Geopolitica

“Che fare” in Abruzzo? La scommessa delle cooperative di comunità a Fontamara

11 Novembre 2022

ier’ so fatt novant ann, a n’atr poc m’n’ vaij, i tutta sta gent ad Aej nn l’eva vista mai” (ieri ho compiuto novant’anni, tra poco me ne andrò, ma così tanta gente ad Aielli non l’avevo mai vista).

(Tonino, Aielli)

“Che fare?”

Se lo sono chiesto in tanti nella storia del ‘900, anche i contadini di “Fontamara” di Ignazio Silone che prendevano coscienza dell’essere cafoni vessati e presi in giro e si organizzavano nel Fucino degli anni ’30. Il “che fare?” e l’intero testo di Fontamara sono su un muro ad Aielli che guarda dall’alto di un terrazzo naturale la valle del Fucino, terra promessa dei cafoni in cerca di suolo fertile per sfuggire all’avarizia della terra di montagna e ai soprusi dei cittadini e dei signori. L’ha scritto,il testo completo interamente a mano Alleg, uno street artist abruzzese e mentre lo scriveva gli abitanti di Aielli lo leggevano ad alta voce quel testo.

La risposta, una risposta possibile, alla domanda “che fare?” qui ad Aielli l’hanno scritta sui muri, facendo di un paese che non è Fontamara, ma potrebbe esserlo, un luogo di bellezza e rigenerazione urbana che richiama ogni anno artisti letteralmente da tutto il mondo. La street art ad Aielli l’ha fatta crescere un giovane sindaco Enzo Di Natale, che appena eletto ha fatto quello che tutti i sindaci di tutti i paesi dovrebbero fare, non spegnere le energie dei ragazzi che hanno voglia di fare qualcosa, anche se giustamente interrompe il flusso immobile della vita di un paese. Ha dato corda ai ragazzi di alcune associazioni, sono partiti con gli street artist abruzzesi e nel 2017 ne è nato un festival, Borgo Universo. Sono arrivate le persone, sono cresciuti gli artisti e i murales (ce n’è anche uno, tenerissimo, autoprodotto su un balcone che rappresenta la notte stellata di Van Gogh). Molti dei quali hanno come tema lo spazio, essendoci ad Aielli una torre medievale oggi osservatorio astronomico, anch’essa parte di un’offerta culturale vivace ed entusiasta, con le persone che ti prendono per mano e si vede che hanno voglia di farti vedere, raccontarti, comunicarti che Aielli è un bel posto e ci stanno bene.

Il 2020 è stato l’anno nero della pandemia, ma è stato anche l’anno in cui moltissime persone hanno scoperto che anche se ci si poteva muovere poco, l’Italia non era poi un posto così brutto e che c’erano cose da fare anche in questo paese affacciato sul Fucino. L’estate del 2020 ad Aielli è stata piena di visitatori e i ragazzi che animavano gli eventi turistici e culturali hanno deciso di buttarsi e di aprire una cooperativa di comunità, “La Maesa” (il maggese, la terra pronta per essere seminata).

Sono venuto in Abruzzo da Roma, la città dove va anche il protagonista di Fontamara in cerca di fortuna, trovando una catarsi e un sacco di guai, per capire qualcosa in più proprio di queste cooperative di comunità. Sono imprese partecipate di territorio per la costruzione di economie civili sostenibili, e raccolgono gli abitanti di piccole comunità che vogliono essere produttori e fruitori di beni e servizi secondo un modello di economia sociale, sostenibile e partecipata. Non esiste un riconoscimento normativo per le cooperative di comunità, ma qualche regione le riconosce e in alcuni case le sostiene.

E fa bene, perché come mi dice Martina, animatrice de La Maesa, le cooperative di comunità sono la moderna risposta al “che fare?” di Silone. Un’affermazione forte, ma i paesi (borghi, aree interne, provincia, chiamateli come volete) hanno bisogno di un po’ di cazzimma e soprattutto di canalizzare le energie che ci sono, senza disperderne nessuna, e poi hanno tantissimo bisogno di lavoro, che è alla base di ogni comunità sana. Le cooperative di comunità intercettano energie, anche deboli e disaggregate, ma decise a rimanere nei paesi, a valorizzare quello che c’è, e ne fanno progetti di impresa sociale con un governo, un budget, del lavoro da fare e degli stipendi da pagare.

