Mercati
ENRICO ROSSI, MARIO DRAGHI E LA CULTURA ECONOMICA CHE ZAVORRA L’ITALIA
Ormai tutti sanno che giovedì Mario Draghi ha annunciato un nuovo e rafforzato programma di acquisto di titoli del debito pubblico (e privato) europeo che va sotto il nome di QE (quantitative easing). Come naturale a seguito di una decisione ritenuta così importante, negli ultimi tre giorni numerosi ed approfonditi sono stati i contributi e le analisi (anche su queste colonne), i tentativi di illustrarne i segreti tecnici, di chiarirne i possibili benefici e di metterne in luce le potenziali criticità.
Tra i molti, la nostra attenzione è stata catturata da un intervento di taglio più politico, per dir così, quello del governatore della Toscana Enrico Rossi sulle pagine dell’Huffington Post, intitolato Il bazooka di Draghi e i battelli sul Reno, perché, oltre a contenere alcuni passaggi piuttosto curiosi, riassume con una certa efficacia alcune delle idee e delle ricette per uscire dall’eterna crisi italiana che trovano ampia circolazione e radicamento culturale nel nostro paese (incluse le stanze governative), ma che sono in alcuni casi gravemente incomplete, in altri proprio sbagliate. Lungi dal tirarci fuori dalla palude, nella misura in cui giungono ad informare le politiche pubbliche, esse contribuiscono a perpetuare la stagnazione.
Proviamo, allora, a commentarne i punti salienti, e prendiamo le mosse dalla parte in cui Rossi sembra voler confermare i peggiori incubi tedeschi circa l’inaffidabilità mediterranea. Egli, infatti, comincia col dirsi molto contento delle decisioni della Banca Centrale Europea, in particolare perché così le banche europee, ma soprattutto quelle italiane,
“saranno gradualmente liberate da titoli per così dire ‘tossici’ e rischiosi”,
cioè dalle decine di miliardi di BTP comprati negli ultimi anni, e potranno finalmente,
“spezzare la catena del rischio e liberare liquidità ora impegnata in titoli di debito rendendola accessibile al credito”.
Ed una volta trasferita tutta questa mercanzia alla Bce? Allora bisognerà riconoscere che i troppi interessi da pagare impediscono di reperire le risorse per gli investimenti pubblici di cui abbiamo bisogno, e dunque procedere a riaprire
“il negoziato sul debito. Proposta che è ad esempio in discussione in Grecia ad opera di Syriza, nell’attesa che su essa si pronuncino gli elettori”.
Riassumendo: prima si scarica una fetta sostanziosa di debito pubblico sul bilancio della Banca Centrale, poi si va a Francoforte e si dice, “spiacenti, quei BTP sono carta straccia – del resto noi lo avevamo scritto che erano tossici, se non leggete l’Huffington Post, problemi vostri”. Hai voglia a dire che a Berlino non si devono preoccupare del risk-sharing: se esiste un modo per entrare in collisione frontale con tutte le istituzioni europee e minare alla base il consenso faticosamente costruito da Draghi attorno all’opportunità di dare disco verde al QE, lo abbiamo trovato.
Più in generale, come peraltro accade spesso – anche Renzi lo sostiene quotidianamente -, il discorso di Rossi suggerisce che sia l’intera Europa a trovarsi sull’orlo di una sorta di abisso, ma così non è. Continuare a ripeterlo serve alla politica italiana per deresponsabilizzarsi rispetto ai problemi tutti specifici del nostro paese. La verità spiacevole è che, se non esistesse l’Italia, la narrativa internazionale sulla situazione del vecchio continente ed i pericoli che vi promanano sarebbe molto diversa.
