Clima
La Norvegia, terra dell’energia, e la sfida della “svolta verde”
di Gabriele Catania e Benedicte Meydel
STAVANGER – In Italia sono in pochi a conoscere Stavanger. Eppure questa città di 135mila abitanti è una delle più ricche, e influenti, d’Europa. E questo non è certo una sorpresa, nel Vecchio continente, dove spesso l’anonimato comodo della provincia si intreccia alla potenza industriale e finanziaria. Pensiamo soltanto alle misconosciute Ingolstadt, Wolfsburg, Vevey e Arteixo, rispettivamente quartier generale dell’Audi, della Volkswagen, della Nestlé e della Inditex. Ma Stavanger è una company town molto sui generis: qui, infatti, ha sede la Equinor, il colosso norvegese del gas e del petrolio, in una nazione che nel 2019 ha esportato circa quaranta miliardi di euro in idrocarburi.
Stavanger è soprannominata Oljebyen, la capitale del petrolio. E i suoi abitanti ne vanno molto orgogliosi. «Lo sapevi che molti milioni di europei e britannici dipendono dal gas norvegese per riscaldare le loro case e cuocere i loro pasti?» Questa la domanda che una mostra del Norsk Oljemuseum rivolgeva ai visitatori un paio di anni fa. Il museo del petrolio si trova al porto di Stavanger, ed è una costruzione moderna in vetro, pietra e cemento che da lontano ricorda una piccola piattaforma petrolifera. Si affaccia sul mare con rassicurante austerità. Il mare, del resto, è una della chiavi di lettura non solo dell’identità di Stavanger, ma della storia idrocarburica della Norvegia.
Le origini di Stavanger affondano nel medioevo, quando la Norvegia era l’estremo limite del mondo cristiano: oltre di essa c’era il grande e freddo Oceano, e le remotissime isole di Islanda e di Groenlandia. Se nel XIV secolo Stavanger era solo un centro minore inserito nella rete commerciale della ben più influente Bergen (a sua volta legata a doppio filo ai traffici della Lega anseatica), nel XIX secolo si trasformò in un importante polo per la pesca delle sardine, e della cantieristica: i ricchi boschi della zona fornivano dell’ottimo legname, la materia prima per velieri che si spingevano sino ai porti del Mediterraneo e dell’Atlantico meridionale. All’alba del secolo scorso la Norvegia vantava la quarta marina mercantile del mondo, superando anche Francia e Italia. A Stavanger prosperavano dinastie commerciali visionarie come i Monsen, che avevano iniziato con il traffico di aringhe ai tempi delle guerre napoleoniche, e avevano poi continuato con il commercio della frutta iberica.
Presto le ditte specializzate nella costruzione dei velieri cedettero il passo alla moderna cantieristica, e soprattutto si sviluppò l’industria dell’inscatolamento delle aringhe. Alla fine degli anni ’50 però la città era nuovamente impantanata nella stagnazione, e l’impetuoso sviluppo dei cantieri giapponesi la stava trasformando nell’ombra di se stessa. Ma gli abitanti di questa città di frontiera (marittima), pur abituati alle fasi di boom e di contrazione, non potevano sospettare che dal mare sarebbe arrivata la ricchezza più grande, quella che avrebbe trasformato Stavanger e l’intera Norvegia: il petrolio.
Nel 1967 venne scoperto nel Mare del Nord, a circa 190 chilometri a ovest di Stavanger, il giacimento petrolifero Balder. Oggi operato da Vår Energi – società controllata al 69,6% da Eni, e importante attore nel Mare del Nord, nel Mare di Barents e nel Mare di Norvegia –, fu individuato dagli americani, allora leader indiscussi nell’esplorazione petrolifera. Due anni dopo, a 320 chilometri a sudovest di Stavanger, fu scoperto dalla Philips Petroleum il giacimento Ekofisk, tuttora attivo.
