La fotografia ritratto di Valérie Belin e l’uso del colore come make up
“Io voglio invecchiare senza lifting facciali. Io voglio avere il coraggio di essere leale al viso che mi sono creata.” ( Marilyn Monroe)
Se c’è una cosa certa nella vita di tutti noi è che il tempo passa. Lento, rapido, inesorabile o frenetico, a seconda di come lo viviamo, ma passa e con esso passano gli anni, mentre la giovinezza lascia il posto alla vecchiaia.
Sono temi, quello del tempo e quello degli anni che scorrono, che forse sono trasversali a qualsiasi storia che sia mai stata scritta. Eppure alcuni personaggi e alcune vicende, più di altri, si sono concentrati proprio su questi aspetti. È sicuramente il caso di Benjamin Button, e della sua affascinante “vita a rovescio” scaturita dalla fantasia di Francis Scott Fitzgerald. Ma ancor più è il caso del personaggio che come nessun altro ha lottato contro i segni del tempo, Dorian Gray.
La tragedia della vecchiaia non è invecchiare, ma rimanere giovani dentro, oggi nessuno ci regala ritratti come fa Basil Hallward che esalta la bellezza e la gioventù e che spinge pian piano Dorian verso un culto sempre maggiore dell’apparire, che diventerà invidia per la bellezza di quel dipinto.
Cercare di apparire più giovani di quello che siamo sembra un must in una società che guarda la forma e considera l’anima meno importante dell’involucro. Giorni in cui l’invecchiamento è visto come qualcosa di riprovevole, da nascondere, evitare. Basta questo a renderci tutti dei moderni Dorian Gray? Forse sì, o almeno ci sono più analogie tra noi e lo sventurato personaggio di Wilde di quanto si potrebbe pensare. Le creme e le lozioni che promettono di rallentare l’invecchiamento non sono certo l’unico modo in cui combattiamo gli anni che passano. Molto più, si potrebbe dire, lo facciamo ogni giorno con la rappresentazione e il racconto che diamo di noi stessi. Non parliamo più di ritratti, che sono una cosa che ormai lasciamo all’epoca di Dorian, ma di modernissimi selfie che riempiono bacheche Facebook raccontandoci per quello che siamo, o forse vorremmo essere, nell’epoca dell’immagine e dell’auto rappresentazione di sé. D’altra parte (fantastichiamo ancora) non servono più i patti con il diavolo per restare Forever young, come cantavano Bob Dylan o gli Alphaville, oggi per mantenere un’immagine molto più giovane e bella persino della realtà, bastano uno smartphone e una minima capacità di usare i filtri.
La morte di Alain Delon che avrebbe preferito morire senza invecchiare, depresso e con tentazioni distruttive, che non si riconosceva più nel suo corpo, lui incarnazione della della bellezza, l’amatore fatale, né in un’ epoca in cui predominano falsità e ricchezza, la dice lunga su quanto in un mondo in cui prestazione, efficienza, funzionamento, produttività sembrano essere parole d’ordine non si contempla più la malattia, la depressione, la vecchiaia.
Nel museo di Beaux Art di Bordeaux mi soffermo su un’immagine, già vista, il mio dejavù: la foto copertina del romanzo ” Macchine come me” di Ian McEwan in cui il primo gesto di Charlie Friend, il protagonista, é quello di appoggiare la mano sul petto del robot, un gesto intimo, pieno di aspettativa. Quel congegno umanoide é l’ultima “hybris” dell’uomo, che con scintilla d’orgoglio vorrebbe arrogarsi l’atto della creazione.
La foto é di Valérie Belin.
Coinvolto fin dall’inizio dal mezzo fotografico , il ritratto è il corpo umano, sono senza dubbio il tema preferito dell’artisa concentrata spesso solo sui volti delle sue modelle, prevalentemente femminili ridotte a stato di archetipo. Lontano da ogni intenzione narrativa, i ritratti sono meno psicologici nella tradizione del genere che visioni mentali. Se l’artista mette in discussione la bellezza, associata alla femminilità nel nostro immaginario collettivo, é per meglio scuotere i canoni tradizionali e contrastare i codici. É senza dubbio nel motivo ricorrente del manichino che si rivela al meglio tutta l’ambivalenza del suo lavoro, emblema del “meraviglioso moderno” un tempo caro ai surrealisti, ritorna in gran parte delle sue serie Têtes Crownes, Super Models, All star, China girls, Reali moderni. In questo universo sempre in bilico tra realtà e artificiale, i manichini di celluloide esposti nelle vetrine sembrano più animati dall’emozione rispetto ai modelli viventi dai corpi disincarnati e dagli sguardi distanti. Il mondo dei fumetti, delle riviste e del cinema fa ormai da sfondo alle sue rappresentazioni delle supereroine. Attraverso il gioco di contrasto tra le dinamiche gioiose dei fumetti e i volti ghiacciati delle sue modelle ( All Stars) esplora la tossicità di un mondo psichico saturo, caotico, e ossessivo.
