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Ecco perché e quanto pagheremo per la privatizzazione di Poste Italiane

12 Ottobre 2015

Oggi, lunedì 12 ottobre parte l’operazione di privatizzazione e quotazione in borsa di Poste Italiane. Il fatto che negli stessi giorni si quoti in borsa anche Ferrari (anche se a Wall Street, anziché a Milano) dà l’opportunità alla stampa di strombazzare inni alla velocità e alla ripresa. Ma per chi conosce l’economia e la finanza il senso della quotazione di poste si riassume in due numeri. Per ridurre di 4 miliardi il debito pubblico i contribuenti di oggi e di domani ne pagheranno 1 di tasca propria. E i 4 miliardi incassati saranno sforamenti futuri del patto di stabilità.

Proviamo a raccontare il funzionamento dell’operazione. Assumiamo che la quota di Poste Italiane messa sul mercato coincida proprio con il suo vero valore, e che sia 4 miliardi. Questo significa che il debito scenderà di 4 miliardi, un quarto di punto di PIL. Ma, i 4 miliardi incassati per ridurre il debito saranno 4 miliardi in meno di entrate nei bilanci dello stato futuri: questa è la legge del valore economico. Quindi rinunceremo a entrate future per ridurre lo stock di debito oggi. Finché permarrà il patto di stabilità, può darsi che queste entrate perse debbano essere sostituite con qualche ritocco alle tasse, o taglio di spesa.

Quindi, una privatizzazione porta un introito oggi contro la riduzione di entrate future. Comunque, nell’esempio precedente almeno lo scambio è equo. Incassi 4 miliardi oggi in cambio della rinuncia a 4 miliardi futuri, calcolati in valore attuale. Ma il caso Poste Italiane è differente. La differenza sta nel fatto che Poste non è già quotata sul mercato, ma si quota sul mercato per la prima volta: come Ferrari. E chi conosce i mercati sa che la prima quotazione di un’azienda sul mercato ha un costo che ricade sugli azionisti. Gli azionisti Ferrari pagheranno una parte del valore della rossa di Maranello per la quotazione alla borsa di Wall Street. La stessa cosa succederà per Poste Italiane, e questa volta pagheranno i contribuenti. Il costo nella letteratura economica ha un nome: si chiama “IPO underpricing”, o sottovalutazione delle prime quotazioni in borsa. E’ un fenomeno noto su tutti i mercati del mondo, e quello italiano non fa differenza. Vediamo in parole cos’è e in numeri quant’è.

Mettiamola così: quotare un’azienda in borsa è come lanciare un prodotto sul mercato, o come accedere a un club. Lanciare un prodotto o entrare a far parte di un club costa. L’unica differenza è che mentre in questi casi i costi sono evidenti, nel caso della quotazione in borsa sono nascosti nel prezzo di vendita. La nuova azione viene venduta ai nuovi proprietari a un prezzo ragionevolmente basso, in modo che quando arriva in borsa fa un balzo in su, consentendo di registrare lauti guadagni. Si tratta di un caso, il caso più tipico, di quelli che in finanza chiamiamo “financial puzzle”,  rompicapi finanziari. Insomma, un paradosso: pensate a tutti quegli amministratori delegati che il giorno della quotazione sorridono a trentadue denti e stringono le mani a tutti perché l’azione è salita della metà del valore. Perché non si rammaricano di essersi accaparrati loro quel valore? Dovrebbero aver la sensazione di aver svenduto l’azienda. E invece no, ritengono naturale festeggiare.

Perché si fa questo sconto? La letteratura scientifica sul fenomeno è sterminata, ma le ragioni principali possono essere riportate a due considerazioni, tutte riconducibili a un unico tema di fondo: la qualità e la diffusione dell’informazione sulla società che si quota. La prima considerazione è che si vara una nuova nave nell’oceano e non si sa quale sorpresa possa aspettare i naviganti all’orizzonte: se qualcuno nel mercato ha più informazione di altri farà razzia solo delle buone occasioni, e si terrà lontano dalle cattive, che invece imbottiranno gli investitori del “parco buoi”, quelli che non ne sanno niente. Se non viene fatto un prezzo, e altre regole, che tenga a bordo anche loro, questi prenderanno una fregatura dopo l’altra, e alla fine non sottoscriveranno più nulla. Questo argomento si chiama “maledizione del vincitore” (“winner curse”) e ricorda proprio che senza questo sconto iniziale il parco buoi vincerebbe solo le imprese perdenti. La seconda argomentazione ricorda proprio il lancio di un prodotto: è uno sconto iniziale perché venga comprato, seguito e conosciuto. Lo sconto iniziale viene poi tipicamente recuperato con ulteriori vendite di azioni successive. Nel caso Poste il Ministero dell’Economia si è impegnato a non vendere ulteriori partecipazioni prima di diciotto mesi.

Quanto è questo sconto? Nella letteratura del secolo scorso i numeri variano da un mercato all’altro. Ricordo numeri particolarmente elevati nei mercati dell’estremo oriente, con punte di 50% di sottovalutazione media. Ma a noi oggi interessa l’Italia. Purtroppo non disponiamo di dati molto aggiornati. Marco Ratti ed io nel 1991 abbiamo pubblicato un primo lavoro su un campione di prime quotazioni azionarie di una sessantina di imprese (se non ricordo male), e abbiamo trovato una sottovalutazione media del 25%.  Cercando su scholar.google.com ho trovato un altro lavoro di questo secolo, ad opera di Cassia, Giudici e Paleari, che analizza 185 casi di nuove quotazioni dal 1985 al 2001, e trova un livello di sottovalutazione medio di poco inferiore al 22%. Questo vuol dire che a fronte dei 4 miliardi che verranno incassati dal mercato i contribuenti ne dovranno rendere circa 5 in flussi di cassa futuri, calcolati in valore attuale. Il miliardo in più è il costo di portare Poste Italiane sul mercato.

Sulla rete troviamo anche una ricerca ancora più recente, a cura di Borieko e Lombardo, che porta una notizia buona e una cattiva, per quel contribuente che è anche sottoscrittore delle azioni Poste Italiane. La buona notizia è che su un campione di 171 nuove quotazioni aggiornato al 2007 la sottovalutazione si riduce a poco più del 13%, che sono valori coerenti con quelli storicamente rilevati sul mercato americano. Ma ecco la cattiva notizia. Il miglioramento è attribuito al nuovo sistema di quotazione, ripartito tra investitori istituzionali e al dettaglio: quello utilizzato proprio nel caso Poste Italiane. E il risultato è che nel nostro sistema regna la “maledizione del vincitore”. Le nuove quotazioni che vanno male, e che presentano uno sconto iniziale minore, finiscono in larga misura nelle tasche degli investitori al dettaglio.

In conclusione, lo strano ossimoro tra privatizzazione e “going public”, il termine inglese per   “quotazione in borsa”, pone un dilemma al cittadino come contribuente e piccolo investitore. Purtroppo è una scelta tra due perdite. Cosa deve augurarsi infatti il contribuente che allo sportello sottoscrive i nuovi titoli Poste Italiane? A lui la scelta: se la quotazione di Poste Italiane sarà un successo, come contribuente pagherà quel successo con un sostanzioso sconto di collocamento, con un onere che potrà arrivare a un miliardo, e che ripagherà in futuro. Se invece sarà un insuccesso, se lo prenderà tutto lui come piccolo investitore, e l’unica consolazione sarà che come contribuente il costo potrà essere più leggero, magari meno di mezzo miliardo. Potrebbe andare peggio? Potrebbe piovere.

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