Bieszczady (si pronuncia Bieshtade) è il luogo più remoto d’Europa. Il complesso montuoso da cui partono i Carpazi, al confine tra Polonia, Slovacchia e Ucraina, ha una storia da raccontare: la complessa e multiculturale popolazione locale è stata dispersa per la necessità tutta sovietica di avere confini netti, precisi e corrispondenti a una visione del mondo chiara e infallibile. Alla fine della Seconda guerra Mondiale una parte di Germania era diventata Polonia e andava ripopolata. Lo stesso valeva per una parte di Ucraina. Ecco perché qui non ci abita praticamente più nessuno.
Ora da Bieszczady passano i profughi ucraini che cercano riparo in Europa. Da poco più a nord di qui, dice Internet, si vedono i bombardamenti giusto al di là del confine. Da quelle parti danno per scontato che la Polonia sarà la prossima preda della Russia di Putin. L’aiuto ai profughi non ha a che fare con il colore della pelle degli ucraini, ma con il fatto che tutti nell’ex Patto di Varsavia temono di avere un bersaglio tatuato sulla schiena.
La comune paura permette di ignorare questioni anche tragiche, come la dolorosa vicenda del nazionalismo ucraino alla fine della guerra mondiale, responsabile di migliaia di morti polacche per mano dell’eroe nazionale ucraino StepanBandera.
A Bruxelles corrono voci. Nessuno è disposto ad ammetterlo in pubblico, ma si comincia a parlare di istituzioni umanitarie che acquistano iodio. Lo stesso – si dice quasi sussurrando – starebbe facendo l’Unione Europea. Nel vasto sottobosco di esperti che popolano questa città, gravitando intorno a istituzioni internazionali, think tank o società di consulenza cominciano a farsi strada alcune teorie.
L’idea è che la diplomazia in questa fase non serva a nulla. Un membro di questo esercito di pensatori scherzando mi dice ‘Vuoi vincere il Pulizer? Vai in Moldova, sono i prossimi.’ Il ragionamento, suo e di altri, è che l’Ucraina non può durare più di due mesi. A quel punto, crollerà. L’Occidente non alzerà un dito per impedirlo e la resistenza, con l’arrivo della primavera, avrà sempre meno luoghi dove nascondersi e preparare imboscate. E a quel punto? ‘Beh, io ho una cantina dove nascondermi. Ma che vita sarà dopo?’ dice l’esperto.
Il primo assunto di questo scenario è che le sanzioni non siano abbastanza e che la Russia sia autosufficiente da un punto di vista economico. Il secondo è che, anche nel caso un cui le sanzioni abbiano gli effetti sperati, la Cina compensi le perdite russe, permettendo a Putin di continuare una guerra dagli obiettivi mondiali.
Nessuno lo dice apertamente, né sui media, né in modo ufficiale, né sotto tortura ma quello a cui sembra ci si stia preparando è la guerra nucleare. Sia che la inizi Putin, attaccando i paesi del Baltico (nazioni piccole, dotate di forze armante numericamente scarse) o che la inizi l’Occidente. Se la dovesse iniziare Putin, non ci sarà nessun posto profondo abbastanza dove nascondersi. Non che le contromisure per evitare questo scenario siano più rassicuranti.
L’idea è che le testate nucleari non sono tutte uguali. A seconda della potenza sono tattiche o strategiche. Quelle strategiche sono pensate per far evaporare intere città. Quelle tattiche, invece, per essere utilizzate in guerra contro soldati in armi. Secondo alcuni, se le sanzioni non dovessero funzionare, gli Stati Uniti dovrebbero privare la Russia delle testate strategiche. Questo First Strike non impedirebbe alla Russia di lanciarne un secondo, basato su testate tattiche, lanciate da vettori con raggi d’azione ridotti e quindi rivoltiverso l’Europa centrale che, a quel punto, diventerebbe una discarica nucleare.
Questo scenario apocalittico affonda le sue radici nel pensiero strategico occidentale degli Anni ’50. Allora, il ruolo di vittima sacrificale nella millenaristica lotta tra comunismo e democrazia liberale sarebbe toccato alla Germania smilitarizzata e inoffensiva. Questo ruolo, oggi, toccherebbe alla Polonia, essendosi il confine della Nato spostato a est.