La discesa dei prezzi è ormai un fenomeno mondiale e coinvolge paesi che in nessuna misura possono dirsi in crisi, dalla Svizzera alla Germania (difficile parlare di crisi con la disoccupazione ai minimi), dall’Olanda alla Svezia. Certo, la Francia zoppica, ma è ancora lontana da una compiuta “italianizzazione” (ed è comunque impossibile incolpare i tagli selvaggi o una non meglio precisata austerità per la sua condizione, visto che Parigi viene da anni ed anni di ampi ed ininterrotti deficit di bilancio). Nel mentre, la Spagna – il paese forse per noi comparativamente più interessante – accelera e, dopo un 2014 in deciso recupero (Pil 2014 atteso a +1,5% contro il probabile -0.4% dell’Italia e tasso di occupazione tornato stabilmente al di sopra del nostro), guarda ad un 2015 ed un 2016 vicini se non superiori al 2% di crescita, secondo le ultime proiezioni del Fondo Monetario (e le stime di novembre della Commissione Europea proiettano una crescita intorno all’1,5% per il Portogallo nel biennio). Il Regno Unito crescerà quasi al 3%.
Detto altrimenti, la profondità dei suoi problemi microeconomici ed istituzionali ormai fanno dell’Italia un unicum nell’ambito dei paesi Ocse, e di tale realtà è ben necessario tenere conto, senza raccontarsi storie magari confortanti, ma fantasiose, solo che si guardi all’evidenza dei dati.
Viene poi il capitolo investimenti. Rossi ritiene che senza dosi massicce di investimenti pubblici (e parzialmente privati) non si potrà mai uscire dalla crisi,
“[…] senza investimenti anche il nostro quadro economico è destinato alla staticità. Si pensi che servirebbero 2 miliardi ogni anno solo per riportare il livello di disoccupazione al 2007. Da allora abbiamo 80.000 nuovi disoccupati e prospettive sempre peggiori per i giovani. L’Europa dunque non può fermarsi al QE. Ha bisogno di dosi massicce di spesa anticiclica. Per realizzare infrastrutture strategiche, aprire cantieri, ammodernare i processi produttivi, sostenere la domanda con l’occupazione”.
Ora, su questo è necessario intendersi. Non c’è dubbio che senza investimenti difficilmente si potrà ripartire, ma limitarsi a ripetere ossessivamente le parole “spesa” ed “investimenti” non renderà più intelligibili le ragioni per cui essi o latitano paurosamente, nel caso di quelli privati, oppure, spesso e volentieri, vengono allocati in modo disastroso e perfino controproducente, nel caso di quelli pubblici.
Uno dei problemi più grandi dell’economia italiana sta proprio nelle modalità, nei processi di allocazione delle risorse pubbliche, intermediate da uno Stato inadeguato ad accompagnare lo sviluppo di un’economia moderna e competitiva, a fornire servizi accettabili in termini assoluti e, soprattutto, relativamente ai costi di produzione.
L’analogia è quella di un’automobile che fosse ammaccata, con le gomme a terra e con il motore in panne: pompare benzina nel serbatoio senza prima aver riparato la macchina sarebbe completamente inutile. Ad esempio, dal 2000 al 2009 la spesa pubblica in Grecia è aumentata dell’8% all’anno. Per ottenere cosa?
E non si tratta qui di negare un ruolo alle politiche anti-cicliche sul lato della domanda (in particolare nella forma dei cosiddetti stabilizzatori automatici) o che, nell’attuale contesto macro, oltre alle solite, robuste riforme supply-side, sia desiderabile una stance fiscale almeno non restrittiva ed una politica monetaria accomodante. La questione è un’altra e, appunto, non si limita alla sola spesa corrente, ma coinvolge anche gli investimenti, quelli che “se solo li scorporassimo dal patto di stabilità e crescita”, come si usa dire, i nostri problemi svanirebbero per magia.
Come è stato documentato a più riprese (e nel modo più efficace forse da Marco Ponti), in Italia vige la pressoché totale assenza di analisi costi-benefici serie ed indipendenti a monte delle decisioni di investimento pubblico, dunque non c’è garanzia alcuna di ritorni economici e sociali accettabili. Non a caso, chi si prendesse la briga di leggere i (pochi) tentativi di valutare alcune delle principali opere (messe in cantiere o già realizzate), ad esempio nel settore dei trasporti, si imbatterebbe in storie dell’orrore, fatte di numeri sballati, previsioni di traffico inventate, conflitti di interessi multipli e sforamenti di budget costanti.