«All’inizio degli anni Sessanta sia la Danimarca che la Norvegia furono avvicinate da aziende petrolifere internazionali che volevano trivellare alla ricerca di petrolio e gas naturale – scriveva in un suo articolo Øystein Noreng, professore emerito alla prestigiosa Handelshøyskolen BI e grande esperto del settore –. La Danimarca senza troppe esitazioni diede a un consorzio internazionale diritti monopolistici sulla sua piattaforma continentale; la Norvegia mostrò cautela, in virtù di una tradizione di protezione delle sue risorse naturali, il pesce e l’energia idroelettrica. Nessuno sapeva l’entità delle risorse, e l’effetto che le attività di estrazione avrebbero avuto».
Ekofisk è un nome amato dai norvegesi. Fu grazie ad esso che il mondo iniziò a comprendere il potenziale energetico offshore del paese scandinavo. Tecnici, manager ed esperti iniziarono a convergere su Stavanger, i suoi hotel e bar si riempirono di ingegneri, geologi, operai da Stati Uniti, Regno Unito, Paesi Bassi. Senza alcun know-how specifico, la Norvegia rischiava di perdere il reale controllo dei giacimenti, a vantaggio delle multinazionali del Big Oil: lo spauracchio di trasformarsi in una colonia economica aleggiava sul paese.
E così nel 1972, dopo una prima fase di “alleanza tra lo Stato norvegese e alcune delle grandi multinazionali [del settore petrolifero]”*, lo Storting, cioè il parlamento norvegese, istituì sia la Statoil, compagnia petrolifera di Stato (dal 2018 Equinor), che l’Oljedirektorat, agenzia statale incaricata di vigilare sul miglior uso possibile delle risorse energetiche norvegesi. Entrambe furono poste a Stavanger.
“La Norvegia riuscì a estrarre il petrolio da sotto il mare, tenere in mani norvegesi la parte essenziale dei lotti affittati, costruire un apparato industriale petrolifero più o meno come si desiderava all’inizio, e – per la maggior parte – evitare il male olandese”. Così scriveva lo storico Francis Sejersted in un celebre saggio*.
Il successo norvegese in una gestione innovativa della propria ricchezza idrocarburica nasce anche dal talento di uomini come Farouk al-Kasim. Geologo degli idrocarburi irakeno, con gli esperti del ministero dell’Industria norvegese gettò le basi della potenza idrocarburica del paese. Al-Kasim aveva una marcia in più perché proveniva da un paese, l’Irak, che aveva già sperimentato sia la iattura dello strapotere del Big Oil, sia quella del monopolio di Stato senza controlli. L’esperto voleva creare «un piccolo caos strutturato» (così ha spiegato qualche tempo fa alla giornalista Lisa Margonelli in un long read riproposto in Italia da The Passenger). In realtà il contributo di al-Kasim fu decisivo nel lanciare una vera e propria rivoluzione economica.
Anche Stavanger iniziò a cambiare, perdendo una certa atmosfera austera, retaggio del suo passato religioso, e trasformandosi in una delle “capitali dell’energia” globale alla stregua di Houston, Perth o Calgary**. Si moltiplicarono i posti di lavoro collegati alla nascente industria petrolifera, e la mentalità intraprendente della città accelerò la metamorfosi. «Ho lavorato per diversi anni a Stavanger – ci spiega un ingegnere italiano con un ruolo importante in un’azienda energetica attiva in Norvegia –. È una città per certi versi americana, molto rapida a capire la piega che stanno prendendo gli eventi».
Si consideri il caso della famiglia Smedvig. Esso esemplifica bene la parabola di Stavanger. Nel 1915 Peder Smedvig inaugurò la sua attività di armatore. L’anno seguente entrò nel business dell’inscatolamento delle aringhe. Poi in quello delle navi-cisterna. Nel 1959 gli subentrò il figlio Torolf, e l’azienda iniziò a puntare sulla nascente industria petrolifera norvegese, come fornitrice di servizi prima, e poi anche nell’esplorazione e trivellazione. O ancora si consideri l’evoluzione dei cantieri Rosenberg, che negli anni ’70 passarono dalla produzione di comuni petroliere a quella di trasportatori di gas naturale liquefatto con cisterne sferiche.
