Finanza
Si polemizza con Bce per non accettare la realtà: per Mps è finita
A distanza di cinque anni da quando esplose la crisi, la tormentata convalescenza di Banca Mps – che nelle parole di banchieri e ministri aveva i tratti di una guarigione miracolosa – è giunta al suo epilogo: ventilazione artificiale tramite ricapitalizzazione pubblica e garanzie statali sulle passività. Una vera e propria nazionalizzazione, è stato scritto, visto che il Tesoro italiano avrà una quota di controllo prossima al 70 per cento, a fronte di un impegno stimato in circa 6,5 miliardi.
Ma è anche una nazionalizzazione piuttosto particolare: la quantità di soldi che esce dalle casse statali viene decisa da un’autorità europea (la Bce), sulla base di valutazioni fatte da un’altra (l’Autorità bancaria europea), a condizioni fissate da un’altra autorità ancora (la Commissione Ue).
L’obiettivo primario del sostegno pubblico non è l’agognato rilancio di cui hanno favoleggiato in questi giorni i vertici della banca, ma semplicemente «evitare una grave perturbazione dell’economia di uno Stato membro e preservare la stabilità finanziaria», che si avrebbe in caso della normale procedura di risoluzione o di una messa in liquidazione.
Questo è il quadro che dovrebbero tenere presente quanti stanno sollevando recriminazioni vittimistiche contro la Bce “che continua ad alzare l’asticella” attraverso requisiti sempre più stringenti. È successo che, dopo il flop dell’aumento sul mercato e la richiesta di aiuto pubblico da parte di Mps, la Bce ha stabilito «un fabbisogno di capitale Euro 8,8 miliardi, comprensivo di tutte le componenti dei fondi propri così come previsti dalla normativa vigente». Ora è vero che è il dato è visibilmente superiore 5 miliardi precedentemente previsti con l’operazione di mercato. Ma solo a una lettura superficiale.
I 3,8 miliardi di euro incorporano un obiettivo di capitale primario (CET1) più alto, ma servono anche a compensare la riduzione di patrimonio totale di vigilanza, che si determinerà convertendo forzosamente le obbligazioni subordinate in azioni (un passaggio richiesto dal principio di condivisione degli oneri). Va ricordato, infatti, che nella versione di fine luglio – prima che cioè che venisse ipotizzata la conversione facoltativa delle obbligazioni e proposto uno scambio obbligazioni vs nuove azioni – la ricapitalizzazione da 5 miliardi si sarebbe andata a sommare al patrimonio di vigilanza esistente, di cui fanno parte anche i titoli subordinati (4,3 miliardi di nominale, che però oggi pesano per la metà a fini di vigilanza).
A fronte di una banca che, pur essendo solvibile (avendo cioè i requisiti patrimoniali minimi), 1) non riesce a raccogliere sul mercato le risorse necessarie per mettersi in regola con i risultati degli stress test, 2) sta pure rapidamente precipitando in una situazione di liquidità molto critica, con grandi e piccoli clienti che ritirano i depositi, 3) avrà probabilmente un nuovo round di svalutazione sui crediti, la maggior cautela della Bce nel chiedere un cuscinetto patrimoniale è più che doverosa (e comunque potrebbe tradursi in un mix di capitale in senso stretto e strumenti aggiuntivi).
Una banca illiquida è già una banca finita. Ed è improbabile che in quest’unione bancaria a egemonia tedesca, Mps abbia ancora un’altra chance di aiuti pubblici, così come è implausibile che riesca a remunerare adeguatamente il capitale, quale che sia il piano di ristrutturazione. Dopo questa ricapitalizzazione di stato, o c’è un risanamento che passa da un drastico ridimensionamento del gruppo Mps oppure si andrà in liquidazione. E forse fra queste due ipotesi, non ci sarà in concreto molta differenza. Forse sarebbe anche la scelta più saggia da fare: vendere quel che ha immediatamente un mercato, e tenersi quel che invece l’a.d. Marco Morelli e il suo predecessore Fabrizio Viola, l’uno e l’altro illuminati da Jp Morgan, volevano vendere, e cioè le sofferenze. L’Italia avrebbe finalmente la sua tanto a lungo fantasticata bad bank.
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