Se queste sono le premesse, nemmeno gli investimenti (inclusi i fondi europei) ci salveranno, anzi, potrebbero persino risultare dannosi, non diversamente da quanto accaduto al denaro convogliato negli anni verso i paesi istituzionalmente deboli, in cui l’aiuto internazionale ha alimentato corruzione e malaffare.
L’aspetto divertente è che, pur senza accorgersene, anche Rossi è d’accordo: infatti, quando definisce i titoli del debito pubblico “tossici”, altro non fa che confermare che i deficit del passato (di cui il debito accumulato è figlio), per la gran parte altro non si sono rivelati che sperpero. Se così non fosse, avrebbero prodotto un qualche tipo di ritorno/crescita, ed il debito sarebbe allora sostenibile, cioè ben lontano dall’essere tossico. Dove si origini la convinzione che a questo giro le cose sarebbero diverse, non è dato sapere.
Al contrario, trasformare lo Stato dallo svantaggio assoluto che è oggi (inclusa naturalmente la componente fiscale) in elemento capace di abilitare un contesto ospitale ed attrattivo per gli investitori (ed il capitale umano qualificato) è LA sfida cruciale, sfida di cui non si trova traccia nelle parole del governatore; scordarsene significa invertire pericolosamente l’ordine delle priorità, oltre che ignorare a bella posta la storia economica del paese.
E questo, ovviamente, vale anche per le teorie ultimamente tanto in voga circa il cosiddetto Stato innovatore, popolarizzate dal recente libro di Mariana Mazzucato. Ammesso che ci sia spazio per un simile ruolo del settore pubblico – ma un approccio meno superficialmente entusiasta, ovvero più laico e problematico, non guasterebbe – non è serio parlare dello Stato come se fosse un’entità astratta, come se esso esistesse a prescindere dalle sue incarnazioni storico-politiche, come, in altre parole, se potessimo pensare di affidare un compito al settore pubblico negli Stati Uniti ed in Italia, in Finlandia ed in Mozambico, in Svezia ed in Grecia, ed aspettarci che queste coppie di paesi producessero gli stessi risultati.
E veniamo alla parte finale, riassunta nella seguente citazione:
“[…] potremmo ripartire dalle parole pronunciate quasi un secolo fa dal liberale Walther Rathenau agli investitori di una ricca compagnia di armatori di Brema scontenti dello scarso rendimento dei loro titoli: “la società non esiste per distribuire dividendi a lorsignori, ma per far andare i battelli sul Reno“.
Tralasciando la speranza che i battelli del Reno avessero destinazioni diverse dai treni del Peloponneso (ché quando non c’è un azionista/mercato cui rispondere, sovente finisce male), nell’ambito dell’articolo in esame, più che una critica (critica a parere di chi scrive quasi sempre incoerente e fuori bersaglio) al cosiddetto shareholder value (l’impostazione secondo la quale il fine dell’impresa è la creazione di valore per gli azionisti), le parole di Rossi paiono rappresentative della atavica inimicizia verso il capitale che permea ampi strati della cultura politico-economica del nostro paese, inimicizia qui intesa come persuasione che la possibilità, per chi investe il proprio denaro, di ottenerne un ritorno adeguato (o, per usare l’odiata parola, un profitto) sia, a seconda delle interpretazioni, elemento al meglio secondario, qualcosa da cui rifuggire, un vezzo antisociale da condannare con forza. Gli esempi abbondano, ricordiamone solo alcuni:
– la campagna referendaria per “l’acqua pubblica” di qualche anno fa che ottenne larga adesione, ove si domandava espressamente l’eliminazione della “adeguata remunerazione del capitale” dal calcolo delle tariffe idriche, di fatto arrivando a sostenere che il capitale di rischio fosse privo di costo(-opportunità), modo assai curioso di attrarre investimenti, a meno, appunto, di pensare che gli investitori solitamente non si preoccupino del ritorno sul capitale investito;