Rispetto ad altre potenze idrocarburiche, i norvegesi sono riusciti a diventare leader anche in alcune nicchie hi-tech, soprattutto in ambito offshore: dalle tecnologie sottomarine alle gru speciali, dalle piattaforme a gravità ai software dedicati, passando per una ridda di servizi specializzati. Secondo la Norsk olje & gass sono oltre 225mila le persone che lavorano nel settore e nel suo indotto: una bella fetta di ricchezza e occupazione di qualità, specie nelle aree di Stavanger (Rogaland), Oslo (Viken), Bergen (Vestland), che oggi guarda con una certa trepidazione all’emergere di nuovi paradigmi energetici.
Hanno a che fare con gas e greggio molte realtà della finanza norvegese. Lo stesso Statens pensjonsfond Utland, il fondo sovrano da circa 960 miliardi di euro comunemente detto Oljefond, è alimentato dai cespiti derivanti da gas e petrolio, ed è pensato proprio per proteggere le future generazioni dal fatto che “un giorno il petrolio finirà” (o ci si rivolgerà massicciamente ad altre fonti energetiche).
«L’industria del petrolio e del gas ha avuto un’enorme importanza per la Norvegia – ci spiega Tina Bru, ministra del petrolio e dell’energia –. La nostra storia petrolifera in questi ultimi cinquant’anni ha contribuito a rendere la Norvegia di oggi un paese forse completamente diverso da quello che sarebbe stato se non avessimo trovato petrolio e gas. Ovviamente si è verificato un immenso aumento nella ricchezza e nel benessere. Non c’è dubbio che questo è il nostro più grande e importante settore produttivo. C’è un’enorme creazione di valore legata ai posti di lavoro in quest’industria».
Il contributo del gas e petrolio si è toccato con mano nel corso della crisi causata dal Covid-19. «È grazie alla nostra ricchezza petrolifera che oggi siamo in grado di supportare le aziende e far girare tutto sena dover ricorrere al debito».
In realtà l’energia è sempre stata fondamentale per la prosperità delle nazioni. Come dice al telefono Noreng, «la storia europea dimostra l’importanza delle risorse energetiche. Il carbone ha segnato l’inizio della Rivoluzione industriale in Inghilterra. La Germania imperiale fu costruita sul carbone. E cosa sarebbe stata l’Arabia Saudita, ad esempio, senza il petrolio?»
Certo, la situazione norvegese è davvero unica. Anders Lie Brenna è il direttore della testata specializzata enerWE, e ci racconta: «L’energia è la più importante materia prima del mondo. Ogni cosa, in una società, dipende dall’energia, il pilastro della società del benessere norvegese. L’energia ci ha dato ricchezza, e ora abbiamo un dibattito su come fare un passo utilizzando meno petrolio e gas».
La Norvegia, aggiunge l’esperto, «è oggi la nazione dell’energia. Lo saremo ancora quando la “svolta verde” si sarà verificata? È una domanda critica perché la nostra è una nazione con sovrabbondanza di energia e questo è fondamentale per il welfare. Pertanto se portiamo a termine la “svolta verde” ma non possiamo contare su un eccesso di energia, beh… allora non siamo più neanche una società del benessere. Non penso che molta gente ne sia consapevole».
Rispetto alle industrie idrocarburiche di altri paesi, quella norvegese è meno sensibile ai cali dei prezzi. Anche se estrarre petrolio nel Mare del Nord è più costoso che farlo nelle sabbie saudite, l’industria norvegese non ha a che fare né con processi di estrazione troppo complessi e costosi come quelli per sfruttare lo shale gas statunitense, né con gli alti costi di trasporto degli idrocarburi estratti nelle immensità del Canada.
