Tasse
Viaggio nella sugar tax
Se ci lasciassimo ispirare dalla prosa altisonante del Barone di Montyon, dovremmo asserire che la montagna ha partorito il topolino. Tuttavia cercheremo di essere meno tranchant del filantropo francese ottocentesco, anche perché non ci annoveriamo certamente tra colo che conferiscono alla leva fiscale una funzione purificatrice o moralizzante dei costumi della società. Se Montyon, infatti, attribuiva all’imposta il fine di « raggiungere il cittadino nei suoi interessi individuali per modificarne le qualità morali…elettrizzandone o paralizzandone le facoltà », noi, più laicamente, riteniamo di non poter rinunciare al progetto di massimizzazione del benessere sociale, coerente con le aspirazioni dello Stato sociale di diritto, che si serve di un complesso di prelievi obbligatori preordinati ad indirizzare il comportamento dei consociati verso obiettivi d’interesse generale.
Dopo lunghe ed articolate vicende politiche, il Senato ha licenziato il Bilancio di previsione per il 2020 e pluriennale per il triennio 2020-2022 che è arrivato, intonso, ad approvazione definitiva pochi giorni prima di Natale, da parte della Camera. In seno alla manovra, resistendo a non poche ritrosie, molteplici rinvii e sostanziose rimodulazioni, ha visto la luce la prima imposta sul consumo di bevande contenenti zuccheri aggiunti. Si tratta di una novità assoluta per il nostro ordinamento che, da sempre, guarda con una certa diffidenza alle misure di fiscalità comportamentale, in particolare nella declinazione di specie della fiscalità nutrizionale. Intendiamo in questa sede descriverne il profilo, mostrando quelli che, a nostro avviso, costituiscono i profili di criticità, consapevoli di non poter esaurire, in queste poche righe, una trattazione che richiede spazi assai più ampi.
Il maxiemendamento approvato da Palazzo Madama, con voto di fiducia, istituisce, all’art.1 cc. 661-676, l’imposta sul consumo di bevande edulcorate, rientrando in questa definizione i prodotti finiti e quelli predisposti per essere utilizzati previa diluizione, di cui alle voci NC 2009 e 2202 della nomenclatura combinata dell’Unione Europea. Vale a dire quella vasta gamma di soft drinks, quindi bibite senza aggiunta di alcool, addizionati di zuccheri e altre sostanze dolcificanti. Non rientrano dunque nell’ambito applicativo della norma le bevande contenenti zuccheri propri.
Il Legislatore intende per edulcorante qualsiasi sostanza, naturale o sintetica, in grado di conferire sapore dolce alle bevande – si tenga a mente questo dato che, a breve, risulterà significativo per l’intelligenza complessiva della misura. Sono obbligati al pagamento dell’imposta: il fabbricante nazionale ovvero il soggetto nazionale che provvede al condizionamento, l’acquirente di prodotti provenienti da Paesi UE e l’importatore di bevande provenienti da Paesi non UE.
L’imposta è fissata nella misura di 10 Euro per ettolitro (dunque 10 centesimi di Euro al litro) e 0,25 Euro per chilogrammo per quanto concerne i prodotti destinati alla diluizione. Ultimo dato, a nostro avviso il più rilevante, è rappresentato dalla circostanza che l’importo è dovuto qualunque sia la quantità di zuccheri-edulcoranti contenuti. Infatti, il Legislatore, sulla scorta della normativa UE in materia, si limita a fissare una soglia di esenzione dal pagamento: sono esenti dal pagamento le bevande con un contenuto complessivo di edulcoranti inferiore a 25 grammi per litro ( 125 grammi per chilogrammo, in caso di sostanze diluende).
Per economia d’esposizione, rimandiamo al testo di legge circa gli altri profili strutturali, qui ci interessa, per quanto possibile, mettere in luce aspetti più ampi, in termini fiscali e di diritto.
Tentiamo brevemente di contestualizzare la norma, illuminandola con qualche prospettiva comparata, per comprenderne l’idoneità ad attendere le ambizioni, per vero onorevoli, che sembrerebbero animare il Legislatore.
