Finanza
Non diamanti ma lacrime: sperare in un giacimento per ritrovarsi con un buco
Quanti hanno ricevuto dalla propria banca la proposta di investire in un prodotto sicuro?: i diamanti.
La crisi dei mercati finanziari innescata dal fallimento Lehman del 2008 e con l’euro che rischiava, avere in tasca delle pietre preziose non sembra una cattiva idea. Chi si è fatto convincere da questa proposta, può diventare uno degli oltre centomila italiani risucchiati in una brutta vicenda, forse architettata da società e da istituti di credito senza scrupoli e come tante altre vicende che hanno visto coinvolte le banche, segnata dall’assenza di Consob e Banca d’Italia.
Vediamo chi sono gli attori principali di questo brutto film, già visto.
La Intermarket Diamond Business (Idb) di Milano, e la Diamond private investment (Dpi) di Roma sono di gran lunga le più importanti, che operano da anni principalmente attraverso il canale bancario. Agli istituti di credito venivano offerti due vantaggi: una commissione pari al 10-20 per cento dell’investimento del cliente e la possibilità di aumentare la gamma di prodotti da presentare ai correntisti. Le banche non facevano altro che segnalare alle società dei diamanti il potenziale cliente e inoltrava le disposizioni di acquisto sottoscritte dall’acquirente.
I diamanti esistevano per davvero e venivano consegnati al risparmiatore in un blister, oppure restavano nelle casseforti della Idb o della Dpi senza costi aggiuntivi.
Le banche inoltre non erano tenute ad assumersi alcuna responsabilità riguardo alle caratteristiche dei prodotti, equità del prezzo, autenticità delle pietre.
Il gruppo Bpm e Unicredit, seguiti dal Monte di Paschi e altri istituti, sono quelle che hanno fatto affari in questo business. Le vendite, cresciute con regolarità fino al 2009, sono raddoppiate nel 2009-2010 e nel 2010-2011, in coincidenza con la crisi Lehman e dell’euro. Il picco delle vendite è stato raggiunto nel 2015-16. I rapporti al vaglio indicano anche la presenza di consumatori che hanno investito nei diamanti anche 400 mila euro.
Le regole erano semplici, investire come minino 5 mila euro esentasse e tenere i diamanti per almeno sette anni per pagare la commissione minima del 7 per cento, se i risparmiatori avessero voluto vendere, ci avrebbero pensato la Idb o la Dpi a trovare un compratore nel giro di una quarantina di giorni, e poi c’era la banca a promuovere e quindi si fidavano.
Ma “non è tutto oro quello che luccica”, infatti le valutazioni reali erano inferiori di circa dal 15% al 30% rispetto a quanto investito. La differenza di questo prezzo è dovuta al fatto, come ha scoperto l’Antitrust nella sua indagine, che al costo della pietra all’origine si aggiungono altri oneri tra cui i costi doganali e di trasporto (1-5 per cento), il margine per la società (20-40 per cento), la commissione della banca (10-20 per cento), l’Iva del 22 per cento. Così il diamante rappresenta, se va bene, solo il 30-40 per cento dell’investimento complessivo. Tale informazione non era neppure nota ai funzionari bancari che avevano segnalato ai risparmiatori questa opportunità di investimento.
I dubbi iniziano nel 2011, quando alcuni risparmiatori si resero conto di quanto era difficile liquidare l’investimento effettuato, e che c’era una forte differenza tra il prezzo pagato per l’acquisto dei diamanti ed il loro valore di mercato.
Il mercato dei diamanti però continuava a funzionare alla grande, tra il 2013 e il 2016 venivano piazzate in banca ogni anno tra le 10 e le 20 mila pietre. La sola Bpm intermedia circa 600 milioni di euro in diamanti.
Poi scoppia il caso. Un’ inchiesta di Report dell’ottobre 2016 spinge migliaia di clienti a rivolgersi alle proprie banche per riavere i soldi e liberarsi delle pietre. E così il meccanismo si inceppa, perché le società dei diamanti non erano più in grado di ricollocare le pietre, né si accollarono il riacquisto.
La Consob e la Banca d’Italia si tirano fuori, i diamanti non sono un prodotto finanziario e nemmeno un prodotto bancari.
Finalmente nel 2016 l’Antitrust inizia a indagare e nell’ottobre 2017 multa per più di 15 milioni di euro le due società venditrici di diamanti e quattro banche: Intesa Sanpaolo, Unicredit, Mps e Bpm. Il problema è che solo alcuni istituti sono venuti incontro ai clienti: Intesa Sanpaolo e Unicredit hanno deciso di restituire il 100 per cento del capitale investito.
Nel frattempo, il Tribunale di Milano, lo scorso 15 gennaio, ha dichiarato il fallimento della società Intermarket Diamond Business (IDB), una delle due società attive nella vendita di pietre preziose attraverso l’intermediazione di alcune grandi banche italiane.