Certo, alcune aree del paese sono più vulnerabili di altre. È il caso di Stavanger, ancora oggi così legata al petrolio che la sua squadra di hockey si chiama Oilers, e che l’andamento del prezzo del greggio ha un effetto di rilievo sull’economia cittadina. Nel 2012, quando il Brent superava i 120 dollari al barile, Stavanger era la quinta città più costosa del mondo, superando pure Zurigo e New York: un bel problema per i lavoratori a basso reddito, costretti talvolta a trasferirsi altrove. Nel 2016, con il Brent a 40 dollari al barile, Stavanger e l’intera Rogaland erano duramente colpite dalla disoccupazione, e molti ex lavoratori petroliferi incontravano grosse difficoltà a riconvertirsi: una situazione inedita, in Norvegia.
In generale il costo della vita in Norvegia è davvero alto. Il conto di un pranzo al ristorante a Oslo può essere un piccolo shock finanziario per un italiano. I prezzi degli immobili poi sono surreali, specialmente nella capitale. Odd Arve Kristiansen è un pensionato della contea di Viken di 78 anni, e dice: «Sono preoccupato per i giovani in cerca di lavoro: non riescono a trovarne uno. È il lato oscuro di un’economia che va bene». Kristiansen è assai impensierito dall’inflazione e dai prezzi immobiliari. «Nel 1986 potei comprare una porzione di una grande casa per 85mila corone. Oggi di corone ne servono quattro milioni. È davvero una follia. Le nuove generazioni hanno serie difficoltà ad entrare nel mercato abitativo». Del resto è proprio per scongiurare il surriscaldamento di un’economia fin troppo vitale che l’Oljefond investe solo all’estero.
L’importanza economica dell’industria idrocarburica norvegese si riflette sulla sua influenza sulla società. «La lobby più potente che abbiamo in Norvegia è quella del petrolio e del gas. Senza alcun dubbio. È super-forte» sottolinea Ask Ibsen Lindal, portavoce per l’energia del Miljøpartiet De Grønne (Verdi).
Ask Ibsen Lindal fa notare come il calo del prezzo del barile a causa della guerra dei prezzi tra russi e sauditi nel 2020 abbia congelato molti nuovi progetti petroliferi norvegesi, danneggiando non solo l’industria idrocarburica del paese ma l’intero indotto; ciò ha spinto lo Storting ad adottare un pacchetto fiscale estremamente favorevole al settore. Per il verde «nessuno gode di regole tanto favorevoli [in Norvegia] quanto quest’industria».
Secondo l’economista Torfinn Harding, autorevole economista dell’Università di Stavanger, «potremmo certo discutere di questo pacchetto, non è perfetto e forse è troppo generoso, ma si potrebbe anche dire che hanno erogato liquidità a breve termine con il potenziale per contribuire a non avere un declino del settore maggiore del necessario». Non a caso, osserva Harding, alla fine quasi tutti i partiti allo Storting hanno votato il pacchetto. Segno che quando il gioco si fa duro, «il settore petrolifero ha troppo valore per essere accantonato».
I sindacati dei lavoratori dell’energia sono un interlocutore di rilievo per l’Arbeiderpartiet (Partito laburista). Alle elezioni del 2017 – vinte dalla coalizione di centrodestra guidata dal primo ministro Erna Solberg, la “Merkel nordica” – uno dei temi più dibattuti è stato il futuro energetico del paese. Ancora, è degno di nota come, nella patria di pionieri del pensiero ecologista quali Arne Dekke Eide Næss e Peter Wessel Zapffe, allo Storting il Miljøpartiet abbia appena un seggio, contro i quattro dei due partiti verdi al Folketing danese e i sedici del Miljöpartiet de gröna al Riksdag svedese.
