Finanza
Il tesoretto di Renzi tra rischi previsionali e bolle finanziarie
In questa settimana dalle colonne del Sole 24 Ore Lorenzo Codogno, ex capo economista del Ministero dell’Economia oggi commentatore free lance dalla London School of Economics, ha rivolto ai suoi ex colleghi e alla politica tre domande (retoriche) sul Documento di Economia e Finanza e in particolare sulla commedia del “tesoretto”. Devo dire che non è stata una lettura facile neppure per me, che sono del mestiere. Forse il motivo sta nel fatto che i nostri mestieri oggi non sono proprio gli stessi e i nostri linguaggi si sono separati dai tempi in cui Lorenzo ed io facevamo lo stesso mestiere di economisti di banca, agli sgoccioli della Milano da bere. E in quegli anni, in cui non c’era stato ancora Maastricht, i concetti di deficit “nominale” contro deficit “strutturale” che Lorenzo usa oggi non facevano parte del linguaggio suo né mio.
Ma sebbene il pezzo di Codogno sia scritto in un dialetto diverso dal mio, la lingua è la stessa, il concetto fondamentale del ruolo del deficit strutturale nella questione del “tesoretto” è assolutamente chiaro, e mi chiama a riprendere e rilanciare lo stesso tema nel dialetto mio: il tesoretto è un germoglio nato sul terriccio del rischio di modello, è un fiore di loto nato dalla manipolazione genetica dei modelli economici e finanziari. E anche su questo tema, mentre il mondo dell’economia e della finanza combatte gli effetti del rischio di modello, la politica lo usa per far emergere miraggi e allucinazioni, o per munizioni da campagna elettorale.
La questione sulla quale nasce il tesoretto è il calcolo del deficit “strutturale”, anzi, del rapporto tra deficit e PIL strutturale. Questa è una domanda in grado di far rabbrividire chiunque abbia sfiorato nella sua vita problemi di analisi quantitativa. E più si è consapevoli ed esperti di analisi quantitativa, più i brividi aumentano. Il motivo è che i modelli nascono nella dinamica della scienza e non nella fede statica dei preti o nei verità dei codici dei giudici. Così, quanto più si allarga l’orizzonte della ricerca, tanto più si complica la scelta del modello, e tanto più si può fare “shopping” al mercato dei modelli, per fini opposti. Al mercato dei modelli potete trovare vestiti sgargianti per occasioni importanti, come una tornata elettorale, e modelli più castigati per occasioni più serie, come la rappresentazione prudente di un bilancio.
Fa venire i brividi che il rischio di modello qui riguardi due variabili così fondamentali come il deficit ed il PIL. Prendiamo i modelli di analisi strutturale del PIL. Chi avesse seguito la vicenda anche solo dai blog o dal dibattito sulla rete si sarebbe imbattuto in una polemica tra Cottarelli e un ufficio della Commissione Europea sulla questione del calcolo del “prodotto potenziale”. Se fosse questo il rischio di modello, la cosa sarebbe ancora gestibile. Ma il problema è che ci sono quintali di carta di modelli che affrontano la questione del PIL strutturale che neppure citano il concetto di “prodotto potenziale”. Contiamo migliaia di modelli su come riconoscere se una variazione del PIL appartiene al ciclo economico, o al trend. Il repertorio spazia dai modelli tradizionali ed elementari che vengono insegnati nei corsi base della statistica economica ai modelli più sofisticati e alla moda dell’econometria. E ricordiamo che già negli anni 80 nei seminari di macroeconomia delle università degli Stati Uniti si studiava il modello che negava tutti i modelli. Si predicava che il PIL strutturale era una “passeggiata casuale” (“random walk”) e come tale impossibile da prevedere, al di là del tasso di crescita corrente. E lo stato del PIL corrente assorbiva e inglobava tutte le possibili informazioni provenienti da ogni modello proprio come il nero assorbe e annulla tutti i colori. E al di là di questo ricordiamo l’incubo costante degli econometrici, chiamati “break strutturali”, o i tentativi di identificare e modellare cosiddetti “cambi di regime”.
