacco di cemento
In coda
Altro problema non da poco a Spinazzola, è la lista d’attesa: nella Rems c’è posto per 20 pazienti; le persone che devono entrare, però, sono ben 25. Venticinque persone che aspettano. Chiedo se può capitare che alcune siano anche in carcere, nonostante siano stati riconosciute incapaci di intendere e di volere. «Alcune sì. In maniera completamente impropria. E d’altro canto così come ci sono persone in altre strutture che dovrebbero entrare in Rems perché hanno ancora pena da scontare, noi abbiamo persone che sono in dimissione da noi che hanno difficoltà a trovare altre strutture fuori dalla Rems. È un circolo vizioso che bisognerebbe interrompere», risponde sempre Lattanzio.
Zero attesa a Trieste
La situazione in Friuli Venezia Giulia è esattamente all’opposto. A Trieste, per esempio, la lista di attesa per entrare in Rems è azzerata. Eppure i posti a disposizione sono soltanto due. E zero, praticamente, sono anche le misure di sicurezza: non ci sono vigilanti o sbarre o altro. «Quando le persone arrivano chiariamo bene che noi non abbiamo né porte chiuse, né cancelli, ma che se il paziente va via da lì, finisce nei pasticci», spiega Arturo Crippa, psicologo e direttore del servizio abilitazione residenze Rems di Trieste.
Ma funziona? «Funziona sempre. Noi cerchiamo subito di creare un’alleanza con la persona, affinché la persona possa arrivare ad un’altra misura più attenuata che non sia la Rems, come nello spirito della legge. Lavoriamo celermente per farli riuscire da là dentro. Andare via, non gli conviene… E poi per noi, è importante che questo sia un luogo aperto, perché vogliamo che si abbatta il paradigma che questi siano dei pazzi, criminali furiosi, perché non è vero, tranne in rari casi. Per questo abbiamo creato un posto attraversabile e frequentabile: facciamo feste con le scuole di Aurisina: la festa di San Nicolò; la Befana. Poi facciamo concerti, la grigliata di sera, il cineforum che organizziamo ogni estate, con un film a settimana…», dice Crippa.
«Oltre le Rems»
La Rems si trova in un paesino, Aurisina, a una ventina di minuti da Trieste: occupa due stanze in una palazzina come tante che ospita altri corsi ed attività del paese. Attorno c’è un bel giardino e un orto. La struttura, però, ha appena chiuso, temporaneamente, per lavori: c’era da sistemare l’impianto elettrico. L’unico ospite è andato in una comunità. Zero ospiti, oltre che zero in lista d’attesa, quindi.
Com’è possibile? «Nel nostro sistema, non produciamo situazioni che vanno a rischio Rems. Lavoriamo intensamente con la magistratura, con le forze dell’ordine e si prova a tenere in carico le persone anche accompagnandole nelle vicende giudiziarie. Se finiscono in carcere, noi continuiamo a seguirle in carcere o nel caso, agli arresti domiciliari», risponde Crippa. Che sul tema giustizia e malattia mentale, dopo anni passati in prima linea prima in Campania, all’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa e ora in Friuli, ha una sua idea ben precisa: «La Rems, in sé, non serve a niente. Serve la presa in carico importante, che fa sì che la persona possa ritrovare se stessa. Questa è la questione che non è stata risolta dalla legge che ha lasciato i due percorsi paralleli, quello della incapacità di intendere e di volere e della pericolosità e quello della pena. Se una persona che fa un atto è una persona che in qualche parte di se stessa comunque è presente dovrebbe poter scontare la pena per quello che ha fatto».
Chiedo allora a Rippa se dal suo punto di vista, quindi, una persona con malattia mentale dovrebbe essere giudicata come qualunque altra persona. E lui risponde che sì, «potrebbe essere giudicata. Poi bisogna mettere in piedi dei progetti e dei programmi che permettono alle persone di essere seguite adeguatamente. La persona è anche malata, ma non è solo la malattia: Basaglia ci ha un po’ insegnato questo».
Ergastoli bianchi, addio
Uscito dallo studio di Rippa, ritrovo proprio il Posto delle fragole, la statua del Marco Cavallo e tutti gli altri segni tangibili dell’eredità di Franco Basaglia, lo psichiatra che da qui, da Trieste, innescò la rivoluzione che negli anni Settanta portò alla chiusura dei manicomi. Una rivoluzione che in fondo si è chiusa solo cinque anni fa con la chiusura anche di quegli ospedali psichiatrici giudiziari, che dei manicomi non avevano il nome, ma ne riproponevano in parte la logica.
Prima della legge Basaglia, in manicomio si entrava e si rischiava di non uscire più. Prima della riforma che sei anni fa ha istituito le Rems, chi entrava in Opg rischiava di fare la stessa fine: se una persona veniva ritenuta pericolosa socialmente, continuava a restare dentro; un fine pena certo non c’era. Era il fenomeno dei cosiddetti ergastoli bianchi. Un fenomeno che ormai è stato consegnato definitivamente alla storia.