I norvegesi sanno che il mondo sta cambiando, che la domanda di energia pulita è destinata a crescere massicciamente, in primis nella UE. Per la loro industria idrocarburica, consacrata all’export, non è una notizia buona. “Si sta verificando un cambiamento: da un modello basato sulle ‘molecole idrocarburiche’ a un modello basato sugli ‘elettroni’ e le rinnovabili – si può leggere in un recente research paper della Chatham House dal titolo Expert Perspectives on Norway’s Energy Future –. Il cambiamento climatico è stato la causa scatenante per questa transizione globale, con fenomeni ambientali locali (specie la qualità dell’aria in città e le sue conseguenze per la salute pubblica) che stanno accelerando le richieste di cambiamenti nel modo in cui l’energia viene prodotta e consumata”.
Una volta i lavoratori dell’olja (od oljå, se si vuole dirla nel dialetto di Stavanger) erano visti quasi come eroi. Il petrolio era considerato come uno straordinario fattore di progresso, l’approdo definitivo al benessere da parte di una piccola nazione indipendente solo dal 1905, e vittima della dura occupazione tedesca dal 1940 al 1945. Oggi, sui cartelloni pubblicitari che chiedono retoricamente “Perché continuiamo a cercare il petrolio?”, si possono leggere scritte come “Non lo so, dato che è stupido”.
Per Harding «oggi l’intero settore petrolifero trova la strada in salita quanto a legittimità. Ma dobbiamo ricordarci che perfino negli anni ’70 non tutti erano entusiasti di estrarre petrolio. Sussistevano preoccupazioni di tipo ambientale già allora, e il timore che la nuova attività avrebbe avuto un impatto su altre industrie». Naturalmente oggi, continua l’accademico, le preoccupazioni riguardano anche il cambiamento climatico. «Ciò scuote un po’ l’immagine che abbiamo del nostro paese. Ed è qualcosa che si può avvertire soprattutto qui a Stavanger».
Nonostante il suo soprannome di “capitale del petrolio” a Stavanger c’è attenzione per i temi ambientali. Lo precisa Ask Ibsen Lindal: «Abbiamo diversi iscritti in Stavanger che lavorano nel settore petrolifero. Siamo anche parte della coalizione al governo della città, e il quinto partito con il 6,5% dei voti. Anche se vivono nel centro dell’industria petrolifera norvegese, molti abitanti di Stavanger comprendono in che epoca stiamo vivendo».
L’epoca si chiama antropocene, ed è segnata dall’emergenza climatica. Che con l’utilizzo dei combustibili fossili, com’è noto, ha molto a che fare. Tra i più angustiati ci sono i giovani, come spiega Astrid Willa Eide Hoem, leader dell’AUF, l’organizzazione giovani del Partito laburista. «La gioventù norvegese è molto preoccupata per il cambiamento climatico. Durante lo sciopero climatico del 2019 si stima che siano scesi in piazza oltre 30mila norvegesi. E gli iscritti dell’AUF mi dicono spesso che sono preoccupati per il futuro. Preoccupati del fatto che le cospicue emissioni di CO2 della Norvegia danneggeranno il pianeta. Preoccupati che il danno all’ecosistema sia irreversibile, del grosso aumento di rifugiati climatici e del fatto che le nazioni povere del mondo pagheranno il prezzo del nostro egoismo».
E tuttavia, aggiunge la giovane politica, «molti giovani norvegesi sono anche preoccupati per il futuro occupazionale dei loro genitori, e di loro stessi. La risposta al cambiamento climatico non può essere la disoccupazione».
Il dilemma della Norvegia è tutto qui. È uno dei paesi più democratici del mondo; cerca di essere una potenza umanitaria, aiutando finanziariamente nazioni a terra come la Somalia, o promuovendo un’azione coordinata globale contro la pandemia; ha ratificato l’Accordo di Parigi, e si è impegnata a ridurre le proprie emissioni di CO2 del 40% rispetto ai livelli del 1990 entro il 2030, e dell’80-95% entro il 2050.