– la tripla mistificazione, propagata dall’attuale governo, secondo cui a) non ci sarebbe in pratica collegamento tra risparmio ed investimento, e dunque colpire pesantemente il primo non avrebbe conseguenze sul secondo, b) il capitale di rischio altro non sarebbe che una (variamente non definita) rendita, c) il livello di tassazione degli utili distribuiti agli azionisti non avrebbe alcun legame con la tassazione d’impresa e non inciderebbe sulla propensione ad investire, quando, invece, “la riduzione dell’irap – peraltro rimandata al 2016, ndr – proprio per come è stato concepito l’aumento della tassazione sul risparmio altro non è [stata] che una traslazione della pressione fiscale totale a carico delle imprese da monte a valle, lasciandone inalterato il livello percentuale”;
– i ripetuti suggerimenti del sottosegretario all’Economia Baretta, definiti da Mario Seminerio “investimenti nell’economia surreale”, secondo il quale, per compensare la decisione del governo di aumentare la tassazione sul risparmio previdenziale, si dovrebbe prevedere un credito d’imposta per quei fondi pensione che facessero investimenti mirati “sul welfare o sulla riqualificazione di (imprecisati, ndr) immobili”, cioè sostanzialmente a fondo perduto, quando è invece ovvio che i fondi pensione esistono per garantire un reddito pensionistico a chi vi conferisce capitale, e certo non sono nella condizione di fare beneficenza;
– il sistematico svilimento, nel discorso pubblico, di quegli imprenditori che, si dice, “invece di investire si pagano i dividendi”.
Ora, “investimento è tutto ciò che produce un reddito, cioè che rende”; se si prescinde da questa intuitiva verità, magari si possono tenere conferenze sull’utilità della filantropia e sentirsi più buoni, ma è molto difficile si riescano ad attrarre quegli investimenti che, non senza una certa contraddizione, dall’altra parte si dice di ritenere essenziali.
Qualsiasi cosa ne pensi il governatore, la scelta di pagare (o meno) un dividendo agli azionisti non ha nulla di intrinsecamente disdicevole, nulla di moralmente riprovevole, ma è, molto semplicemente, una decisione di capital allocation. A seconda del settore, dello stadio di sviluppo in cui si trova, della congiuntura economica e di molti altri fattori, può essere perfettamente sensato per un’azienda avere un pay-out uguale a zero, al 50% od anche al 100% dell’utile di esercizio (inoltre, in specie per le public company, va tenuto in considerazione che lasciare che risorse in eccesso si accumulino nelle mani dei manager espone a ben noti problemi di agency).
Se un’opportunità di investimento (che si ritiene) redditizia, capace di migliorare il posizionamento competitivo, esiste, la si coglierà, perché essa, nel tempo, farà aumentare il valore dell’impresa; se non esiste, si deciderà altrimenti; se esiste e, per qualche ragione la si ignora/non si è in grado di vederla, a coglierla sarà qualcun altro, un competitor, un nuovo entrante. Si chiama distruzione creatrice.
Ed è proprio la necessità di garantire un rendimento adeguato, di rispondere ai detentori del capitale, che infonde disciplina e saggezza nelle decisioni allocative, disciplina e saggezza che, abbiamo visto sopra, fanno fortissimo difetto quando si tratta di investire i soldi dei contribuenti. Senza contare che, nella misura in cui gli Stati Uniti – che crescono oltre il 3% e, da cento anni almeno, danno i natali alle aziende più competitive ed innovative del mondo -, sono un posto in cui montagne di profitti vengono ogni anno restituiti alla proprietà sotto forma di dividendi o riacquisto di azioni proprie, dividere il mondo in aziende “buone” che investono ed aziende “cattive” che pagano gli azionisti, magari non è proprio la linea di attacco più solida che uno si possa scegliere…
In ultima analisi, oltre ai fattori di equilibrio su cui già abbiamo avuto modo di soffermarci in passato, sulla strada di un cambiamento vero e duraturo permangono inciampi di tipo culturale profondamente ingranati, che non sarà per nulla facile rimuovere, pervasivi e trasversali, patrimonio consolidato della destra come della sinistra, nonostante le crisi, nonostante il declino, nonostante tutta l’evidenza contraria.
Devi fare login per commentare
Accedi