Il viaggio nel sistema sociale della familiarità fragile incrocia le storie di un popolo sommerso, composto da uomini e donne in prima linea nella cura della salute e dei diritti dei propri cari. I caregiver, come li definisce il lessico contemporaneo, sono i membri della platea numerosa dei familiari che dedicano all’assistenza di lungo termine un numero di ore che ogni anno è pari al valore del 2,5% del pil europeo.
Le rilevazioni Eurostat relative alla conciliazione tra vita privata e lavoro fotografavano, già in epoca pre-Covid, un fenomeno che investiva oltre dodici milioni di persone attive nella cura di soggetti anziani e con disabilità. È questa la dimensione del cosiddetto secondo welfare familiare, un fenomeno in crescita, che ogni anno nell’ambito dei ventotto stati Ue sopperisce ai numerosi gap del sistema di assistenza pubblico, sempre meno capace di rispondere al bisogno di supporto richiesto dalle famiglie.
Ai numeri sul versante dell’assistenza si sommano quelli impietosi relativi alle scoperture assistenziali.
Dove non arriva il pubblico, nella maggior parte dei casi, non riesce a sopperire neanche il privato. I dati segnalano che più della metà delle necessità di cure di lungo termine destinate agli over 65, a cominciare dall’assistenza domiciliare, non trova adeguate risposte.
Sempre a livello europeo si stima un fabbisogno complessivo di assistenza che interessa più di 30 milioni di persone, con una previsione per il 2050 di sfiorare la soglia dei 38 milioni.
Dietro le statistiche si muovono storie di assistenza continuativa costellata di difficoltà economiche, sociali e sempre più spesso psicologiche, che interessano soprattutto le donne.
È questo il caso di Gloria che con il marito Giulio assiste il figlio quattordicenne, nato con una grave malformazione.
Il suo racconto alterna a parole di dedizione e amore la denuncia di un disagio che deriva da una richiesta di accudimento assolutizzante, aggravata da un sistema di welfare statale e territoriale totalmente inadeguato.
“Dalla nascita di mio figlio – racconta Gloria – la nostra vita ha subito uno stop imposto dalla richiesta di cure destinate al piccolo Giacomo. Un’assistenza continuativa che ha azzerato ogni progetto per il futuro. Nel mio caso la nuova condizione di vita ha avuto anche delle pesanti ripercussioni lavorative”.
Di storie come quelle di Gloria, di donne in prima linea nelle attività di assistenza, se ne registreranno un numero crescente, complici trend demografici che rilevano un progressivo invecchiamento della popolazione, scarsi trasferimenti alle famiglie e un welfare state sempre meno presente.
Da non sottovalutare anche gli effetti indiretti che investono i caregiver relativamente agli impatti emotivi e psicologici.
“E’ una condizione di vita – aggiunge Gloria – invalidante. Non hai neanche il tempo di realizzare che la tua esistenza passa dalla spensieratezza ad un perenne stato di ansia e solitudine. A volte con mio marito ci siamo detti che non saremmo riusciti a farcela, per ragioni economiche, ma soprattutto per il rischio burnout che noi caregiver corriamo”.
In Italia l’Istat stima che oltre il 30% dei lavoratori ha in cura di un familiare con ripercussioni importanti sui tempi di conciliazione vita-lavoro, dato che sale al 60% per la fascia dai 35 ai 55 anni.
La coperta del welfare state in ambito assistenziale è chiaramente troppo corta, complice un sistema di trasferimenti ridotto e in larga misura inefficiente.
L’architrave delle politiche assistenziali dirette alla famiglie nel nostro paese poggia da decenni sull’indennità di accompagnamento, gestita dall’Inps, che corrisponde ai caregiver in media poco più di 520 euro al mese. Differente, tanto dal punto di vista del sostegno economico che in quello del riconoscimento del ruolo è lo scenario presente negli altri stati europei con in testa l’Inghilterra. In UK i caregiver vengono assunti e pagati come gli altri operatori assistenziali dalle municipalità.
Quanto l’Italia sia indietro lo dimostrano anche i dati di diffusione del welfare aziendale e delle politiche adottate dalle imprese nell’ambito delle attività assistenziali dirette ai dipendenti. Lo zoccolo duro dell’imprenditoria, composto prevalentemente da pmi, fatica ad implementare modelli che vadano in questa direzione e, così facendo, progetti indispensabili per le famiglie come la banca delle ore rimangono prerogativa di grossi gruppi societari.
In questo quadro a tinte fosche anche l’affermazione delle misure di detassazione dei benefit sociali appare rallentata da una legislazione che negli ultimi anni non ha ampliato e potenziato il perimetro dei servizi.
Una disattenzione imperdonabile per un paese nel quale, per via delle politiche assistenziali pubbliche ridotte, la strada per fornire un aiuto concreto alle famiglie non può che passare dalle imprese.
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