Sovranisti e populisti all’assalto dell’Europa. Francia e Germania nel caos

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5 Ottobre 2024

Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro dei movimenti politici populisti e sovranisti. Karl Marx si rivolterebbe certamente nella tomba a sentirsi parafrasare in questo modo, e ci scuserà, ma le avanzate elettorali dei partiti collocati alle estreme degli emicicli parlamentari in questo 2024 si stanno diffondendo nel Vecchio Continente, e stanno conseguentemente generando consistente allarme nelle capitali europee, non diversamente dal Comunismo del filosofo tedesco quasi due secoli fa. Soprattutto quelli collocati a destra. Se le elezioni per il Parlamento Europeo di Giugno hanno rappresentato l’esplosione del fenomeno, con gli exploit del RN in Francia e del AFD in Germania, la crescita della destra sovranista, quasi sempre caratterizzata da un’elevata dose di populismo, è ormai un fatto consolidato di questi anni, che non accenna a ridimensionarsi, e anzi promette di proseguire, con il perseguimento dell’obiettivo di modificare radicalmente gli assetti politici continentali. Sia nei singoli paesi, che a livello di Unione Europea, il binomio Popolari-Socialisti, con la partecipazione di Liberali e, più limitata, dei Verdi, che ha retto l’Europa per oltre settant’anni, rischia di essere seriamente messo in discussione, con conseguenze non facili da prevedere, anche sulla stessa evoluzione dell’integrazione comunitaria. Con Italia e Olanda che hanno già salutato la salita al governo, in posizioni di predominanza, di forze sovraniste, e in attesa delle presidenziali americane del prossimo novembre, Le tornate elettorali per l’Assemblea Generale francese e per tre lander della Germania orientale tenute quest’estate hanno incrementato tali preoccupazioni. A complicare ulteriormente il quadro è la quasi speculare crescita dei partiti estrema sinistra, spesso con caratteristiche oggi definite rossobrune, con posizioni radicali sulle questioni sociali e non troppo lontane dalla destra su immigrazione e posizionamento internazionale. Jean-Luc Melenchon e Sara Wagenknecht ne sono un esempio. Le urne austriache di fine settembre non hanno fatto altro che confermare la tendenza, premiando un partito, l’FPO, che non disdegna di strizzare l’occhio al nazismo, mentre, non troppo in lontananza, si intravedono l’esiziale competizione che si svolgerà tra un anno per il “Bundestag” di Berlino e possibili, se non probabili, nuove elezioni politiche a Parigi. Francia e Germania, il cui rapporto è da sempre il motore principale del processo di integrazione europea, sono ormai il cuore della contesa.

 

Sotto la Tour Eiffel, il caos è giunto a livelli mai visti dai tempi del Maggio. La complessa e rischiosa operazione politica condotta da Emmanuel Macron con lo scioglimento dell’Assemblea Generale a seguito dell’esito pesantemente negativo, per la sua maggioranza, delle elezioni europee, si è apparentemente risolta con l’insediamento di un governo di minoranza, presieduto da Michel Barnier. Non sfugge a nessuno la precarietà di tale soluzione, che pare avere la principale funzione di prendere tempo, in vista di una resa dei conti rinviata non di molto. Lo spauracchio del RN di Marine Le Pen, in testa dopo il primo turno alle politiche di fine giugno, ha risuscitato il barrage repubblicano, che ha impedito al partito erede del FN di accedere per la prima volta alla responsabilità di governo. Tuttavia, i rapporti tra il centro macroniano e il centro-destra gollista da una parte, e la sinistra, egemonizzata da LFI di Melenchon, dall’altra, si sono rivelati, come prevedibile, ben lontani dal livello minimo necessario a garantire una collaborazione di governo. La crescita delle forze estreme, a destra come a sinistra, e il logoramento del campo presidenziale dopo sette anni di governo tra complicato contesto e tentativi di riforme, hanno prodotto tre schieramenti che si oppongono tra loro lanciandosi la reciproca accusa di sovvertire la democrazia. I risultati elettorali hanno inoltre determinato che, tra questi tre campi, nessuno abbia la maggioranza. Scenario italiano, si potrebbe dire. Per la prima volta dall’inizio della Quinta Repubblica i francesi si trovano di fronte all’assenza di una maggioranza, dopo che per decenni il sistema ideato da De Gaulle, grazie in particolar modo al sistema di voto a doppio turno, aveva garantito il bipolarismo. Per nulla abituati ad esplorare soluzioni di larga maggioranza, alla tedesca o all’italiana, a Parigi hanno individuato la via d’uscita nella nomina di un governo che si regge sulla non sfiducia (con reminiscenze da Italia anni ’70), permesso dalla costituzione che non prevede un voto di fiducia iniziale al governo. Una soluzione che rischia di portare però poco lontano, perché, dopo i dodici mesi in cui è fatto divieto costituzionale di convocare nuovamente i seggi, il RN potrà staccare la spina all’esecutivo nel momento più opportuno, facendo saltare il tacito compromesso stipulato con Macron, su cui esso si basa. Il governo Barnier, appena entrato in carica, si trova già a dover affrontare problemi enormi, a cominciare dalla prossima legge di bilancio, in una nazione che viaggia con un deficit pubblico in crescita, verso il 6%, un debito pubblico al 110%, il più alto rapporto di spesa pubblica/PIL e una situazione sociale esplosiva, con gli ultimi anni passati tra i vandalismi dei gilet gialli e i disordini verificatisi durante le proteste contro la riforma delle pensioni dello scorso anno. Proprio tale riforma, che ha elevato l’età di pensionamento da 62 a 64 anni (in Italia, eccezioni a parte, è di 67 anni, per dire), sarà certamente oggetto delle richieste di modifica o abolizione da parte delle opposizioni, soprattutto da sinistra, ma tornare indietro significherebbe porre una pietra tombale sulle prospettive di risanamento di un bilancio già disastrato. Un bel problema.

