Finanza
responsabilità penale dei funzionari delle ex popolari in liquidazione coatta
Nell’ormai lontano (visto i capovolgimenti di fronte) gennaio 2017 nasceva l’A.C.F. (Arbitro per le Controversie Finanziarie), organismo della CONSOB ove i risparmiatori avrebbero potuto sottoporre i ricorsi volti ad ottenere ristoro contro la sciagurata vendita deli titoli azionari da parte delle ex Popolari Veneto Banca e Popolare di Vicenza. Così è stato, peccato che dopo pochi mesi dall’effettiva operatività dell’Arbitro, le due Banche siano state dichiarate in liquidazione coatta amministrativa.
Ciò nonostante, per i giudizi già incardinati alla data di dichiarazione dello stato di dissesto delle predette banche, mediante assoggettamento alla procedura di liquidazione coatta, il Collegio Arbitrale, ritenendo la propria competenza, ha provveduto ad emettere decisioni limpide e prive di vizi logici e giuridici.
Con Decisione n. 271 del 13 febbraio 2018, l’ACF, ha condannato la Banca Veneto Banca il liquidazione coatta amministrativa a corrispondere al Ricorrente, a titolo di risarcimento danni, la somma di euro 12.786,15, sostenendo come: “Nel merito della controversia, è fondata e va accolta la domanda risarcitoria del Ricorrente, per violazione degli obblighi informativi, nonché degli obblighi in materia di attività di consulenza e di valutazione dell’adeguatezza dell’investimento.
Ma vi è di più. Infatti, il ricorrente, non solo deduceva l’illecito derivante dalla violazione degli obblighi informativi e di diligenza in capo all’intermediario, bensì il fatto di essere stato indotto – da dirigenti e funzionari – deliberatamente alla sottoscrizione di titoli, con la promessa che tale acquisto sarebbe risultato sicuro e senza rischio alcuno. Per fare ciò, come evidenziato dall’ACF, condividendo le deduzioni del ricorrente, la Banca ha propinato al consumatore/investitore “della documentazione prodotta dalla Banca a riprova dell’adempimento degli obblighi informativi, siccome contenente espressioni standard e generiche, talora di tenore “astruso”, che difficilmente fanno comprendere (almeno ai non addetti ai lavori) il significato dell’operazione finanziaria sottoscritta”
Sul punto, l’Arbitro pur non potendo esprimersi su questioni che esulano dalla propria competenza, non ha potuto far altro che constatare come “la circostanza che l’acquisto delle azioni sia stato svolto nell’esercizio del servizio di negoziazione per conto proprio su strumenti illiquidi, è indizio del fatto che sia stata proposta all’investitore un’operazione inadeguata al suo profilo di rischio. Dal questionario MIFID del 25 ottobre 2010 risulta, al riguardo, che il Ricorrente aveva indicato il medio periodo come orizzonte temporale massimo per gli investimenti con una “discreta probabilità di liquidazione dell’investimento in ogni momento con modesto sacrificio di prezzo”. Ed ancora: “Va altresì considerato che la circostanza che l’acquisto delle azioni sia stato svolto nell’esercizio del servizio di negoziazione per conto proprio su strumenti illiquidi, è indizio del fatto che sia stata proposta all’investitore un’operazione inadeguata al suo profilo di rischio”.
La Decisione de qua e le riflessioni a cui il Collegio, pur non essendone tenuto, è giunto, inducono a riflettere sul fatto che la condotta posta in essere da funzionari e dirigenti della Banca possa essere inquadrata come un vero e proprio disegno volto a “trarre in inganno” ed indurre in errore, con artifizi, la buona fede del consumatore, facendogli sottoscrivere prodotti “altamente tossici” che diversamente non avrebbe mai stipulato.
L’antigiuridicità della condotta assume connotati tanto più grotteschi, se consideriamo che a seguito della richiesta reiterata del cliente di “vendere” i propri titoli al fine di far fronte ad esigenze personali, la Banca, anziché ammettere di aver “mal consigliato” il proprio cliente (così potendo quantomeno contare sulla “scusante” della buona fede), ha reiterato nella propria condotta, proponendo al consumatore la stipula di un contratto di affidamento, così – solo apparentemente – concedendo liquidità che il consumatore non avrebbe mai potuto contro-bilanciare con titoli qualificabili come “carta straccia”.
Ma di tutto ciò, il consumatore, era totalmente all’oscuro, poiché, periodicamente riceveva comunicazioni dall’amministrazione della Banca e dai suoi dirigenti locali che “rassicuravano” i soci con indicazioni di solidità aziendale frutto di pura invenzione e creatività contabile.
E’ proprio in questo duplice passaggio (prima l’acquisto “indotto” con artifizi e poi la sottoscrizione di nuovo contratto per lucrare un vantaggio ingiusto), passaggi richiamati indirettamente anche dall’Arbitro, che i dirigenti della filiale, potrebbero essere incorsi nel reato di truffa contrattuale quale delitto contro il patrimonio, con una condotta idonea ad arrecare un danno economico al patrimonio del soggetto passivo in modo ingiustificato.
Difficile, a riguardo, intravedere alcuna forma di attenuante nella condotta dei funzionari che – se all’atto di vendita dei titoli – possono sostenere di aver perseguito delle direttive aziendali (ancorché è indubbio che abbiano “quantomeno” tratto in errore il cliente) , nel momento in cui era a loro noto che tali titoli erano penalizzanti per il medesimo e non liquidabili, non solo hanno omesso, in modo ingiustificato e volontario, ogni forma di informazione, ma hanno perseverato nella propria condotta fino a far concludere al cliente nuovi contratti di finanziamento, arrecando al consumatore un danno ingiusto e fraudolento.
Sulle contestazioni riportate e sulla loro valenza penale, da alcuni mesi, alcune Procure si stanno muovendo, in modo che venga fatta chiarezza sulle singole responsabilità di chi, a livello locale, ha abusato della buona fede dei propri clienti, talvolta, “giocando” sui risparmi di una vita.
Avv. Matteo Marini
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