Questo scenario potrebbe servire anche a evitare una spaccatura nella Nato. L’Articolo 5, quello della mutua difesa, non è un meccanismo automatico e lascia un certo margine di discrezione ai vari paesi su come e quanto vogliono partecipare alla difesa comune. Questo dettaglio potrebbe scatenare il gradino più alto dell’escalation.
Questo scenario si verificherebbe solo se le sanzioni non funzionassero e solo se ci fosse la chiara percezione che la Russia non voglia fermarsi. Per ora, di certo, c’è solo la seconda ipotesi. Ma, soprattutto, un First Strikerappresenterebbe una violazione dei principi della Nato: L’Alleanza atlantica non spara mai per prima, perlomeno quando si parla di armi atomiche. Ma, dal 24 febbraio, tutto è in discussione.
Questo, tuttavia, non è uno schema condiviso da tutti. Un policymaker della Commissione Europea intervenendo in una call con Piero Fassino manifestava un certo disagio per un’UE in via di militarizzazione e, soprattutto, cercava di persuadere i presenti sul fatto che una via diplomatica fosse ancora possibile, trovando i giusti incentivi nei confronti di Mosca. Qualsiasi essi siano.
Recentemente, un profilo Twitter filorusso ha condiviso un’immagine sinistra. I confini ucraini sono diventati un maiale e la mappa delle conquiste territoriali russe le mandibole di un lupo. Il sottotesto è chiaro: l’Ucraina è un maiale piangente e spaventato. Il lupo russo la divorerà. Perché? Perché, può; perché Dio lo vuole.
La recente predica del patriarca Cirillo non rende la completa dimensione religiosa del conflitto. Il tema non è soltanto, come dice il prelato, imporre cortei LGBTQ+ sulla Piazza Rossa. Il problema è che esiste, nella società russa, un profondo e sotterraneo elemento gnostico. Se il mondo materiale è corrotto e la Verità è oltre, nell’aldilà, accanto a Dio, che ce ne facciamo di tutto, persino delle nostre vite terrene?
A questa tesi non deve necessariamente credere la società russa nella sua integrità: basta che sia il capo a crederci, insieme ai collaboratori più stretti. Ecco cosa rende credibile l’ipotesi che l’escalation possa finire per trasformarsi in una guerra santa a propulsione nucleare con la Russia improbabile teocrazia cristiana nel ventunesimo secolo.
Questa ideologia, forse, è quello che rende deboli gli oligarchi: Putin non vuole più i loro soldi, lui guarda più in alto. Nessuno, neanche in Occidente, vuole il presidente in carica morto o fuori dai giochi perché non è chiaro se esista un successore o se ci siano dei meccanismi pronti per prepararlo. Se al potere dovessero salire i militari, d’altro canto, il rischio è che siano ancora più spregiudicati dello stesso Putin.
Intanto, a Bruxelles la vita continua. Gli uffici lavorano in modalità ibrida, i bar di Place Luxembourg sono tornati a ospitare i raduni informali dei giovani che gravitano intorno alle Istituzioni europee e che lì si incontrano il giovedì sera, i meetup della coloratissima comunità di expat brussellese hanno ripreso a funzionare come se il 2020 non fosse mai avvenuto.
Sottotraccia, però, qualche funzionario UE originario del Baltico ha già portato i genitori all’estero e la comunità polacca originaria dell’est del Paese non sa cosa fare. Chi dice che esista, in questo momento, una soluzione al conflitto mente perché, semplicemente, non c’è.
Tutti qui fanno i conti con le proprie fragilità, con le telefonate dei genitori che hanno paura che Bruxelles sia un bersaglio, con la paura di chi è cresciuto al confine e che teme che la propria città di origine sia un bersaglio a sua volta.Questa non è una guerra come tutte le altre e la possibilità che sia l’ultima è una consapevolezza ormai difficile da sradicare.
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Il testo è un misto tra sensazioni, emozioni, voci, impressioni. Un esempio di come prima il covid, poi la guerra abbiano aperto spazi immensi per una prosa che è sempre più emotiva, fatta di suggestioni, paure, preoccupazioni, sentito dire…
Come la fantascienza non è scienza, questo tipo di scrittura non è giornalismo, ma è bene che ci sia e che si sviluppi, perché aiuta a consolidare le nostre paure o a scacciarle.
L’importante è si chiarisca bene che non di giornalismo si tratta ma di racconto.