L’imposta de quo, pur apparendo come un hapax nella vicenda tributaria repubblicana per le sue tipicità, si inserisce nella tradizione extrafiscale propria dello Stato sociale di diritto che trova, non solo in Italia, solidi baluardi teorici. Parliamo di quello che autorevole letteratura definisce il doppio dividendo della fiscalità: rendimento e regolamento, il ricorso alla leva fiscale per l’adempimento di scopi ben più ampi del rimpinguamento delle casse statali. Qui viene in gioco, insomma, l’imposta che, creazione dallo spirito essenzialmente liberale, si consacra a scopi lato sensu sociali e di ottimizzazione dei mandati costituzionali che fondano il patto sociale.
Questa missione dell’imposta si sgancia dalla polemica, tutta ideologica, tra neutralisti ed interventisti e dalla quale anche noi intendiamo affrancarci per non impelagarci in riflessioni sovente autoreferenziali. Per dirla con Assouline: qui non è questione di paternalismo bensì, come sopra riferito, di massimizzazione del benessere sociale. La soda tax, se preferite sugar tax, è la testa d’ariete di quella fiscalità comportamentale che incoraggia certe pratiche o al contrario dissuade dal consumare certi beni o servizi, con riguardo ad obiettivi d’interesse generale. Modificando il prezzo di un bene, il Legislatore, rispondendo ad un dovere tutto suo proprio, cerca d’influenzare le scelte degli individui, sovente incoscienti dei costi collettivi delle proprie condotte o incapaci di prevedere le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni. È in questa geometria teorica che riteniamo di doverci muovere, per valutare con perizia l’idoneità della misura introdotta in questi giorni nel nostro sistema tributario. Ed è da questo angolo visuale che riteniamo di poter affermare l’inefficacia della neonata imposta.
Modelli diversi di soda tax albergano, da lungo tempo, nel panorama della finanza pubblica occidentale. Già nel 1994, in un celebre articolo pubblicato dal New York Times, lo psicologo clinico statunitense Kelly D. Brownell suggerisce all’Amministrazione statunitense di estendere il regime fiscale previsto in materia di alcool e tabacchi ai cibi ad alto contenuto calorico: get slim with higher taxes! Questa riflessione, allora avanguardista, consolidatasi negli ultimi venticinque anni ha, in realtà, degli antecedenti nella civilissima penisola scandinava che rimontano agli anni ’40 (Finlandia) ed ’80 (Norvegia). Molteplici local jurisdictions degli Stati Uniti hanno adottato forme di tassazione sui soft drinks e, specie nell’ultimo decennio, diversi Stati europei tra cui il Belgio, il Regno Unito, la Francia, l’Ungheria e l’Irlanda si sono aggiunti.
Il caso italiano non si discosta, quanto alle mire del Legislatore, dagli altri appena citati. Stando alla Relazione illustrativa che accompagna il Disegno di Legge, la ratio è proprio la riduzione del consumo di zuccheri aggiunti che, nel lungo periodo, genera considerevoli esternalità negative in termini di aumento delle malattie non trasmissibili e, conseguentemente, di costi in termini di spesa sanitaria. Insomma, per dirla con Delalande, la vulgata è la stessa da qualche decennio: influenzare le scelte degli individui giudicati insufficientemente razionali, incoscienti dei costi collettivi delle proprie condotte e incapaci di prevedere le conseguenze a lungo termine delle proprie azioni.
Non a caso, nella predetta Relazione, si fa riferimento ad una citatissima ricerca condotta, nel 2016, dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che, concentrandosi sull’impatto delle politiche fiscali in termini di prevenzione dei non-communicable diseases, evoca una specifica esigenza che il Legislatore italiano sembra però dimenticare (dopo avervi fatto riferimento). Le soda taxes, sostiene l’OMS, devono comportare un aumento del prezzo al consumatore di almeno il 20% perché possano ritenersi in grado di dispiegare il proprio effetto in termini di riduzione dei consumi.
Diversamente, non possiamo non dirci scettici circa l’effettività degli scopi regolamentari e non lasciarci scuotere dal tormento che l’obiettivo malcelato sia il mero rendimento.