Non è assolutamente poco in zone interne, non siamo nel profondo Sud ma dentro quello che l’economista Manlio Rossi-Doria ha chiamato l’osso dell’Italia, le montagne appenniniche, che sono magnifiche ma tutto dividono e rendono più tortuoso. Qui il lavoro è poco, l’industria è in difficoltà mi conferma Augusto Bisegna della CISL e anche l’artigianato fatica, conferma Daniele Giangiulli di Confartigianato. L’agricoltura ancora resiste, perché la piana del lago Fucino prosciugato da una delle terre più fertili d’Italia, ma in generale parliamo di luoghi belli ma con poco lavoro, se non pubblico, soprattutto la ferrovia, e pochissime prospettive. Luoghi nei quali bisogna volerci restare.

Pensare che qui ad Aielli si possa trovare così tanta bellezza sui muri da spingere così tante persone a visitarli da farci uscire in stagione un paio di stipendi veri e regolari è un piccolo miracolo dei circa 40 soci, tra lavoratori e non, della cooperativa. Un miracolo che semplicemente non sarebbe stato possibile secondo le tradizionali logiche di mercato e non con le dinamiche e l’entusiasmo di un’impresa sociale. Ne è convinto Massimiliano Monetti, Presidente di Confcooperative Abruzzo ed evangelist di questo modello di rivitalizzazione delle piccole comunità della regione, a partire dal lavoro, per occuparsi di se (servizi pubblici), valorizzare i luoghi (turismo), valorizzare i prodotti (agricoltura). Ne è convinto al punto che, nonostante la Regione Abruzzo non sostenga economicamente le cooperative, l’Abruzzo è una delle buone pratiche nazionali per numero di cooperative di comunità create e capacità di fare rete (come con il progetto Borghi in Rete), superando le montagne e le chiusure di un popolo straordinario ma anche un po’ musone, quantomeno schivo. Massimiliano Monetti è una trottola che gira i paesi, fertilizza gli entusiasmi e mette a disposizione anche le risorse di un fondo apposito di Confcooperative per lo start up delle cooperative di comunità.

Una cooperativa di comunità, Oro Rosso, gestisce il bellissimo Ostello sul Tratturo a Civitaretenga, un convento del ‘500 a pochi chilometri da Navelli con vista sull’altipiano dello zafferano (che si può aiutare a raccogliere e lavorare, oltre che acquistare) oggi accogliente ostello, semplice ma molto chic e una cooperativa di comunità gestisce uno dei luoghi più magici non solo della zona, ma di tutta Italia: Rocca Calascio. Avete presente il castello di Lady Hawke, ecco, proprio quello.

Rocca Calascio e l’intorno sono un posto magico, con le vette delle montagne a perdita d’occhio, alte ma non così alte, i paesini arroccati, le faggete che iniziavano ad arrossire, la rocca del 1000 immensa e la chiesa cinquecentesca a pianta circolare. È bellissima e in ottobre piena di turisti, ai quali badano Franco e gli altri 29 soci della Cooperativa di Comunità Vivi Calascio. Nata anche lei nel 2020, la cooperativa gestisce innanzitutto la mobilità dei turisti da Calascio (sotto), alla Rocca (sopra). Sono pochi chilometri di una strada stretta, che se c’è tanta gente con tante macchine diventa molto difficile da percorrere, meglio usare la navetta del comune gestita da Franco e dai ragazzi della cooperativa. Vivi Calascio gestisce anche la cura del verde pubblico, le pulizie, il noleggio di e-bike (il posto è perfetto per pedalare e non vedo l’ora di tornarci su due ruote) e uno shop di souvenir (spopola la maglietta “Hard Rock Calascio”) nel borgo della Rocca, albergo diffuso nel quale vivono in pianta stabile due famiglie. Un po’rock devi esserlo per stare qui, posto magnifico ma con soli 80 abitanti, italicamente in grado anche di dividersi come gli atomi. Mi raccontano allora che il servizio di navetta, che andava bene, a un certo punto è stato tolto alla cooperativa e dato all’esterno, per poi tornare fortunatamente al suo posto. Franco mi spiega mentre accoglie i turisti all’interno della torre che la cooperativa fattura anche 100 mila € l’anno, che vuol dire pagare degli stipendi e tenere le persone a Calascio anche se la pastorizia e l’agricoltura, ossia i tradizionali sostentamenti di queste zone, sono ormai residuali, così com’è l’artigianato, ridotto a un po’ di tessile. Arriveranno tanti soldi, 20 milioni, con il bando borghi del PNRR che Rocca Calascio si è aggiudicato per l’Abruzzo. Ammetto che mi è passato di mente di chiedere a Franco un parere su questa pioggia di denaro e lo faccio dopo, con un messaggio. Dice che mi risponderà ma non lo ha ancora fatto e penso anche che se non me ne ha parlato lui è già un po’ una risposta, non di quelle da magnifiche sorti e progressive.