 

Il radicalismo insito nella storia della Francia urbana si rivolge oggi contro le riforme economiche dell’era Macron, in inedita alleanza con la protesta della campagna, iniziata con i discussi provvedimenti del 2018 sul prezzo dei carburanti. Giacobini e vandeani, verrebbe da dire, marciano divisi per colpire uniti il tecnocrate elitario che ha tentato di riformare la Francia in direzione di un liberalismo temperato dalla solita immancabile grandeur d’oltralpe. Le urne di giugno e luglio hanno fotografato tale realtà. Sfortunatamente, tutto questo accade nell’anno in cui entra in vigore il nuovo patto di stabilità e crescita dell’UE, reso ancor più stringente rispetto a quello sospeso durante la crisi del Covid. E quindi, che fare, con le piazze che ribollono, le urne che puniscono qualsiasi tentativo di riduzione dell’enorme peso dello stato nell’economia nazionale, ma pur sempre con i burocrati di Bruxelles pronti ad alzare il sopracciglio di fronte ai conti dell’Esagono? “Benvenuti nell’era del populismo fiscale. Quella dove aumentare le entrate è diventato tabù, quasi come tagliare le spese. E dove la riconversione ambientale mette pressione ai bilanci pubblici ma causa anche frustrazione e rabbia nei cittadini, chiamati a sostenere spese rilevanti”. Le parole di Mario Seminerio, sul suo blog Phastidio.net ben inquadrano la situazione, mentre le opposizioni, di entrambi i segni, alle ultime legislative non sono state capaci di presentare altro di diverso che programmi improntati alla genericità e alla demagogia. Non a caso, una delle prime polemiche che stanno minando il nuovo governo ha riguardato l’eventuale imposizione di nuove tasse, che Barnier ha annunciato, pur se limitatamente a grandi aziende e titolari di alti redditi, nel primo discorso all’Assemblea Generale. L’altra, invece, come era prevedibile, ha interessato il problema dell’immigrazione e della gestione di un paese ormai multietnico, almeno nelle grandi città, a cominciare da Parigi, con il Ministro degli Interni, il gollista Bruno Retailleau, subito pronto a dichiarare che bisogna “espellere di più e regolarizzare di meno”. Gli afflussi di immigrati e la difficile gestione dell’ordine pubblico, con i sempre più frequenti episodi di violenze, spesso ad opera di jihadisti, generano allarme sociale e sono alla base di un gran numero di voti di protesta, indirizzati verso il RN. Marine Le Pen, il cui partito al primo turno delle legislative ha conseguito il 33% dei voti, è oggi la prima favorita per raggiungere il secondo turno delle presidenziali, fissate nel 2027, sempre che Macron non si dimetta prima. L’erede del patriarca Jean-Marie è però anche la protagonista di un vero e proprio riposizionamento dello spettro politico francese, capace, nonostante la sconfitta ai ballottaggi di luglio, che ha rivelato ancora una certa debolezza dell’ossatura della sua formazione politica, di condizionare in maniera decisiva il dibattito pubblico, e lo stesso programma di governo. Quest’anno il fronte repubblicano ha retto, ma per quanto lo potrà fare ancora? La Francia, stretta tra l’obbligato rigore sui conti pubblici e i roboanti quanto inattuabili slogan di destra e sinistra, attende di saperlo.

