Finanza
Risparmio: le famiglie scelgono casa e depositi, ma dimenticano la previdenza
La ripresa è ancora lenta ma le aspettative per il 60% delle famiglie sono in miglioramento. Si risparmia sempre troppo poco per far fronte alla vecchiaia ma si fa avanti il risparmio gestito riducendo la quota di investimenti diretti. E con l’attuale scenario di tassi bassi, una situazione di cui i risparmiatori non hanno memoria storica (bisognerebbe tornare al 1959 per avere una situazione paragonabile), sono gli investimenti immobiliari e i depositi liquidi a polarizzare l’attenzione. Sono queste le conclusioni dell’«Indagine sul risparmio e le scelte finanziarie degli italiani 2016: Tassi bassi e volatilità, si ritorna al mattone», frutto della collaborazione fra la banca Intesa Sanpaolo e del Centro Einaudi e basta su interviste effettuate da Doxa fra gennaio e febbraio 2016 a 1.011 famiglie detentrici di conto corrente bancario e/o postale.
Migliorano le aspettative economiche delle famiglie. Nel 2016 il 60% giudica imminente un miglioramento e il 20-22% pensa di aumentare le spese per i figli, di espandere quelle per la salute e per l’acquisto di beni durevoli, rinviato negli anni passati.
Si risparmia per far fronte alle incertezze. Se la ripresa c’è (anche se lenta) il risparmio è però indirizzato per far fronte all’incertezza, seguito da quello progettato e messo da parte per i figli e per la casa. Le aspettative pensionistiche continuano invece a ridimensionarsi, ma si risparmia ancora troppo poco per la vecchiaia. Il risparmio previdenziale è insufficiente. La mite ripresa, unita alla volatilità dei mercati finanziari, è alla base della crescente motivazione “precauzionale” del risparmio (58,3 per cento, in aumento di 10 punti). Aumenta un po’ (da 8 a 8,5 per cento) il risparmio per la casa, ma si conferma il superamento del risparmio fatto per i figli (17,1 per cento) rispetto a quello accantonato per il mattone. Il rapporto tra le due motivazioni era invertito prima della crisi.
La difesa del capitale resta la priorità. Quando investono i capofamiglia riferiscono come priorità assoluta la “sicurezza” di non perdere il capitale (in aumento al 58,3% nel 2016 dal 52% del 2015 e appena il 23,8% nel 2011). Solo a seguire vengono rendimento, liquidità, nonché l’apprezzamento del capitale nel lungo termine.
Il risparmio gestito si fa avanti, sottraendo spazi agli investimenti diretti, sui quali è sempre più complicato assumere decisioni e su cui, nel caso delle obbligazioni di Stato italiane hanno inciso le manovre della Bce. Con l’obiettivo di contrastare la deflazione, la Bce ha acquistato obbligazioni con operazioni di mercato: i titoli hanno visto aumentare il prezzo e scendere i rendimenti a circa l’1 per cento. Sale così il patrimonio che viene allocato negli strumenti di risparmio gestito: nel corso del 2015 i patrimoni complessivamente gestiti passano da 1,59 miliardi di euro a 1,83 miliardi (Assogestioni). La quota di patrimonio detenuta su conto corrente rimane comunque alta. La persistenza dei tassi a zero potrebbe preludere proprio al sacrificio della liquidità nella ricerca di investimenti alternativi, come quelli immobiliari.
Case o depositi liquidi. Un extra sondaggio rivolto a 567 piccoli investitori ha indagato i comportamenti di investimento nella persistenza del clima di deflazione e di interessi nulli o minimali, con riguardo alla propensione al passaggio dagli investimenti finanziari a quelli reali, come le case. Il campione ha fornito indicazioni chiare. Posti di fronte al caso degli interessi a zero per più anni, gli intervistati hanno risposto con intenzioni di comportamento polarizzate, in quanto concentrate essenzialmente su due scelte: la scelta della liquidità (che riguarderebbe il 32 per cento degli investitori) e la scelta dell’investimento immobiliare (il 29 per cento considererebbe l’acquisto di una casa per sé e il 20 per cento l’acquisto di una casa da dare in affitto).
Pochi comprano azioni e derivati. Solo una parte ridotta di piccoli investitori, l’8 per cento, reagirebbe ai tassi a zero comprando azioni, cambi e derivati. È un atteggiamento coerente con la teoria economica: infatti, il cambiamento delle combinazioni di rischio e rendimento possibili sul mercato e, in particolare, l’abbassamento dei rendimenti su tutto lo spettro dei rischi non cambia la disponibilità a perdere parte del denaro investito, poiché questa variabile non dipende dal mercato, bensì dal reddito, dal patrimonio e dalla psicologia del singolo investitore. Infine, il 12 per cento acquisterebbe oro e preziosi e il 4 per cento comprerebbe opere d’arte. Chi si rivolge all’oro evidenzia un fondo, anche se non ben espresso, di paura e sfiducia generale nei mercati finanziari. Chi si rivolge all’arte ha in genere un patrimonio complesso e ben diversificato e coglie l’occasione dei rendimenti a zero per acquistare un’opera d’arte essenzialmente perché il costo opportunità si è ridotto.
I piccoli investitori si rivolgono alle case perché questo è il mercato dei beni di investimento che essi direttamente conoscono meglio. Ben il 46% degli intervistati dichiara di conoscere il mercato delle case e di informarsi regolarmente sui suoi prezzi. Dietro al mercato immobiliare si collocano, distanziati, il mercato obbligazionario (che è seguito dal 33% del campione), poi la Borsa (24%) e il mercato dell’oro (19%). Gli acquirenti potenziali di una nuova casa sono tra l’11 e il 19 per cento del campione nei prossimi tre anni.
Il 59% del campione, se potesse chiedere qualcosa al fisco, propenderebbe per un riequilibrio delle imposte tra quelle sulla casa e quelle gravanti sulle altre forme di patrimonio. Una propensione che risponde però a una domanda di equità fiscale. Il 14% del campione vorrebbe trovare sotto l’albero un abbassamento dell’imposta di registro per case da dare in affitto; il 13% vorrebbe un credito di imposta per vendere e riacquistare una casa, prima o seconda, nel corso dello stesso anno; il 9% vorrebbe dedurre il mutuo sulla seconda casa da dare in affitto; il 6% vorrebbe dedurre il mutuo su una seconda casa da tenere per sé. La propensione all’acquisto di case potrebbe essere decisamente più alta di quella dichiarata (tra l’11 e il 19 per cento), se si alleggerisse il peso fiscale sull’investimento immobiliare.
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