La nuova terra fertile, la nuova acqua è il turismo, quello un po’ cheap e fagottaro in estate, quello più elegante e spendente (e straniero) nelle altre stagioni.

Per capire cos’è questo turismo elegante, spendente e straniero e come si integra in posti meravigliosi ma scabri come questi mi faccio un’ora di cammino per arrivare a Santo Stefano di Sessanio e visitare finalmente Sextantio, il teatro di Fitzcarraldo sulle montagne d’Abruzzo. Sextantio è stata l’ossessione di Daniele Kihlgren, italo-svedese erede di una dinastia di acciaieri che a fine anni ‘90 investe tutte le sue fortune per comprare e riqualificare una parte importante di questo paesino appoggiato sulla curva di una montagna, con la rocca, le porte e tutto il corredo di fiaba. L’ho conosciuto molti anni fa, davanti a una birra con amici comuni e ho pensato, l’ho sempre pensato anche dopo, che fosse un totale folle a buttarsi in quell’impresa e folle lo era con le guance scavate e lo sguardo febbrile. Ma ha avuto ragione.

Oggi Sextantio funziona, e non costa assolutamente poco, anzi. Santo Stefano di Sessanio è un paese (qui ci sta anche la definizione di borgo, ché da qui è nato anche il bando borghi del PNRR) vivo, “leccatino” ovviamente ma non caricaturale, e sono veri i prodotti, dalle drapperie ai formaggi, che si è tornati a produrre e a vendere, gli altri b&b molto più semplici che si sono aperti.

La morale è sempre quella: se si vuole rivitalizzare un paese “cherchez le travail” ci vuole il lavoro. I servizi pubblici sono fondamentali ovviamente, ma se non c’è il lavoro, se le persone non hanno di che guadagnarsi da vivere, realizzare le proprie aspirazioni, pensare a lungo termine, i servizi pubblici sono un esercizio burocratico o assistenzialismo poco morale e pochissimo sostenibile. Dove il mercato non arriva perché non ci sono le condizioni, arrivano le microimprese, le imprese familiari e le imprese cooperative e sociali, la cui permanenza in salute è già di per sé creazione di valore. Ogni euro che questi presìdi di sviluppo generano e ribaltano vale qualcosa di più, ferma concretamente, anche se non fa miracoli, processi di erosione sociale altrimenti irreversibile. Non è eroismo, è fare più che parlare.

Fare prima di parlare è anche prendere il telefono e chiamare i comuni del centro Italia per cercare un campeggio da prendere in gestione, trovarlo a Campo di Giove, in cima alla Maiella, e lì trasferirsi con tutta la famiglia, diventando in breve tempo l’animatore di una cooperativa di comunità con più di 100 soci. Mimmo Curciarello è un calabrese di Siderno con gli occhi chiari, i capelli arruffati e l’eloquio pacato, sarebbe potuto essere un cafone di Fontamara e oggi è un animatore sociale e cooperatore così entusiasta da avere conferito alla cooperativa di comunità che preside, la Tavola Rotonda, anche il campeggio che gestisce.