 

Se la situazione della Francia appare complicata, non migliore sembra essere quella della Germania. Anche qui, il termometro incaricato di misurare la comparsa della febbre sono state le elezioni europee dello scorso giugno, con AFD volata a quasi il 16% e, fatto ancor più rilevante, classificato come secondo partito, dietro la CDU-CSU e davanti a SPD e Verdi. La coalizione di governo ha visto i propri suffragi ridursi a meno di 1/3 dell’elettorato, a poco più di un anno dalle elezioni federali, programmate per il settembre 2025. Ma non era finita: il mese di settembre appena trascorso, che vedeva recarsi al voto i Lander di Sassonia, Turingia e Brandeburgo, ha registrato una valanga di voti per il partito di estrema destra, divenuto il primo soggetto politico ad Erfurt, e fermatosi per un soffio al secondo posto a Dresda, dietro la CDU, e nello stato baltico, storica roccaforte dei Socialdemocratici, che sono riusciti faticosamente a riconfermarsi in testa. La serie di colpi ravvicinati subiti dalla coalizione semaforo non ha mancato di lasciare segni evidenti sui partiti di governo, il cui Cancelliere, Olaf Scholz, appare ormai un pugile suonato. Se SPD e Verdi denunciano gravi emorragie di suffragi, i Liberaldemocratici (FDP) del Ministro delle Finanze Christian Lindner rischiano addirittura di sparire dal Bundestag, tra dodici mesi. Le debacle elettorali hanno provocato le dimissioni dei vertici federali dei Grunen, e fatto diffondere le voci su una possibile crisi di governo, a seguito dell’uscita del FDP, poi smentite. Per quanto la CDU-CSU guidata da Friedrich Merz sembri godere di ottima salute, e la sua prevedibile vittoria alle prossime elezioni federali non faccia altro che confermare la sana pratica dell’alternanza di governo, l’impetuosa crescita dei Nazionalisti, sommata ai sorprendenti ottimi risultati di Sarha Wagenknecht, fuoriuscita dalla Linke e ora leader di BSW, mettono seriamente a rischio la futura governabilità del più importante stato d’Europa, dopo aver reso un rompicapo quella di almeno un paio di lander della ex Germania Est. L’ex ragazza cresciuta nell’organizzazione giovanile della SED ai tempi della DDR ha svuotato di voti gli ex compagni della Linke, con la sua linea politica radicale tutta orientata a favore dei diritti e dei bisogni dei lavoratori tedeschi, fino al punto di manifestare indifferenza, se non ostilità, nei confronti dei migranti e del popolo ucraino martoriato dalla Russia di Putin. Rossobrunismo in purezza. Le preoccupazioni maggiori, però, inevitabilmente, vengono da AFD. Un anno fa i nazionalisti tedeschi erano sulla graticola, sotto la pressione di decine di migliaia di manifestanti in numerose città, che ne chiedevano la messa al bando, in seguito allo scandalo del convegno di Potsdam, tenuto insieme a gruppi neonazisti per programmare la remigrazione. Eppure oggi vengono premiati dall’elettorato, soprattutto nell’ex Germania Orientale, ma non solo. Le posizioni estreme su immigrazione, interpretazione della storia tedesca, nazismo incluso, alleanze internazionali e diritti civili non impediscono ad una gran quantità di Burger di identificarsi nel partito guidato dalla coppia Chrupalla-Weidel, considerato da molti come unica baluardo in grado di difenderli dalle insicurezze generate da inflazione, crisi economica, multiculturalismo e crescita del fenomeno migratorio. Il cordone sanitario imposto dagli altri partiti fino ad ora ha retto, ma è lecito chiedersi, anche nella terra di Kant, fino a quando potrà essere sostenuto, in modo particolare nei lander orientali.