Allo stesso tempo, il paese non solo è il terzo esportatore mondiale di gas naturale, e trae più del 15% del suo PIL dall’industria idrocarburica, ma continua a puntare su gas e petrolio. La produzione di gas è in crescita da ormai tre decenni, e il trend continuerà per i prossimi anni. L’output petrolifero è in calo dal 2001, anno del picco, ma sino al 2023 tornerà a salire; la ragione è che sta entrando a pieno regime Johan Sverdrup, il terzo giacimento petrolifero più grande della piattaforma continentale norvegese.
«Banalizzando, la Norvegia non è l’Arabia Saudita, che può disporre di riserve provate [di greggio] immense. In realtà sono quasi un’inezia comparate a quelle del Kuwait, della Libia o persino dell’Ecuador – ammette l’ingegnere italiano –. Ecco perché i norvegesi negli anni sono diventati molto bravi a spremere dai loro giacimenti ogni goccia di petrolio, puntando molto sull’innovazione, a 360°. Sanno che la festa non durerà ancora troppo a lungo». I dati danno ragione al tecnico: nel 2006 la Norvegia era il terzo esportatore mondiale di petrolio, alle spalle solo di Arabia Saudita e Russia; nel 2018 era al quattordicesimo posto.
«Viviamo in un’epoca in cui le entrate del petrolio caleranno, e una grossa parte della forza-lavoro in Norvegia dovrà concentrarsi su altri settori – dice Astrid Willa Eide Hoem –. Se è necessario compiere questa trasformazione, dobbiamo agire quando abbiamo ancora forza finanziaria per farla accadere. E lo Stato ha una speciale responsabilità nel trovare nuove soluzioni in grado di contribuire a una nuova vita lavorativa green in Norvegia».
A Oslo è facile imbattersi in studenti che considerano il petrolio un business ormai obsoleto, da consegnare al più presto ai libri di storia economica. Certo, non è facile. Commenta Torfinn Harding: «Molta gente dice che non è prudente essere nel business del petrolio perché non è il settore del futuro, ma il punto è che questo business ancora molto redditizio». Persino il 2020 è stato un buon anno per l’industria del petrolio e del gas della Norvegia, a detta dello Oljedirektorat. «Così se ci dovremmo meravigliare del fatto che non ci siamo allontanai dal petrolio, penso anche che dovremmo ricordare che la risposta è semplice: c’è un bel po’ di denaro in questo business».
La Norvegia, peraltro, «è costruita sul capitalizzare le risorse naturali. Che siano pesce, o petrolio. Abbiamo anche l’idroelettrico – ricorda l’economista –. L’energia idroelettrica può essere immagazzinata. L’eolico e il solare funzionano soltanto quando il vento soffia e il sole splende».
In effetti il paese nordico genera la quasi totalità della sua elettricità attraverso l’idroelettrico. È il sesto produttore mondiale di energia idroelettrica, e il primo nel continente europeo. La Statkraft, controllata dallo Stato norvegese, è un colosso idroelettrico dal peso internazionale. E del resto di elettricità, grazie a centrali idroelettriche come quella di Svartisen, nel Nordland, la Norvegia ne produce molta. Il prezzo della bolletta elettrica qui è tra i più bassi d’Europa, di gran lunga inferiore a quello di tutti i paesi nordici e ovviamente di Francia, Italia e Germania. Nell’ottobre 2020, per la seconda volta nella storia norvegese, il costo dell’elettricità – nelle zone di Oslo e di Kristiansand – è sceso sotto zero.
«È l’idroelettrico ad aver costruito il paese. Quando ne abbiamo avuto la possibilità abbiamo industrializzato le nostre acque – ricorda Tina Bru –. Uno dei nostri più grandi vantaggi competitivi è che abbiamo così tanta elettricità sicura, conveniente e affidabile. E ancora, è pulita, completamente rinnovabile, nessuna emissione di CO2 è collegata a essa. Ecco perché il valore dell’idroelettrico è enorme per il nostro paese, ed è l’ossatura del nostro sistema energetico».