Privilegiando il processo di sovraesposizione o combinazione di più immagini, Valérie Belin crea giubilanti cacofonie in cui la figura umana viene risucchiata dal suo ambiente, questa contaminazione tra l’essere umano e l’oggetto raggiunge il suo culmine nella serie Black Eyed Susan. In Lady Sturdust l’artista rappresenta la stessa giovane donna, ogni volta in pose diverse; l’arrredamento é saturo di segni topografici e visivi proveniente dall’iconografia vernacolare e dai fumetti. Il modello evoca un’icona della moda o una star in posa, il titolo suggerisce che potrebbe anche trattarsi di un’eroina pop e glamour, proveniente da un’altra pianeta. L’uso del colore che Valérie Belin paragona a un’operazione di maquillage fa riferimento a questa presa di distanza dalla realtà che le donne dimostrano con i volti clowneschi delle recenti serie Heroes e Painted Ladies.
Dalla fine degli anni Novanta, Valerie Belin continua a interrogarsi sulle questioni di identità e di genere. La sua affermazione non é di natura sociologica ma é un approccio empatico nei confronti del soggetto fotografato, che si tratti di bodybuilder, transessuali, sosia di Michael Jackson o addirittura modelle, tutti sono spinti dalla ricerca di aderire a un modello scelto da loro. Con i suoi sosia della pop star americana, l’artista é interessata tanto alla questione del mimetismo quanto a quella cultura popolare mentre in La serie dei “Pacchetti di patatine” e delle “Maschere di Carnevale”, sfuggono alla rassicurante banalità della vita quotidiana attraverso l’uso drammatico del bianco e nero e le inquadrature serrate.
È questo desiderio di essere un Altro, evadendo dalla propria vita, é ciò che interessa a Valérie Belin. Attraverso la loro trasformazione fisica, i suoi modelli passano dallo status di soggetto a quello di oggetto o immagine visti come sculture, i Bodybuilder dai corpi atletici riecheggiano i canoni dell’antica bellezza. Questa alienazione del soggetto é rafforzata dalla sensazione che la testa, senza espressione, non appartenga al corpo ma sia in tensione ipertrofica, la stessa radicalità caratterizza la serie Maroccain Brides, imprigionate nei loro pesanti abiti di cerimonia nuziale che annichiliscono ogni presenza corporea. Accanto a Black Women dalla bellezza scultorea che sfoggiano tutta la stessa acconciatura accuratamente stirata, qualunque sia la loro origine etnica, l’artista presenta i volti stessi come mutazione genetica di Transessuali, Manichini e Modelle. La disumanizzazione dei personaggi si esprime anche attraverso la menzione anonima di ” Untitled” per alcune serie.
Associato all’essere umano o sostitutivo del soggetto stesso, l’oggetto é al centro dell’approccio artistico di Valérie Belin che si presenta come evocazione di un corpo attraversato dalla luce ( Vetri, Argenteria, Specchi). “Still life” era un precedente soggetto della fotografia, l’ artista gioca qui con riferimenti presi in prestito tanto dalla tradizione pittorica del Memento Mori quanto dalla fotografia pubblicitaria per creare questo mondo sconvolto attraverso questa esuberanza creativa di ispirazione barocca. Privilegiando la tradizione inglese, letteralmente ” vita silenziosa” per il titolo di questa serie, l’artista fa la scelta della vita come testimonia il gioioso disordine di un arredamento scadente dove cuffie da bagno indossate da teste di manichini si aggrovigliano a giocattoli di plastica e fiori artificiali. Il genio dell’artista sta nella sua abilità di dare spazio al misterioso nel senso freudiano del termine, di far emergere, in un’apparente normalità, la “stranezza inquietante”.
Valérie Belin da vent’anni vince premi in Francia e all’estero, nel 2002 realizza la sua prima mostra personale,e in una galleria d’arte contemporanea a New York. Dal 20123 l’artista é rappresentata dalla galleria Nathalie Obadia ( Parigi, Bruxelles)e alla galleria newyorkese Edwynn Houk. Le sue opere sono conservate nelle più grandi collezioni pubbliche in Francia e all’ estero ( Museo Nazionale d ‘ Arte moderna/ Centre Pompidou), Museo d’Arte Moderna della Città di Parig, Kunsthaus di Zurigo, Museo d’arte Moderna ( Moma) a New York, Museo Nazionale d’Arte Moderna e contemporanea a Seul.
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