 

 

La crisi politica a nord delle Alpi si lega e si accompagna ad un altrettanto grave crisi economica. La Germania, in pochi anni, è passata dall’essere la locomotiva a fanalino di coda d’Europa, colpita pesantemente dalle conseguenze della transizione ecologica e della guerra in Ucraina. Berlino si appresta a far registrare, nel 2024, il secondo anno consecutivo di contrazione del PIL, dovuto soprattutto alla drammatica situazione in cui versa la propria industria. In particolar modo, è il settore automotive, storica eccellenza dell’apparato produttivo tedesco, a togliere il sonno a politici e dirigenti delle case automobilistiche. Le vendite di auto nel 2024 sono pesantemente calate, e sono addirittura crollate quelle del segmento elettrico (BEV), che non hanno potuto beneficiare degli incentivi federali sfruttati gli anni precedenti. L’annuncio, da parte di Volkswagen, della chiusura di due stabilimenti nel territorio nazionale, e la contemporanea ammissione di non essere in grado di rispettare gli impegni presi in materia di occupazione per il decennio in corso, sono stati uno shock epocale per l’opinione pubblica tedesca. La Repubblica Federale si trova oggi a fare i conti con una crisi talmente grave, che qualcuno la definisce esistenziale. E’ in discussione un intero modello di sviluppo, perfezionato all’inizio di questo secolo, basato sulle performance dell’industria, l’energia a basso costo, il contenimento dei salari e la disponibilità di mercati esteri da conquistare, data dalla globalizzazione, in un mondo pacificato che, fino a una manciata di anni fa, è stato per quasi un trentennio libero da forti tensioni geopolitiche. Quel mondo oggi non c’è più, rovesciato da crisi energetica e inflazione, che avevano già fatto capolino nel post-Covid 19, e si sono poi aggravate in seguito alla guerra in Ucraina, mentre le dinamiche di politica internazionale rendono problematiche le relazioni con Russia e Cina, due cardini del sistema di rapporti di cui aveva beneficiato per molto tempo Berlino. A tali difficoltà di carattere internazionale, si sommano le carenze dell’industria tedesca, storicamente basata sulla manifattura, ma incapace di competere con gli USA, ad esempio, nei settori digitale e delle nuove tecnologie. Negli ultimi dieci anni, in questo campo, si è inoltre assistito ad una grave carenza di investimenti, come riportato da Federico Fubini sul Corriere della Sera, che hanno penalizzato l’adeguamento ai tempi nuovi di un settore industriale, la cui punta di diamante, l’automotive, subisce una crisi epocale, di cui ancora si fatica a valutarne in pieno le conseguenze, come scritto poc’anzi. Uno sconvolgimento, peraltro, quasi auto-inflitto, per effetto delle zelanti normative ambientali dell’UE, che stanno determinando un radicale e accelerato cambiamento nel settore, imposto con metodi dirigisti, a danno di un’eccellenza dell’industria europea e soprattutto tedesca, il motore a scoppio, e a favore di una tecnologia in cui nel nostro continente soffriamo di uno svantaggio competitivo.

 