A tal proposito, si consideri la longeva esperienza statunitense, ove emerge plasticamente l’importanza di questa che molti definiscono la soglia di efficacia della sugar tax. In un celebre studio, apparso nel 2017, condotto da Paarlberg ed altri, si evidenzia che il risultato prodotto da questa imposizione sia calcolabile in termini di gettito e non certo comportamentali. La spiegazione che la dottrina pacificamente adduce si concentra sul livello troppo basso della tassazione, il cui valore medio in termini percentuali non supera il 10% del prezzo al consumo. Una situazione eterogenea si registra invece nei panorami fiscali del vecchio continente, dove modelli simili a quello introdotto dal Legislatore nostrano hanno mostrato crepe evidenti, già nel medio periodo, tanto da indurre ad una loro revisione in termini strutturali ed ontologici.
Si badi, ad esempio, al caso francese, in cui assistiamo ad una complessiva revisione della misura, che ha prodotto nel 2019 il passaggio ad una fiscalità più schiettamente incentivante e che assume come destinatari le imprese più che i consumatori.
Eppure, nonostante le risultanze negative che derivano dall’esperienza d’oltralpe, il Legislatore italiano sembra essersi ispirato proprio alla prima versione della taxe soda, introdotta nel 2012, nella forma di una contribution che tassava la quantità di zuccheri purchessia, esattamente come stabilito dal Legislatore italiano e con un’aliquota non molto lontana da quella scelta in Italia. Tuttavia, provvidenzialmente, in Francia, il Parlamento si premurò di distinguere tra bevande edulcorate e bevande zuccherate, garantendo in questo modo all’effetto segnale della tassazione di dispiegarsi; prevedendo altresì un adeguamento dell’ammontare della taxe soda al tasso di crescita dei prezzi al consumo. Premure non adoperate dal Legislatore italiano, almeno in questa fase.
Se consideriamo l’efficacia della gemella imposizione francese, osserviamo come essa sia decisamente controversa e gli studi sulle ricadute di quest’ultima, in termini di prezzi e consumi, per quanto non numerosi, non sono certo confortanti. Qui non ci soffermeremo sugli scritti, sicuramente interessanti ma certamente non privi di tensione ideologica che si sono affastellati nel panorama francese, preferiamo piuttosto mostrare le risultanze suggerite dai “numeri” interpolati alle scelte di politica fiscale.
La prima disamina relativa all’effettivo trasferimento dell’imposta ai prezzi appare in una versione preliminare nel 2012 e poi nel 2016. Parliamo dell’analisi condotta da Berardi ed altri sul cd. pass-through o transmission della tassazione che, di fatto, è il nodo di una fiscalità che si propone di intervenire sui comportamenti dei consociati. I risultati della ricerca mostrano una considerevole eterogeneità dei fattori incidenti sulla trasmissione dell’imposizione, addivenendo, all’esito di una solida elaborazione, a mostrare che, globalmente, l’assenza di sovra-trasmissione dell’accisa, insieme al suo limitato ammontare, permette di concordare con l’atteso basso impatto della taxe soda in termini di consumo di zucchero e conseguenze per la salute.
In altri studi si evidenzia, altresì, l’esigenza che la tassazione de quo si combini al labeling effect, l’informazione del consumatore-contribuente, mediante la creazione di un contesto di cultura diffusa che consenta la metabolizzazione della misura tributaria, la quale fisiologicamente necessita della predisposizione psicologica dei consociati al fine di dipanare i propri effetti extrafiscali. Gli eredi della scuola della sociologia fiscale sottolineano che questa predisposizione – kultur per dirla coi giuspenalisti- ha sovente un impatto perfino superiore rispetto alla tassazione stessa ed evita gli effetti distorsivi di un’aliquota gravosa e pertanto frustrante. È, insomma, il combinato disposto dall’aumento di prezzo e tale effetto etichettatura a indirizzare i consociati verso pratiche sostenibili, virtuose e meno gravose per la spesa pubblica.
Tutte queste ragioni unite alle constatazioni di cui sopra – si pensi che taluni stimano la riduzione del consumo di bevande zuccherate in termini francamente irrisori, fissandola a non più di 9 cl medi per persona a settimana- hanno portato il Legislatore francese a rivedere la struttura della taxe soda, considerando inadeguato il modello che oggi il Parlamento italiano si appresta a votare.