Anche il numeratore del rapporto deficit/PIL, il deficit, è soggetto allo stesso grado di incertezza di modello. Qui il rischio di modello riguarda addirittura due variabili: una è il surplus primario, l’altra la spesa per interessi. Sul surplus primario (entrate meno spese, al netto degli interessi) osserviamo modelli, che vengono dalla Troika, che predicano per la Grecia di oggi un valore del 4,5% del PIL, mai visto in altri paesi, e non giustificato da nessuno dei modelli che si usano in accademia. È come se un modello medico vi proponesse di ridurre i battiti del cuore a 20: secondo questa teoria potrete correre la maratona, mentre per la medicina ufficiale potrete correre all’altro mondo.
Se non bastassero poi le incertezze della macroeconomia, l’utilizzo del deficit complessivo, invece di quello primario, porta dentro la discussione anche i modelli dei mercati finanziari e della gestione del debito. Su questo oggi è chiaro a tutti che la politica di acquisto dei titoli da parte della BCE (il famoso Quantitative Easing o QE) ha generato una bolla, in particolar modo nel mercato dei titoli di stato. La settimana scorsa, in una esercitazione in laboratorio con gli studenti, abbiamo calcolato che gli spread dei tassi sono scesi molto di più di quelli dei CDS (il mercato delle assicurazioni sul rischio di credito degli stati). In altri termini. i CDS sono scesi di poco, rispetto a prima del QE, e tutto il resto è bolla. O forse anche questo è solo un modello, e altri modelli potrebbero portare a quantificazioni diverse della bolla. E infine c’è il legame tra gli spread e la spesa attuale per interessi, in cui entra la politica di gestione e l’uso dei derivati, per cui nessun modello è stato ancora scritto.
Ora, dalla combinazione fortunata di tutti questi modelli abbiamo estratto un numero che è lo 0,1% del PIL. Che grado di credibilità attribuireste a questo numero? E perché anche solo sollevarlo? E farne addirittura uno strumento di politica economica? È un numero di una debolezza tale che anche il solo rischio di stima, che è la versione più debole del rischio di modello, lo potrà cancellare. In altri termini, anche se Dio ci avesse fatto conoscere il modello giusto, le nostre stime di quel modello ci darebbero comunque previsioni azzeccate solo in media, e non in ogni anno. Potrebbe quindi essere che mentre prevediamo una disponibilità, a fine anno, dello 0,1%, questo diventerà la necessità di una manovra. Codogno si chiede se questo non sia un messaggio per Bruxelles, un battere almeno un’unghia sul tavolo, se non si ha il coraggio di battere i pugni. Ma anche questa è una domanda retorica. L’ammontare è troppo ridicolo per poter essere una lezione per l’Europa. Sarebbe come voler dare un avvertimento a McDonald’s rubando una patatina fritta.
Mentre si è parlato a sufficienza di questa esiguità e incertezza del tesoretto, forse è il caso di mettere in luce come ancora una volta l’atteggiamento della politica verso il rischio sia opposto a quello dell’economia e dei mercati. Ricordiamo infatti che proprio il rischio di modello è anche al centro dell’attenzione della regolamentazione bancaria di questi anni. Le grandi banche già a partire da questo anno dovranno accantonare capitale per tenere conto di diverse fonti di opacità dei loro dati di bilancio, e una delle principali è appunto il rischio di modello (si chiama prudent valuation). All’opposto di quello che fa la politica, o il nostro governo, le banche dovranno andare in cerca dei modelli che più penalizzano i loro valori di bilancio, e accantonare capitale per l’ipotesi che questi modelli siano quelli veri. Curiosamente, quindi, lo stesso rischio di modello che consentirà al governo di mettere a disposizione dell’economia un tesoretto da fame in Italia, avrà un effetto di freno sugli impieghi in tutta Europa per quello che richiederà alle banche. La differenza è il concetto di prudenza nella contabilità privata, e di impudenza (ragazzi non ditelo all’esame, è una battuta) della contabilità pubblica. It’s accounting, honey.
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