Geopolitica

L’assassinio di Soleimani, i venti di guerra e le presidenziali a novembre

4 Gennaio 2020

L’uccisione del maggior generale iraniano Qassem Soleimani a Baghdad ha conquistato le prime pagine dei giornali di tutto il mondo, inclusi quelli italiani (tendenzialmente assai più focalizzati sulle vicende interne che su quanto accade in una regione, il Medio Oriente e Nord Africa, strategica per gli interessi geopolitici e geoeconomici nazionali).

I fatti, prima di tutto: nei pressi dell’aeroporto di Baghdad, in quell’Iraq dove da anni si gioca una partita di rilievo tra gli Stati Uniti, l’Iran e le potenze sunnite, Soleimani è stato ucciso da un raid americano che ha eliminato anche altri personaggi di peso, in primis Abu Mahdi al-Muhandis (vice-presidente del gruppo paramilitare Hashd al-Shaabi, tra gli artefici del recente assedio all’ambasciata americana a Baghdad).

Era probabile che Soleimani sarebbe stato ucciso, prima o poi. Capo della famigerata Forza Quds delle potenti Guardie della Rivoluzione (unità speciale attiva nei principali teatri del Medio Oriente e dell’Asia Centrale), Soleimani era considerato uno degli uomini più influenti del regime iraniano. Secondo alcuni, il secondo uomo più potente della Repubblica islamica, dopo l’ayatollah Khamenei. Ciò non stupisce, considerando che negli ultimi due decenni le Guardie della Rivoluzione si sono trasformate nel vero pilastro di un regime fragile, in crisi di consensi, sempre meno teocratico e sempre più stratocratico (fenomeno, per inciso, diffuso in altre aree della regione, ad es. in Egitto, dove l’esercito è la spina dorsale del regime di Al Sisi).

Soleimani era considerato uno degli uomini più influenti del regime iraniano. Secondo alcuni, il secondo uomo più potente della Repubblica islamica, dopo l’ayatollah Khamenei. Ciò non stupisce, considerando che negli ultimi due decenni le Guardie della Rivoluzione si sono trasformate nel vero pilastro di un regime fragile, in crisi di consensi.

Negli anni Soleimani era scampato a innumerevoli attentati. Molti i suoi nemici: dai sauditi agli israeliani, dai fanatici dell’ISIS agli americani stessi. E se la lotta proprio all’ISIS aveva generato una sorta di gentlemen’s agreement tra Soleimani e i suoi avversari occidentali (in ossequio al principio “il nemico del mio nemico è mio amico”), la disfatta dell’ISIS aveva contribuito a riacutizzare le tensioni. Specialmente in Iraq, che dai tempi del crollo del regime di Saddam Hussein si trova in una linea di faglia molto pericolosa.

Alla fine non è stato il Mossad o l’intelligence saudita, ma Washington, a uccidere Soleimani. Un atto, dicono alcuni commentatori, finalizzato non solo a punire il colpevole di centinaia di morti americane, ma a far capire a Teheran che la pazienza statunitense ha un limite; che gli attacchi alle raffinerie saudite, le azioni contro le petroliere nello stretto di Hormuz (la giugulare dell’economia mondiale, perché da qui transita quasi un quarto della produzione globale di greggio), e le manovre contro la presenza americana in Medio Oriente non saranno più tollerati.

Purtroppo a destabilizzare la regione non è soltanto Teheran. Concorrono in modo altrettanto rilevante attori alleati di Washington, come l’Arabia Saudita; che è la principale responsabile della catastrofica situazione in Yemen, e che da anni chiede agli USA di “tagliare la testa del serpente [iraniano]”. Ancora, bisogna ricordare come il presidente Trump e il suo entourage abbiano fatto di tutto per aggravare la situazione. L’uscita degli Stati Uniti dal PACG, nel 2018, è stato un grave colpo ai tentativi europei di risolvere l’annoso problema del “nucleare iraniano”, e di sostenere i riformisti iraniani, che rappresentano la sola realistica speranza di trasformazione democratica dell’Iran.

Uscendo dal PACG, varando le sanzioni, uccidendo Soleimani, Trump ha contribuito in modo significativo a rafforzare le forze iraniane ostili ai diritti umani, alla democrazia, alla libertà: uomini come Khamenei, come Salami (comandante delle Guardie della Rivoluzione), come Ahmad Jannati (a capo sia dell’Assemblea degli Esperti, sia del Consiglio del Guardiani della Costituzione). Le sanzioni hanno indebolito l’economia, a scapito della presidenza di Hassan Rouhani; l’uccisione del capo di Quds ha regalato nuovi argomenti retorici, e ulteriore peso politico, al nazionalismo iraniano, compattando l’opinione pubblica della Repubblica islamica.

Uccidendo Soleimani, Trump ha contribuito in modo significativo a rafforzare le forze iraniane ostili ai diritti umani, alla democrazia, alla libertà: uomini come Khamenei, come Salami (comandante delle Guardie della Rivoluzione).

E a proposito dell’assassinio di Soleimani: la forma qui conta quanto la sostanza. Da decenni il Mossad, per esempio, conduce in tutta la regione (e non solo) operazioni ardite per neutralizzare i più pericolosi nemici dello Stato ebraico; negli ultimi vent’anni è stato sospettato di aver ucciso uomini-chiave di Hamas, del programma nucleare iraniano, delle forze armate siriane, delle Guardie della Rivoluzione ecc.

