Finanza
Come funziona e chi paga il salvataggio di Banca Marche, Pop Etruria e le altre
È finalmente arrivato in porto il piano di salvataggio per le quattro principali banche in crisi e commissariate – Banche Marche, Banca Etruria, Cassa di risparmio di Chieti e Cassa di risparmio di Ferrara. Il Consiglio dei ministri ha infatti approvato per decreto (v.) alcune norme che consentono di attuare rapidamente i programmi di risoluzione contenuti nei provvedimenti approvati il 21 novembre della Banca d’Italia.
Per ciascuna delle quattro banche, che da lunedì 23 novembre vanno in liquidazione, è stata creata una nuova società (la banca-ponte) che erediterà la parte sana e subentrerà nei rapporti creditizi e di lavoro, esporrà le stesse insegne e avrà una denominazione praticamente identica (Nuova Banca Marche, Nuova Banca Etruria, etc). Per clienti e dipendenti non cambia nulla, dunque. «Le perdite accumulate nel tempo da queste banche, valutate con criteri estremamente prudenti, sono state assorbite in prima battuta dagli strumenti di investimento più rischiosi, le azioni e le “obbligazioni subordinate”, queste ultime per loro natura anch’esse esposte al rischio d’impresa», si legge in una nota di Bankitalia. Azionisti e obbligazionisti subordinati perdono perciò il capitale investito e subiscono le conseguenze più pesanti del dissesto, creditori ordinari e depositanti restano indenni.
Il capitale azionario di ciascuna delle quattro nuove banche sarà sottoscritto dal Fondo di risoluzione nazionale. Quest’ultimo è previsto dalle norme europee e italiane, è amministrato dall’Unità di Risoluzione della Banca d’Italia e viene alimentato con le contribuzioni di tutte le banche. La parte “cattiva” – ovvero i crediti in sofferenza svalutati a 1,5 miliardi dall’originario valore di 8,5 miliardi (-82,35%) – sarà ceduta dalle banche a un’unica “bad bank”, anch’essa partecipata dal Fondo. A dispetto del nome, la “banca cattiva” non ha licenza bancaria ma è una società di gestione crediti.
L’investimento richiesto dal piano è di 3,6 miliardi di euro, interamente a carico del Fondo, e dunque delle 208 banche aderenti, in parte finanziato con i versamenti dalle banche, in parte (1,7 miliardi) con un prestito. Il contributo delle banche al Fondo (2,3 miliardi) è però deducibile come costo dalle banche: quindi il Fisco incasserebbe circa 600 milioni di euro in meno sul 2015. Gli amministratori delle banche-ponte, che sono nominati da Bankitalia, hanno l’impegno di venderle in tempi brevi al miglior offerente, con procedure trasparenti e di mercato, e quindi retrocedere al Fondo di risoluzione i ricavi della vendita.
«Il decreto legge non prevede alcuna forma di finanziamento o supporto pubblico alle banche in risoluzione o al Fondo nazionale di risoluzione», sottolinea un comunicato del Governo. Per la Banca d’Italia «la soluzione adottata assicura la continuità operativa delle banche e il loro risanamento, nell’interesse dell’economia dei territori in cui esse sono insediate; tutela pienamente i risparmi di famiglie e imprese detenuti nella forma di depositi, conti correnti e obbligazioni ordinarie; preserva tutti i rapporti di lavoro in essere; non utilizza denaro pubblico».
Il piano ha ricevuto l’approvazione della Commissione Europea, che l’ha ritenuto compatibile con le norme sugli aiuti di stato, dopo che altre proposte erano state bocciate, anche se nella sostanza non differivano di molto da quella adottata alla fine. Tuttavia, nella nota diffusa in serata, Bruxelles ha sottolineato che la garanzia data dal Fondo alle banche-ponte sui rispettivi crediti verso la bad bank (a fronte delle cessione di attività in sofferenza) ha un valore di circa 400 milioni di euro ed è qualificabile come aiuto di stato. Di fatto, l’intervento del Governo si muove sui binari della Direttiva sul risanamento e la risoluzione delle banche (BRRD), che in Italia è stata recepita la scorsa settimana, con l’eccezione del “bail in”. In questo caso il meccanismo del “salvataggio interno”della banca ha colpito solo azionisti e creditori subordinati, ma non ha interessato obbligazionisti ordinari e titolari di depositi di qualsiasi importo.
Dal 1° gennaio 2016, invece, il bail in sarà pienamente operativo. Perciò, in caso di dissesti bancari, il Fondo di risoluzione potrà intervenire solo dopo che ad azionisti e creditori, inclusi i titolari di depositi superiori a 100mila euro, siano state imputate perdite per almeno l’8% delle passività totali della banca. L’imputazione delle perdite potrà avvenire o per abbattimento del valore o per conversione in azioni (v. la spiegazione della Banca d’Italia sulle crisi bancarie). Sono esclusi dal salvataggio interno, e quindi sono sempre fatti salvi, i depositi protetti (inferiori a 100mila euro), le passività garantite, i contenuti delle cassette di sicurezza, i debiti fra banche e quelli verso i dipendenti.
I dettagli del piano di salvataggio
La Banca d’Italia ha diffuso un comunicato per spiegare i dettagli del piano (Informazioni sulla soluzione delle crisi di quattro banche in amministrazione straordinaria). Eccone una sintesi:
- Per ciascuna delle quattro banche la parte “buona” è stata separata da quella “cattiva” del bilancio.
- Alla parte buona (“banca buona” o banca-ponte o bridge bank) sono state conferite tutte le attività tranne i prestiti in sofferenza, cioè quelli di più dubbio realizzo. A fronte di tali attività vi sono i depositi, i conti correnti e le obbligazioni ordinarie. Il capitale è stato ricostituito a circa il 9% del totale dell’attivo (ponderato per il rischio) dal Fondo di risoluzione. Per tutte e quattro le banche Roberto Nicastro, ex direttore generale di Unicredit, è stato scelto come presidente.
- Nella “banca cattiva” (bad bank), priva di licenza bancaria, sono concentrati i prestiti in sofferenza che residuano una volta fatte assorbire le perdite dalle azioni e dalle obbligazioni subordinate e, per la parte eccedente, da un apporto del Fondo di risoluzione. Tali prestiti in sofferenza, svalutati a 1,5 miliardi dall’originario valore di 8,5 miliardi, saranno venduti a specialisti nel recupero crediti o gestiti direttamente per recuperarli al meglio. In sostanza, viene considerato recuperabile circa il 17,65% del valore nominale. Completato il recupero o la vendita, la bad bank chiuderà i battenti.
- Lo Stato non subisce alcun costo diretto in questo processo. L’intero onere del salvataggio è posto innanzitutto a carico delle azioni e delle obbligazioni subordinate delle quattro banche, e poi del sistema bancario italiano.
- L’impegno finanziario immediato del Fondo di risoluzione è di 3,6 miliardi così suddiviso: circa 1,7 miliardi a copertura delle perdite delle banche originarie (recuperabili forse in piccola parte); circa 1,8 miliardi per ricapitalizzare le banche buone (recuperabili con la vendita delle stesse), circa 140 milioni per dotare la banca cattiva del capitale minimo necessario a operare.
- La liquidità necessaria al Fondo di risoluzione per iniziare immediatamente a operare è stata anticipata da tre grandi banche (Intesa Sanpaolo, Unicredit e Ubi Banca), a tassi di mercato e con scadenza massima di 18 mesi.
- Le quattro banche originarie divengono dei contenitori residui in cui sono confinate le perdite e la loro copertura, e vengono subito poste in liquidazione coatta amministrativa.
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