Finanza

Unicredit, un piano a colpi d’accetta e di bisturi

14 Dicembre 2016

Il peccato numero uno che Unicredit si è portato dietro sin dai tempi in cui si incrinò la stella di Alessandro Profumo è stata la scarsa comprensibilità del modo in cui i soldi erano investiti fra le varie attività e paesi in cui il gruppo è presente – ciò che gli analisti chiamano allocazione del capitale. Da qui discendevano le perplessità sull’efficienza di Unicredit e sull’asserito vantaggio competitivo di un gruppo che si professa “paneuropeo”. Da qui, l’estate scorsa, partì il cda della banca quando scelse Jean Pierre Mustier – trader e banchiere di investimento per formazione – come nuovo amministratore delegato, nel tentativo di dare una risposta diversa allo spezzatino del gruppo, che qualche investitore cominciava a sollecitare.

E perciò è sempre da qui che è partito l’a.d. Mustier per predisporre il piano strategico 2016-2019 di Unicredit, presentato martedì a Londra e accolto dalla Borsa con un entusiasmo che ha l’aria di non essere di pura cortesia. Rendere comprensibile il gruppo e la sua strategia, con un’allocazione trasparente dei costi era l’obiettivo. E su questo il banchiere ha operato sin da subito con l’accetta, cominciando a sfoltire da subito la chioma di partecipazioni che Unicredit aveva fin qui accumulato: le cessioni di Pekao, Fineco, Pioneer (circa 8 miliardi di valore) hanno ben disposto il mercato già prima della presentazione di ieri, inviando un chiaro segnale sulla direzione intrapresa.

La partita si gioca ora su una massiccia pulizia del bilancio e rafforzamento del patrimonio: svalutazioni una tantum di crediti e partecipazioni per 12 miliardi che comporterà un dimezzamento dell’incidenza dei crediti deteriorati (dal 15,1% all’8,4% a livello lordo, dal 7,9 al 4% in termini netti), la vendita di 17,7 miliardi di sofferenze a Fortress e a Pimco (la transazione “Fino”), 6.500 esuberi che portano la riduzione complessiva del personale a 14mila unità, la chiusura di un quarto degli sportelli in Italia, e infine 13 miliardi di aumento di capitale. A conclusione di tutto il requisito patrimoniale principale (il CET 1 ratio) salirà dal 10,8% a oltre il 12,5% al 31 dicembre 2019, che è buono ma meno di quanto ci si poteva aspettare dopo questo gran rimescolamento di carte.

È anche vero che la redditività promessa nel 2019 (4,7 miliardi nel 2019 contro 1,5 mld quest’anno, a parità di perimetro), con un ritorno del 9%, in linea costo del capitale, non sembra sufficiente a garantire, dopo il rimbalzo a caldo, margini ampi di apprezzamento della quotazione, una volta completato l’aumento di capitale. Non si può escludere, però, che Mustier si sia riservato qualche spazio di ulteriore miglioramento sorpresa per il mercato, per esempio sul prezzo di cessione dei crediti in sofferenza.

Accanto agli interventi drastici, però, ci sono quelli con bisturi. Per riportare i costi a una base più sostenibile – l’obiettivo a regime è 10,6 miliardi l’anno contro gli attuali 12,2 miliardi (-1,7 mld) – servirà lavorare di fino, ripianificando e digitalizzando i processi operativi, per semplificare il modello di business. Apprezzabile anche l’impegno a rimodulare la politica di remunerazione, visto che oggi il gruppo è decisamente sopra la media di mercato, e fissando un limite di 24 mensilità alle buone uscite. Mustier ha dato l’esempio tagliandosi lo stipendio fisso del 40% e ha rinunciato a bonus annuali, rinunciando anche a eventuali buonuscite.

Che cosa resterà della vecchia Unicredit? Poco o tanto, a seconda dei punti di vista. Da un lato, l’idea di una banca paneuropea che ha il suo cuore in Italia, Germania e Austria e una forte presenza nell’Europa centro-orientale; dall’altro viene già oggi abbandonato l’idea del gruppo universale, di cui l’uscita dall’asset management rappresenta il passaggio centrale, differenziandosi in questo dalle scelte della concorrente Intesa Sanpaolo, che invece continua saldamente a tenere nel proprio perimetro le fabbriche-prodotto.

Mustier ha optato per un “modello semplice di business di banca commerciale”, che poi vuol dire rete distributiva e credito alle imprese, con l’aggiunta dell’investment banking. Da notare che il banchiere ha dichiarato che intende conservare la quota dell’8,5% in Mediobanca. Per farne cosa non è noto. Lasciando da parte la storica partecipazione in Generali, il cuore dell’attività di Mediobanca è il credito alle grandi imprese e i servizi di investment banking. Chissà che non sia questo il terreno su cui nel prossimo futuro assisteremo a qualche colpo di scena.

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