Una parte dell’elettricità norvegese viene esportata in Svezia, Danimarca, Finlandia, Russia e Paesi Bassi. Molta è essenziale per industrie energivore come quella metallurgica e chimica. Un po’ viene utilizzata, ad esempio, per ricaricare armate di auto elettriche, quasi ubique a Oslo. «Tutti vogliono una Tesla – racconta un giovane venditore di un concessionario della capitale –. La vuole il programmatore informatico per far felice la ragazza, la vuole il padre di Frogner [quartiere benestante di Oslo] per fare un regalo al figlio». Nel mese di settembre 2020 oltre il 60% di tutte le auto vendute in Norvegia sono state auto elettriche; il dato sfiora il 90% se si includono i veicoli ibridi. Nessun paese, in proporzione, ha così tante auto elettriche in circolazione.
Da anni si parla di trasformare la Norvegia nella “batteria verde” d’Europa. Qualche passo in tale direzione è stato compiuto: oltre al già citato export idroelettrico verso i vicini nordici e i Paesi Bassi, e alla centralità della Norvegia nella borsa dell’energia elettrica Nord Pool, sono in costruzione interconnettori con Germania e Regno Unito. L’idea di esportare più elettricità non piace però a tutti: ad esempio a una bella fetta di industriali, perché ciò comporterebbe un forte rincaro dei prezzi dell’elettricità. Potrebbe però essere una fonte di nuove opportunità per un paese montagnoso ricchissimo di laghi, fiordi e altopiani.
Naturalmente la fame europea di elettricità è molto superiore all’attuale surplus norvegese, e se si vorrà davvero trasformare il paese nella “batteria verde” d’Europa, affrancandolo da gas e petrolio, si dovranno attuare importanti investimenti. Ad esempio ammodernando le centrali idroelettriche esistenti: molte sono state costruite negli anni ’60, e in alcuni casi è possibile generare più elettricità con la costruzione di piccole centrali tra il bacino di carico e quello di calma. Oppure costruendo centrali idroelettriche ex novo: è il caso di quella di Østerbø, nel Vestland, a circa centocinquanta chilometri da Bergen.
Del resto produrre più elettricità è imperativo per un paese che vuole elettrificare i suoi sistemi di trasporto, le sue piattaforme di estrazione e i suoi data center, come quello in costruzione a Kalberg, nel Rogaland. Lo conferma la ministra Bru: «La produzione elettrica norvegese è rinnovabile al 100%, ma abbiamo ancora un 50% di uso di energia fossile, ad esempio nei trasporti. Lì non siamo ancora pienamente elettrici. È il nostro obiettivo, e abbiamo bisogno di più elettricità per raggiungerlo».
Un altro settore promettente è quello dell’eolico, sia sulla terraferma che offshore, che sta già facendo sognare paesi atlantici come il Regno Unito, la Spagna e il Portogallo. La Norvegia ha un grande potenziale, ma al momento ricava dal vento meno energia della Grecia o della Romania. Anche perché non tutti apprezzano la costruzione di parchi eolici, e negli ultimi anni si sono verificate proteste a volte aspre per i pacati standard norvegesi. Le organizzazioni ambientaliste chiedono che le torri eoliche vengano poste in zone già antropizzate (ad es. nei pressi di un’autostrada), in modo da preservare le aree del paese più incontaminate, ma questo non è sempre possibile.
«Se continuiamo con queste massicce emissioni, la natura soffrirà. Ma se iniziamo a costruire parchi eolici, cosa che ai critici non piace, andremo a intervenire sulla natura – osserva Anders Lie Brenna – Accadde anche con l’idroelettrico, l’episodio più conosciuto è quello legato alla costruzione della diga sull’Altaelva… Pure l’idroelettrico è una fonte di energia rinnovabile, ma comporta un enorme intervento sulla natura e molti si infuriarono durante la costruzione. Ma è proprio di questo conflitto tra clima e ambiente che nessuno vuole parlare. Tuttavia tutti gli interrogativi di tipo energetico riguardano questo».