Non stupisce che, in un momento storico caratterizzato da difficoltà e incertezza nel futuro, gli elettori si rivolgano a chi si oppone, con proposte realistiche o meno, alle influenze esogene negative, e prospetta ai cittadini un’alternativa politica imperniata sul mero interesse, o presunto tale, del popolo tedesco. Il consenso di AFD risulta, non a caso, più forte nei lander orientali, dove sono più bassi il benessere economico e l’interesse per tematiche quali la transizione ecologica, la comunità LGBTQ+ o la politica internazionale, mentre già era forte il sentimento di frustrazione e rivalsa degli Ossis verso i Wessis, accusati di aver condotto la riunificazione con un forte complesso di superiorità nei confronti dei connazionali. Infine, se già era presente un forte malcontento in una certa fascia della popolazione, è innegabile che le politiche migratorie dei governi tedeschi abbiano fatto il resto. E’ stata soprattutto la storica decisione di Angela Merkel dell’estate 2015, di aprire le porte a circa un milione di rifugiati siriani e afgani, infatti, a far crescere per la prima volta i consensi per l’estrema destra. Il “wir schaffen das” (“ce la faremo”) della Cancelliera, sfortunatamente, si è scontrato con gli assembramenti di profughi nelle piazze e nelle stazioni, gli aumenti degli episodi di delinquenza coinvolgenti migranti e rifugiati (la famosa notte di Capodanno a Colonia, nel 2016, è stato un evento cruciale) e la ripetizione di episodi di terrorismo di matrice islamica, che hanno avuto un nuovo culmine proprio quest’estate, con i tragici fatti di Solingen e Siegen. A pochi giorni dalle elezioni regionali il governo del Cancelliere Scholz ha attuato un forte giro di vite in merito alla legislazione in tema di immigrazione, con la riproposizione dei controlli alla frontiera e del rimpatrio immediato di chi entri in Germania senza averne titolo, ma l’intervento si è rivelato un rimedio poco efficace per spostare voti ormai conquistati da chi ha condotto battaglie in tal senso per anni. Uno degli effetti provocati dall’impetuosa crescita elettorale di AFD è stato proprio il generale spostamento a destra delle politiche proposte e attuate dall’intero sistema politico tedesco. La stessa CDU, che si prepara per prendere il timone del governo tra un anno, sotto la leadership di Merz ha assunto una postura più vicina a quella di un moderno partito conservatore, che a quella puramente centrista, dei tempi di Angela Merkel. I risultati alle elezioni europee e a quelle degli ultimi lander andati al voto l’hanno premiata, ma l’interrogativo riguardo alla sua capacità di formare il prossimo governo, senza ricorrere all’appoggio di partiti sovranisti o populisti, quali AFD e BSW, permane, insieme all’ancor più importante e cruciale domanda: è possibile, giusto e opportuno continuare a tenere alzato il cordone sanitario di fronte ad AFD, che rappresenta ormai un terzo dell’elettorato in alcuni lander e vola verso il 20% su scala nazionale, oppure è necessario iniziare a pensare di coinvolgerla nel dialogo politico e attribuirle funzioni di governo, nella prospettiva di responsabilizzarla e moderarla?

 

Parigi e Berlino, del resto, non sono le uniche capitali a doversi confrontare con l’avanzata dei partiti populisti. Come scritto nelle prime righe, la crescita dei movimenti anti-sistema, e in particolar modo dell’estrema destra, interessa gran parte dell’Europa. Già nel 2022 i trionfi elettorali di FDI in Italia e dei Democratici Svedesi a Stoccolma avevano portato la destra al governo di due importanti stati dell’Europa Occidentale, anche se, in questi casi, si trattava di soggetti comunque avviati verso un percorso di moderazione, come il partito di Giorgia Meloni, oppure, nel caso del paese scandinavo, inglobati in una più ampia alleanza di governo, di cui non detenevano la leadership. Il 2023 ha invece registrato la clamorosa vittoria del PVV di Geert Wilders in Olanda, a cui ha fatto seguito, dopo diversi mesi, la formazione di un governo di coalizione di tendenza centro-destra, comprendente anche i liberali dell’ex premier Rutte, il NSC e il BBB, altro movimento di area populista strettamente legato agli agricoltori. Ancor più impattante, dati i trascorsi storici del paese, è stata però la recentissima affermazione del FPO di Herbert Kickl in Austria, alle elezioni legislative di fine settembre, in cui esso è risultato il primo partito, davanti ai popolari (OVP) e ai socialdemocratici (SPO). Anche a Vienna l’alternativa, per i due partiti storici che hanno guidato per oltre settant’anni la nazione, è ora tra un’alleanza di governo dell’OVP del cancelliere Karl Nehammer con il FPO e una grande coalizione tra gli stessi OVP e SPO, magari puntellata dai liberali di NEOS o dai Verdi. Ovvero, tra escludere dall’esecutivo il primo partito nazionale, con il rischio di rafforzarlo ulteriormente, conferendogli in pratica il monopolio dell’opposizione, e condividere responsabilità di governo con chi, in maniera non troppo velata, riecheggia le campagne e gli slogan nazisti, oltre a rivendicare posizioni apertamente anti-europee, filorusse e fortemente ostili a immigrati, tematiche ambientali e politiche pro comunità LGBTQ+. Il Presidente della Repubblica, Alexander Van der Bellen, ha fatto capire di non avere alcuna intenzione di nominare il leader del FPO al ruolo di Cancelliere, ma il caso austriaco è l’ennesima conferma di come l’elettorato si diriga verso l’estrema destra, spinto dalle difficoltà economiche acuite dai recenti picchi di inflazione e dai timori per la propria sicurezza. E’ proprio quest’ultima a preoccupare maggiormente i cittadini, non solo nella nazione alpina, sia a causa dei fenomeni di terrorismo e immigrazione, dal lato dell’ordine pubblico, che per effetto delle conseguenze per l’industria e l’agricoltura generate dalle politiche per la transizione ecologica, dal lato delle prospettive future di carattere sociale. A tutto questo si aggiunge la radicata insofferenza per il sostegno, sia politico che economico, alla difesa dell’Ucraina, particolarmente diffusa in un paese, l’Austria, in cui la scelta della neutralità, attuata nel secondo dopoguerra, è impressa profondamente nella sua cittadinanza, insieme al ruolo di ponte tra est e ovest. Il rischio di vedere, tra qualche anno, l’Austria sulle stesse posizioni dell’Ungheria di Viktor Orban, è ben presente.