Com’è noto, queste operazioni vengono realizzate dal Mossad nel modo più segreto e discreto possibile, e solo molto di rado Israele ne riconosce la paternità. Questo per vari, ovvi motivi: ad esempio per non destabilizzare ulteriormente la regione, o per non esporre ancora di più i propri cittadini al rischio di rappresaglie. Last but not least, commettere un omicidio di Stato in un paese straniero viola la sovranità di quel paese (come ha denunciato indignata Baghdad nel caso di Soleimani), e quindi è un grave vulnus al diritto internazionale.

Washington avrebbe potuto imitare Israele. Eliminare il suo nemico in silenzio, lasciando un alone di mistero attorno all’omicidio. Il Pentagono, invece, ha subito reso noto che Soleimani era stato ucciso dalle forze armate americane per ordine del presidente. E Donald Trump ha enfatizzato quello che probabilmente ritiene un suo personale trionfo twittando una grande bandiera americana. In questo modo, con quel tweet, Trump ha chiarito la vera, tragica ratio dell’uccisione di Soleimani: il calcolo politico ed elettorale.

Washington avrebbe potuto imitare Israele. Eliminare il suo nemico in silenzio, lasciando un alone di mistero attorno all’omicidio. Il Pentagono, invece, ha subito reso noto che Soleimani era stato ucciso dalle forze armate americane per ordine del presidente.

Com’è noto, sul presidente grava la spada di Damocle dell’impeachment. Che a prescindere dal suo esito, rischia di arrecare un gravissimo danno alla sua popolarità (già oggi il tasso di approvazione di Trump è inferiore al 43%, nonostante le prestazioni dignitose dell’economia). Un presidente sotto impeachment, vulnerabile alla corrida dell’opposizione, dei media e di una parte dell’industria culturale, è un’anatra zoppa poco presidenziale, con minori chances di rielezione a novembre (cioè tra meno di un anno).

Al contrario il rischio di una guerra potrebbe rafforzarlo, distraendo una parte dell’opinione pubblica, e saldando il fronte repubblicano con quello dei moderati apartitici che alle beghe della politica antepongono la sicurezza dell’America. In Europa, purtroppo, il patriottismo è spesso un rifugio delle canaglie, ma oltreoceano esporre la bandiera, e sostenere il presidente quando l’America è in guerra, è un atteggiamento alquanto comune: non solo in Texas o North Dakota, ma in swinging states decisivi per le presidenziali come l’Ohio e la Florida.

Per non parlare di una guerra. La storia ci insegna che i presidenti in guerra vengono (quasi) sempre rieletti. Fu il caso di Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale, di Lincoln nel corso della Guerra Civile, di Nixon in piena Guerra del Vietnam, di Bush jr durante la tragica occupazione dell’Iraq (se Bush sr, nel 1991, avesse ordinato alle sue divisioni di continuare la guerra, occupare Baghdad, e rovesciare il regime di Saddam Hussein, forse sarebbe stato riconfermato; e invece la Guerra del Golfo si concluse nel febbraio del 1991, e le elezioni si tennero quasi due anni dopo).

La storia ci insegna che i presidenti in guerra vengono (quasi) sempre rieletti. Fu il caso di Roosevelt durante la Seconda Guerra Mondiale, di Lincoln nel corso della Guerra Civile, di Nixon in piena Guerra del Vietnam, di Bush jr durante la tragica occupazione dell’Iraq.

“Don’t change horses in mid-stream”. Così si dice. Se scoppiasse un conflitto con l’Iran, una rielezione di Trump sarebbe ancora più probabile. Ovviamente l’Iran non è l’Iraq scalcinato di Saddam Hussein, e un intervento militare contro la Repubblica islamica avrebbe conseguenze umane, geopolitiche, economiche e diplomatiche gigantesche.

Senza ipotizzare lo scenario peggiore, e di gran lunga più improbabile (ossia un’invasione via terra del gigantesco paese), basterebbe un “intervento soft” contro Teheran per far scivolare il Medio Oriente, il Nord Africa e l’Asia Centrale nel caos, e far schizzare alle stelle il prezzo del greggio. Per esempio, il combinato disposto di bombardamenti aerei USA e dei paesi del Golfo sui centri industriali e militari iraniani, e di un blocco navale massiccio (attraverso la Quinta Flotta, il cui dispositivo militare è stato assai rafforzato a maggio), potrebbe senz’altro scatenare rappresaglie sanguinosissime dal Khyber Pass a Tel Aviv, da Tripoli a Dubai, ma difficilmente provocherebbe un’insurrezione democratica a Teheran (o persino un colpo di stato).

Certo, tensioni nella regione gioverebbero ad alcuni degli alleati-chiave di Trump, ad esempio Netanyahu in Israele o le lobby idrocarburiche negli Stati Uniti, ma scherzare con il fuoco è sempre pericoloso. Il cosiddetto “intervento soft” è ancora improbabile, ringraziando il Cielo, ma ogni dichiarazione incendiaria, ogni minaccia da una parte o dall’altra, ogni nuovo soldato che viene mobilitato lo rendono più concreto.

Ecco perché il mondo, a partire dall’Europa, deve subito bloccare una escalation che potrebbe causare decine di migliaia di morti, e danni economici incalcolabili a importatori di energia come l’Italia, la Germania o il Giappone. La diplomazia deve fermare, prima che sia troppo tardi, i giochi spregiudicati di un presidente pericoloso per il suo paese, per l’Europa, e per il mondo.

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