È un dilemma noto anche in Italia: l’eolico può dare un valido contributo nella lotta alla crisi climatica (perché l’energia che produce non comporta emissioni di CO2), ma ha un impatto sull’ambiente notevole, ad esempio deturpando paesaggi stupendi o disturbando l’avifauna. In Norvegia comunque si va avanti, seppur lentamente. Di recente il governo ha annunciato un investimento da undici milioni di euro in un nuovo centro per la ricerca sull’energia eolica, e si punta parecchio sull’eolico offshore, che dovrebbe prima di tutto rendere possibile la completa elettrificazione proprio delle piattaforme di estrazione. Importante, in tal senso, il progetto Hywind Tampen, portato avanti dalla Equinor: undici turbine dovranno alimentare parte delle operazioni di estrazione nella zona di Tampen.
Secondo un recentissimo sondaggio della NHO (la Confindustria norvegese), ben il 74% dei manager delle aziende con più di cento dipendenti è convinto che la “svolta verde” offrirà opportunità per le realtà da essi guidate. E tuttavia la crescente attenzione che il paese nordico riserva alle energie rinnovabili va di pari in passo con il rinnovato attivismo nell’esplorazione petrolifera. In particolare nel Mare di Barents. Nel 2016 un decreto reale ha aperto a nuove trivellazioni la piattaforma continentale norvegese nella sezione sud e sudorientale di quella parte di Mar Glaciale Artico, sulla base di quanto deciso dallo Storting nel 1989 e nel 2013. Quattro organizzazioni ambientaliste, a partire da Greenpeace Norden, hanno impugnato il decreto; a loro parere violava l’articolo 112 della Costituzione norvegese, che assicura a ogni cittadino il diritto a un ambiente salubre. A fine dicembre 2020 la Norges Høyesterett, la suprema corte del paese, ha deciso in favore dello Stato.
D’altra parte il mondo, e in particolare paesi in impetuosa crescita come la Cina e l’India, hanno sete di petrolio. Dichiara Tina Bru: «Penso che anche in futuro continueremo a usare quantità abbastanza significative di energia fossile. Non perché io lo voglia, ma perché è le realtà che si vede intorno a noi. La trasformazione in molti altri paesi rende evidente che dipendiamo ancora dall’energia fossile. Ciò significa che dobbiamo lavorare con ancora più impegno per eliminare la domanda di questo tipo di energia, e abbiamo bisogno di passare alle rinnovabili. Che vuol dire anche sviluppare soluzioni tecnologiche in grado di funzionare a elettricità. Che sia il settore dei trasporti su ruota, di quelli aerei o via mare, dobbiamo trovare un modo per eliminare gradualmente l’energia fossile. Ma ne useremo ancora molta negli anni a venire».
All’inizio del gennaio 2020 è stato presentato dal governo il Klimaplan for 2021–2030, dove da un lato si ribadisce la volontà della Norvegia a puntare sulle rinnovabili, e dall’altro l’attenzione per il settore del gas e petrolio (la parola chiave qui è efficienza). Ed è una notizia recentissima che a Mo i Rana, nel Nordland, verrà costruita una grande fabbrica di batterie.
A Stavanger la decisione della Norges Høyesterett, così come lo European Green New Deal e il Klimaplan, non sono passati inosservati. In questa città di mare, ai confini dell’Europa, tutti sanno che il petrolio è il presente, più che il futuro. Come sarà questo futuro però, e quando arriverà, lo sa solo il Cielo. E il mare, forse.
* Sejersted, Francis “The Age of Social Democracy”, Princeton University Press 2011
** Pratt, Joseph A. et al., “Energy Capitals: Local Impact, Global Influence”, University of Pittsburgh Press, 2014
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