Infatti, nel 2018, fa la sua comparsa un tipo d’imposta, modellata sull’esempio britannico che riteniamo essere il più efficace punto di riferimento in materia. Tale novellata imposizione è modulata sulla base delle quantità di zuccheri contenuti nelle bevande al fine di indirizzare gli industriali alla riduzione delle quantità di zuccheri nelle proprie bevande. L’assunto di fondo, espresso dal Legislatore, consiste nel fatto che se i produttori avranno ridotto la quantità di zuccheri saranno ricompensati da una contrazione del gravame fiscale, stabilendosi dunque una misura più visibile, comprensibile ed intellegibile.
L’aliquota delle moderne soda taxes (britannica e francese) aumenta progressivamente rispetto all’edulcorazione della bevanda tassata. L’obiettivo, insomma, non è più quello di generare una contrazione dei consumi bensì agire a monte, presso le aziende produttrici. È invero la composizione del prodotto ad acquistare centralità rispetto alle modalità di consumo. Infatti, il legislatore si propone di stabilire un’imposizione più visibile, grammo per grammo, facendo della progressività del prelievo la sua caratteristica fondamentale, in luogo di tassare ciecamente qualsiasi bevanda analcolica a prescindere dal quantitativo di zuccheri aggiunti.
Per ragguagliare il lettore arguto circa le potenzialità di siffatta imposizione, ci limiteremo a citare proprio il caso britannico. Nel Regno Unito, la misura venne comunicata nel 2016 dal Cancelliere dello Scacchiere Osborne alla Camera dei Comuni, in occasione del budget annuncement. Questi annunciò che l’imposta avrebbe prodotto un gettito di mezzo miliardo di sterline, destinato al finanziamento di attività sportive e di sostegno alla formazione scolastica. Ebbene l’incame stimato si dimezzò prima ancora della effettiva introduzione dell’imposizione perché il solo effetto-annuncio spinse i produttori a riformulare le ricette delle bevande.
La nuova sostanza tributaria della soda tax, così formulata, segna un cambio di passo sostanzioso e sostanziale nello strumentario di cui il Legislatore – britannico e francese – ha deciso di disporre per attendere finalità extrafiscali. Ci sembra che questo modello d’imposizione e non certo quello introdotto in questi giorni nel nostro ordinamento risponda alle esigenze che derivano dalla signoria del regolamento sul rendimento. All’effetto prezzo si sostituisce un’attività di cesello che opera a monte, rinunciandosi in qualche modo ad inquadrare le condotte individuali in nome di finalità collettive ma garantendosi, più efficacemente, l’asservimento del mezzo fiscale all’ottimizzazione del mandato costituzionale di salute pubblica.
Se da un lato, infatti, il modello sortito dalla recente esperienza francese suggerisce la rinuncia all’ambizione didattico-rieducatrice insita in ogni imposizione comportamentale, abbandonandosi la pretesa d’indirizzare i consociati a conformare il proprio agire verso finalità d’interesse generale; non possiamo non considerare come la defunzionalizzazione del contratto socio-fiscale sia il prezzo da pagare a fronte di un’imposta che, per raggiungere le predette finalità extrafiscali, avrebbe necessitato di un’aliquota troppo gravosa. La soda tax di seconda generazione supera indubbiamente, infatti, le criticità in tema di libertà di scelta dei consociati e disfunzioni regressive di cui era stata largamente accusata.
Queste evidenze ci suggeriscono preoccupazione o almeno scetticismo circa la misura adottata dal Legislatore italiano. Non possiamo non denunciare, con franchezza, quella che ci appare un’opera di maquillage tributario. Ci sembra, insomma, che dietro le sbandierate finalità regolamentari si celino meno onorevoli esigenze di rendimento, che rendono quella di questi giorni un’occasione persa.
Le sirene della demagogia unite alla, beninteso fisiologica, necessità di fare cassa rischiano di distogliere l’attenzione dalle esigenze di un campo che merita attenzione e ricerca: quello della fiscalità in materia nutrizionale, agroalimentare ed anche ambientale. Del cui avvenirismo ci sembrano ancora pochi gli interpreti.
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