Mercati
Equity e Governance. Storia italiana di due parole (quasi) dimenticate
Il 4 gennaio 2021 il centro studi di Confindustria ha pubblicato un interessante studio intitolato “Debito ed oneri finanziari molto pesanti nei settori di industria e servizi a causa della pandemia” a firma di Francesca Brunori e Ciro Rapacciuolo. Lo studio si compone di 7 pagine e, pur senza con questo voler dare un peso eccessivo alla frequenza dei termini utilizzati, nell’abstract la parola debito (o equivalente quale indebitamento, prestito o credito) viene usata 6 volte mentre le parole equity (o capitale) e governance nessuna. Solo nella conclusione dello studio, a pag. 7 si menziona – 2 volte – il concetto di “aumento di capitale” (o maggiore patrimonializzazione delle imprese) comunque mischiata ad altre misure tutte tese a suggerire interventi legati soprattutto all’uso del capitale di terzi (inteso come debito e, residualmente, come equity).
Riporto testualmente due passaggi a mio avviso importanti dello studio raccolti nelle “considerazioni di policy”: “…in una prospettiva di più lungo periodo … la priorità è sostenere la crescita dimensionale delle imprese e il riequilibrio della loro struttura finanziaria, attraverso una più ampia diversificazione delle fonti [n.d.r. di debito?] e una maggiore patrimonializzaione”.
E poche righe dopo “A tale fine occorre riprendere il percorso di rafforzamento dei canali di finanziamento per le imprese alternativi al credito bancario, attraverso una strategia integrata dedicata in particolare a PMI e midcap. Una strategia che combini interventi di natura fiscale, semplificazioni regolamentari ed altre misure volte a favorire l’accesso delle imprese a fonti finanziarie alternative, puntando in particolare dal 2021 sui diversi mercati del capitale proprio (private equity, venture capital, azionario, AIM, etc.) e sull’emissione di debito non bancario”.
Mentre correttamente gli autori identificano due debolezze strutturali del tessuto economico italiano – sottodimensionamento e scarsa patrimonializzazione – dimenticano, a mio avviso, due concetti che, ahimè, nei paesi del sud Europa ma in particolare in Italia – da sempre esempio per l’ingegno dei propri “imprenditori” e paese lodato dai politici di ogni colore per quel “piccolo è bello” – paiono essere considerati non rilevanti: quello dell’aumento di capitale da parte degli attuali soci (che per definizione non richiede abitualmente una variazione nella governance) e quello della governance che invece è condizione necessaria per ottenere nuovi capitali da parte di soggetti diversi dagli azionisti esistenti.
In questo momento l’unica cosa che sui mercati non difetta è la liquidità, peraltro anche a buon mercato, visto che i tassi di riferimento oscillano per lo più tra lo zero ed il segno negativo, le stime parlano di oltre tremila miliardi di “dry powder” da essere investiti da parte dei player istituzionali. E posso confermarlo per conoscenza diretta in quanto, a causa del mio lavoro, ricevo frequenti richieste da parte di investitori istituzionali su opportunità di investimento in Italia. Tutti, o quasi, domandano però due cose: dimensione e governance (e, come sottoprodotto di queste, una possibilità di uscita anche attraverso cessione o quotazione).
Ciò mi porta a ritornare su un tema antico e già sollevato in passato: se l’imprenditore (che forse vale la pena di ricordare è soggetto diverso dall’impresa) vuole continuare a gestire l’azienda come fosse casa sua, lo può fare senza alcun problema, sempre che nel farlo metta a rischio i suoi soldi e non quelli degli altri! Se invece è obbligato, o ancor meglio desidera, aprire la propria azienda alla crescita ma senza aprire il proprio borsellino, deve anche essere disposto ad aprire seriamente la governance con tutte le conseguenze che tale azione comporta – compresa l’ipotesi di dover lasciare la guida dell’azienda a manager terzi. Se questa disponibilità esiste, oggi i candidati pronti a mettere a disposizione le risorse finanziarie necessarie certamente non mancano.
Provo allora ad ipotizzare – pur se in un eccesso di semplificazione e, probabilmente, di utopia – alcune strade da seguire per favorire questo ricambio “culturale”. Si potrebbe immaginare di istituire una regola, in base alla quale, per ogni € di erogazione di nuovo debito (o di ristrutturazione di quello in essere) è necessario (obbligatorio) un apporto di equity necessario a garantire un rapporto D/E di 70/30 (la “patrimonializzazione cui fa riferimento lo studio di Confindustria). La cifra non è presa a caso ma è quella che viene insegnata come necessaria a finanziare un nuovo progetto (project financing). Chi non rispetta tale rapporto dovrà obbligatoriamente o rinunciare al nuovo debito oppure aprire il capitale a terzi con la conseguenza che i terzi potranno chiedere, se lo riterranno opportuno, modifiche alla governance; se poi non chiederanno nulla, affari loro ma, dal punto di vista dell’azienda, la patrimonializzazione sarà stata rinforzata. Oppure, ma tutte queste ipotesi non sono necessariamente alternative, si potrebbe chiedere al Governo di definire i settori strategici per il paese dove lo Stato, in presenza di una cronica mancanza di risorse finanziarie proprie (non dimentichiamoci che l’azienda Italia è il primo soggetto a non essere in linea con un sano rapporto tra debito e fatturato visto che il rapporto debito/PIL è pari ad oltre il 160%), possa sì essere l’investitore al supporto della ripresa post pandemica con i soldi dei contribuenti, ma solo a fronte di garanzie di governance che debbono essere adeguatamente esercitate. Nei settori strategici magari lo stato potrà, come qualsiasi nuovo investitore, derogare dal principio 70/30, ma comunque dovrà farlo in modo trasparente e con limiti minimi più che prudenziali, visto che investe i soldi dei cittadini.Infine, qualora le banche siano interessate a fornire ulteriore debito in situazioni in cui la regola del 70/30 non viene rispettata, perché non stabilire che questo possa accadere solo ed esclusivamente attraverso una iniezione da parte delle stesse banche non di debito ma di vero equity (con relativi poteri di governance e non con i fantasiosi strumenti partecipativi che non mi risulta abbiano mai portato creazione di valore)?
Se mettere in pratica alcune di queste semplici regole significasse cambiare alcune leggi o regole, lo si faccia pure, ma almeno così avremo finalmente un settore industriale, come dice Confindustria, “adeguatamente patrimonializzato”.
Devi fare login per commentare
Accedi