Questo comporterà di sicuro ritardi nella riconsegna delle pietre, condizione essenziale per procedere alle azioni di risarcimento delle somme nella procedura stragiudiziale.
Il giudice ha dato 30 giorni di tempo per i creditori ed i terzi, che vantano diritti reali e mobiliari su cose in possesso del fallito, per la presentazione delle domande di ammissione. Quei risparmiatori per i quali risulta già pendente una causa civile, il fallimento di I.D.B. Spa comporterà, l’interruzione della causa attualmente pendente e la necessità di una riassunzione nei confronti solo dell’Istituto di Credito che è stato chiamato in giudizio.
In entrambi i casi, però, sarà necessario intraprendere preventivi giudizi di rivendicazione della proprietà delle pietre preziose per i soli risparmiatori che non ne hanno il possesso, avendo, all’epoca dell’investimento, deciso di lasciare le stesse in custodia presso la società fallita.
C’è tempo quindi fino all’8 marzo per depositare l’ammissione allo stato passivo, dal momento che il giorno 8 aprile ci sarà l’esame dello stato passivo della società davanti al giudice delegato.
Le cifre ufficiali al momento non ce ne sono, ma stando alle associazioni di consumatori le richieste fioccano a migliaia – si sono fidati dei propri consulenti, dai quali hanno ricevuto la proposta di “investire” in un prodotto sicuro.
Tante storie di risparmi pressoché volatilizzati, come quella, ancora più incredibile, di don Piero Nannipieri, sacerdote 74enne per molti anni a capo di una parrocchia in provincia di Pisa e docente in una scuola, che nel 2015 ha consegnato in banca i risparmi dei suoi genitori defunti senza neanche sapere che sarebbero stati investiti in diamanti. Alla Cassa di Risparmio di Lucca Pisa Livorno, poi assorbita in BPM ha consegnato circa 25mila euro con la richiesta di investirli in modo sicuro.
Di fatto, quei soldi sono stati destinati all’acquisto di diamanti anche se la circostanza gli è stata riferita solo quando, tre anni dopo e scaduto il contratto di investimento, si è recato in banca per chiederne la liquidazione: lui si fidava della sua banca e sapeva di poter recuperare l’investimento in caso di necessità, trovando, anzi non trovando niente di quanto aveva versato.
Naturalmente, per il dipendente della banca è scattata la denuncia penale. I tre diamanti successivamente consegnati, a fronte di un investimento iniziale di 25mila euro corrispondeva di fatto a circa 5mila euro di valore reale delle pietre, peraltro impossibili da vendere perché prive della necessaria certificazione. Molti risparmiatori non sanno ancora del fallimento della IDB . Questo ha reso certamente tutto più complicato perché se prima si poteva agire contro due soggetti, ora ne è rimasto soltanto uno, la banca. La richiesta di “sblocco” delle pietre di cui i risparmiatori non sono mai entrati in possesso va fatta presso il curatore fallimentare con un ricorso. La speranza, naturalmente, è che si riesca a trattare con gli istituti ed ottenere la restituzione di quanto investito. Se questo purtroppo non fosse sufficiente, si dovrà agire in via giudiziale verso la banca.
Come spesso accade, per riuscire a far valere la propria posizione, non è cosa semplice.
Innanzitutto bisogna presentare entro e non oltre il giorno 8 marzo 2019 un ricorso al Tribunale Fallimentare di Milano. Con questa istanza bisogna chiedere al curatore fallimentare la restituzione dei diamanti. Tale istanza è obbligatoria, pena la perdita del diritto e, se non viene depositata, potrebbe pregiudicare la richiesta di risarcimento verso la propria banca.
Successivamente, bisogna agire nei confronti della banca per chiedere il risarcimento.
Rischia quindi di trasformarsi in un incubo kafkiano per chi sta cercando almeno di tornare in possesso dei beni acquistati e pensare che molte persone inoltre, credono che le loro pietre siano in banca, non avendo controllato con attenzione i vari moduli che avevano firmato all’atto dell’acquisto.
Dall’altra parte chi resta, come la DPI cerca di dare delle spiegazioni .
Sul suo sito infatti, la società denuncia:
“il clamore mediatico che ha determinato una sorta di panic selling che ha provveduto alla paralisi completa del mercato, conseguendo di per se un risultato opposto, in special modo da quelle associazioni di consumatori, che invece di tutelare l’interesse degli aderenti, hanno inteso scagliarsi, privi di qualunque cognizione tecnica, contro la presunta “truffa dei diamanti” coinvolgendo la società e gli istituti bancari in una vicenda dai connotati assai torbidi”.
Certo, alla fine a farne le spese resta sempre l’utente finale, da una parte forse frodato, dall’altra terrorizzato e pressato dalle continue informazioni diffuse, in modo forse anche sproporzionato.
L’investitore deve dunque muoversi ed attivarsi per far valere il suo buon diritto, tramite avvocati esperti della materia.
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