 

L’Europa si prepara a giungere nel mezzo del guado del decennio in un momento storico di particolari difficoltà e incertezza. La ricomparsa della guerra nel Vecchio Continente e le sempre più rapide trasformazioni nelle economie, unite all’alto flusso di migranti dell’ultimo decennio, rischiano di mettere in discussione la coesione sociale e la stabilità stessa dei sistemi politici nazionali, mentre si prospetta ormai ineludibile una nuova fase di allargamento ai Balcani e, ancora più in là nel tempo, si inizia a ragionare su quella ancor più difficile di Ucraina, Moldavia e Georgia. L’integrazione comunitaria appare però caratterizzata, in virtù dei fenomeni descritti, da ulteriori difficoltà da parte delle istituzioni di Bruxelles nel rispondere efficacemente ai problemi posti dal difficile contesto globale, le quali risentono naturalmente delle forti scosse provenienti dalle varie capitali. Proprio nel momento storico in cui si manifesta in tutta la sua chiarezza la necessità per l’UE di definirsi come soggetto geopolitico, o, nella definizione di Macron, evolvere in Europa potenza, il continente europeo si trova invece sottoposto a spinte centrifughe, che rischiano di comprometterne la coesione, come le recenti consultazioni elettorali hanno dimostrato. Allo scopo di contribuire a rendere l’Unione maggiormente competitiva, nel mondo, in tutti i sensi, l’ex Governatore della BCE ed ex premier italiano Mario Draghi ha presentato poche settimane fa il corposo rapporto, richiesto dalla Commissione Europea, in cui ha analizzato, settore per settore, le carenze del sistema continentale, per il cui superamento ha proposto concrete strategie da mettere in atto. Nella visione di Draghi, tali strategie dovrebbero basarsi sull’approfondimento dell’integrazione, in particolar modo in materia di difesa, mercato interno e gestione della finanza pubblica, supportata da una semplificazione della governance comunitaria, liberata dalle complicate votazioni all’unanimità in Consiglio. Vaste programme, che, non a caso, ha già incontrato il muro di sbarramento di alcuni importanti governi, a cominciare da quello tedesco, e perfino la diffidenza della Presidente Ursula Von der Leyen. La scelta, almeno apparentemente razionale, dell’ulteriore evoluzione verso un sistema più integrato, confligge con le resistenze delle singole parti dell’organismo, tanto più forti in tempi difficili e incerti come quelli attuali. L’UE non sembra riuscire a sfuggire alla trappola determinata dalla sua conformazione istituzionale: un po’ istituzione sovranazionale, un po’ super-stato federale, un po’ confederazione, in cui la scarsità di fiducia reciproca tra i governi e i rispettivi popoli impedisce di evolvere verso un sistema più flessibile, semplice, efficace, adatto al mutevole e complesso contesto geopolitico odierno. Forse, il primo passo da percorrere, da parte delle classi dirigenti continentali, dovrebbe essere il tentativo di ristabilire quel necessario grado di fiducia, sia tra i diversi paesi, che tra le istituzioni e i popoli, di cui vi è estremamente bisogno, per non disperdere quel che di buono è stato costruito in tanti decenni. Forse, è questa l’unica via per allontanare gli spettri che gravitano sul cielo sopra l’Europa.

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CAT: Geopolitica, Istituzioni UE

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