La legge oggi dice chiaramente che una persona non può stare in Rems per un periodo di tempo più lungo della pena massima prevista per il reato che ha commesso. E i dati elaborati da Smop dicono che nei cinque anni da cui esistono, le Rems hanno accolto 1.763 persone e che 1.274 sono già uscite. È un grande risultato.
«La riforma funziona, ma è finita in un cono d’ombra»
La riforma, dunque nel complesso funziona? Sì, dice Stefano Cecconi. Sindacalista, a lungo responsabile Sanità della Cgil, e membro attivissimo dell’associazione StopOpg, Cecconi ha visitato praticamente tutte le Rems: «Ho trovato una grande consapevolezza della riforma da parte degli operatori e una voglia di misurarsi con una sfida difficile: il nostro è un paese unico al mondo non soltanto con la chiusura dei manicomi, ma ora anche con la chiusura dei manicomi giudiziari». Ma c’è un grande ma, secondo lui: «Il tema di fondo è che purtroppo i fari sulla chiusura degli Opg si sono spenti, gli unici accesi rimangono i nostri (quelli dell’Osservatorio sulle Rems di StopOpg, ndr) e questo non va bene. Quello che serve è ripristinare l’organismo di monitoraggio sugli Opg che era costituito da Regioni, governo e magistratura».
Il rischio, secondo Cecconi, è che le Rems possano conoscere un declino e un degrado. E trasformarsi un domani di nuovo in qualcosa di pericolosamente simile ai vecchi ospedali psichiatrici giudiziari. E poi c’è il rischio, anche, che si creino troppe differenze tra regione e regione, come in effetti è in parte già avvenuto. «Questa divaricazione tra territori è un tratto tipico del sistema italiano e non riguarda solo le Rems. Abbiamo un sistema sanitario che è eccessivamente differenziato», dice sempre Cecconi.
Certo, ci si poteva pensare prima, osserva Michele Miravalle, ricercatore dell’università di Torino e attivista di Antigone. Miravalle, che proprio sugli Opg ha scritto anche un libro, lo dice chiaro e tondo: «Nel momento in cui si è approvata la legge 81 (la legge che ha chiuso gli Opg e istituito le Rems, ndr) si doveva promuovere un organismo di coordinamento nazionale che avesse anche il compito di raccogliere i dati e monitorare il processo di passaggio, ma temo che la questione Opg si stia lentamente infilando in un cono d’ombra, di disinteresse e che si corra il rischio che ritornino storture di recente passato». Uno dei problemi sul tappeto, oggi, è in particolare quello delle liste d’attesa: secondo l’ultimo rapporto Antigone sulle carceri, nelle Rems ci sono circa 600 ospiti e altrettante persone che aspettano di entrare. Ma secondo Miravalle, più che costruire nuove Rems bisognerebbe agire sul modo in cui la riforma è applicata dalla magistratura: «Una buona parte di quelle persone in lista d’attesa sono persone cui viene disposta una misura di sicurezza provvisoria. Magari se i giudici per le indagini preliminari approfondissero un po’ più il caso, si scoprirebbe che quella persona non ha bisogno della Rems, ma potrebbe andare benissimo in un percorso di cura sul territorio e quindi stare in una situazione di libertà vigilata».
La responsabilità, dunque, è in gran parte dei magistrati? Paola di Nicola, gip al tribunale di Roma, non ci sta. Di Nicola, che al tema ha anche dedicato alcuni articoli, con queste questioni si misura ogni giorno e spiega come in realtà i problemi spesso nascano proprio dalle difficoltà dei cosiddetti servizi sul territorio, cioè Asl e servizi sociali, a gestire persone in difficoltà: «La gran parte delle situazioni nascono da condizioni di disagio psichiatrico: la famiglia tenta di farlo curare, ma il soggetto non si cura; la patologia peggiora e si aggiungono le dipendenze…», che fanno come da innesco e si arriva a commettere un reato. Sono casi, dice il giudice, che spesso sfuggono ad Asl e servizi sociali e che in Rems trovano una soluzione: «Perché le Rems funzionano. Consentono l’ingresso di persone malate che vengono avvicinate alla consapevolezza della necessità di cura».
«Meglio prevenire»
Di Nicola, insomma, ne è convinta: basterebbero poche Rems in più per risolvere la questione liste d’attesa. Questa è una soluzione, secondo la giudice, ma non l’unica: «Verosimilmente basterebbe investire economicamente nei servizi di salute mentale e nei servizi socio-assistenziali per ridurre fortemente la commissione di reati e quindi l’esigenza di Rems. Perché se curo prima di arrivare a livello massimo di pericolosità, non arrivo alla commissione del reato». Avessimo numeri più precisi sul disagio psichiatrico che determina reati, questo risulterebbe evidente, dice Di Nicola. Ma alcuni dati, come il tasso di recidiva che potrebbe mostrare con quali percorsi le persone tornano a delinquere o delinquono meno, appunto, mancano. «Un fenomeno che non viene quantificato numericamente è un fenomeno che evidentemente non vuole essere affrontato», chiosa Di Nicola. E dire che viviamo pure nell’era dei big data.
(Questa inchiesta è stata chiusa a gennaio 2020)
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