Incontro lui e la moglie Giorgia, agronoma romana, mentre seminano un campo di Solina, il grano tradizionale dell’Abruzzo che cresce al di sopra dei 750 metri, penso nuovamente ai cafoni di Fontamara e mi immagino che fosse Solina anche il loro, che oggi è presidio Slow Food e fra i dieci prodotti di montagna più rari e preziosi al mondo secondo l’ONU (come cambiano i tempi). La cooperativa, grazie a un appezzamento di terra conferito da un socio, lo coltiva d’inverno, mentre in primavera ed estate coltivano due varietà autoctone di fagioli grazie a un progetto con l’Università di Perugia. Mentre seminiamo e parliamo, alcuni anziani si fermano a dare a Giorgia e alla mia compagna Stefania indicazioni su come spargere al meglio il grano nel campo: la cooperativa è nata anche per questo, per garantire che giovani e anziani continuino a parlarsi, non museificare pratiche e tradizioni.

Campo di Giove è un posto strano. Non è a portata di autostrada come Aielli, né sospeso nel magnifico nulla come Rocca Calascio, è steso su un piccolo altopiano circondato dalle montagne, con i faggi che sembrano una pennellata bordeaux appena sotto la cima delle montagne. Il bosco cresce e scende anche più sotto, verso l’altopiano. Mi spiegano che gli appezzamenti dei contadini, dei cafoni, erano fatti a strisce orizzontali, auguri a coltivarli, e che oggi, abbandonati come oltre tre milioni di ettari di superficie coltivabile in Italia, tornano a essere ricoperti dal bosco.

Soprattutto, a Campo di Giove fuori stagione è fortissima, e straniante, la presenza del fantasma di una località sciistica. Fantasma perché siamo a ottobre e fa caldissimo e i suoi 1200 metri sono assolutamente insufficienti per pensare che naturalmente le sue due piste potranno aprire tra poco e per i cannoni sparaneve non è cosa con questi prezzi dell’energia. Fantasmatica e inquietante è anche la miriade di condomini in stile alpino desolatamente vuoti, come lo è l’hotel del Lago, oggi quasi asciutto, desolatamente chiuso e in cerca di acquirenti.

Molti abitanti di Campo di Giove insistono che il futuro sia ancora negli impianti di risalita, io non lo credo, non solo perché non sono un grande amante dello sci e non lo crede nemmeno Mimmo. Ci sono un po’ di turisti in stagione, breve, prevalentemente da Roma, Napoli e Pescara, che permettono alla cooperativa di far funzionare il campeggio, il parco avventura e il piccolo bar al lago, che gestiscono come principale attività insieme all’agricoltura e alla cura del verde pubblico, ma è chiaro che l’offerta turistica anni ’70 è oggi assurdamente sovradimensionata, e piuttosto brutta.

Accade in moltissime zone dell’appennino, ricordo interi villaggi fantasma di montagna in altre zone dell’Abruzzo e in Calabria, e racconta di vacanze diverse, più lunghe, lente, tradizionali, vicine. Un’idea di sviluppo industriale senza industria e che oggi è messa in crisi non solo dagli stili di consumo, ma direttamente dall’atmosfera, mentre sempre più persone visitano i segni di quella civiltà borghigiana e contadina che i condomini e gli skilift volevano cancellare. Corsi e ricorsi. Bisognerebbe fare una riflessione seria anche più a Nord, ad esempio sul senso e la sostenibilità di Olimpiadi Invernali con un inverno sempre più breve e caldo.

Torno in città con la netta sensazione che fare sviluppo locale agito e non declamato sia un esercizio costante di mantenimento di fiammelle accese. Le persone che ho visto, insieme a quelle che ho avuta la fortuna di incontrare in anni di provincia italiana, lo stanno facendo. Non è semplice, e se ci sono cooperative di comunità che funzionano bene ce ne sono altre che sono rimaste sulla carta, perché l’asticella è alta e ci vuole impegno, passione, capacità amministrativa, ma lo strumento va nella giusta direzione.

Se non è una risposta al “che fare?”, è almeno il segno che non si vuole smettere di domandarselo.

In copertina: il murale Fontamara di Alleg ad Aielli, foto mie

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