Finanza
Le scelte finanziarie degli italiani in tempi di inflazione alta
La quota delle famiglie italiane che riescono a risparmiare, nonostante l’inflazione e il quadro economico generale, si mantiene sui valori massimi del pre-pandemia e sale al 54,7 per cento, rispetto al 53,5 per cento nel 2022. È quanto emerge dall’indagine sul risparmio e sulle scelte finanziarie degli italiani 2023 presentata da Intesa Sanpaolo e Centro Einaudi.
«Le banche centrali hanno vinto la loro battaglia nella lotta all’inflazione. Hanno influenzato la componente domestica dell’inflazione. Hanno evitato un second round effect sulla diffusione dell’inflazione e il contenimento della domanda ha calmierato i prezzi delle materie prime energetiche. Il picco della restrizione monetaria è chiaramente terminato», spiega Gregorio De Felice, capo economista di Intesa Sanpaolo. «Con riferimento all’area dell’euro, le stime di Intesa Sanpaolo indicano un rallentamento dell’inflazione al consumo dal 5,4 per cento di fine 2023 al 2,3 per cento nel dicembre del prossimo anno, seguito da una stabilizzazione intorno alla soglia del 2 per cento dall’inizio del 2025. Per quanto riguarda l’Italia, il dato è visto in calo all’1,8 per cento nel 2024, dal 5,9 per cento dell’anno in corso».
Tra gli investimenti finanziari dei risparmiatori italiani salgono le obbligazioni, che raggiungono il 28 per cento dei portafogli di chi le detiene e assorbono in parte la flessione del risparmio gestito. «Il 33,5 per cento del campione indica la liquidità e le obbligazioni a tasso fisso tra le scelte più opportune in un contesto inflazionistico; il 35 per cento circa ritiene invece meglio investire nel “mattone” e in altri beni rifugio. Confermata la tradizionale prudenza delle famiglie italiane, per cui la sicurezza storicamente rappresenta l’obiettivo primario degli investimenti».
Tra le motivazioni del risparmio degli italiani, spiccano la casa (30 per cento) e i figli (16 per cento) mentre solo il 5 per cento accantona risorse per far fronte all’aumento dei prezzi. La ricchezza immobiliare degli italiani è rilevante e l’indagine la stima a ridosso dei 4.000 miliardi di euro solo per la prima casa, oltre il doppio del Pil. Malgrado una crescente sensibilità ai rischi, l’86 per cento degli intervistati dichiara di non aver sottoscritto un’assicurazione per coprire le spese mediche; il 68 per cento non ha un’assicurazione vita.
L’aumento dei prezzi ha ovviamente eroso il potere d’acquisto delle famiglie italiane. Dopo il -1,5 per cento del 2022, la dinamica del reddito reale disponibile è vista ancora lievemente negativa nel 2023 (-0,5 per cento), per recuperare solo nel 2024 grazie al calo atteso dell’inflazione.
L’impennata dei prezzi ha però peggiorato la distribuzione dei redditi, svantaggiando i più fragili. «Recentemente, il rapporto INAPP ha sottolineato come l’Italia abbia perso 13 posizioni nella graduatoria dei salari reali tra i Paesi OECD. Dal 1992 al 2022, l’incremento salariale in Italia è stato pari ad appena l’1 per cento a fronte del +32,5 per cento della media dei Paesi OCSE. Nel periodo 2019-22 i salari reali hanno continuato a scendere nonostante l’incremento di produttività del lavoro. La profittabilità delle imprese si è peraltro mantenuta buona e in molti casi è cresciuta. Ci sono le condizioni per un aumento dei salari, che costituirebbe un volano importante per sostenere i consumi delle famiglie, il cui potere d’acquisto è compromesso dalla crescita dei prezzi, e per trattenere in Italia le risorse più qualificate. Occorre trovare il giusto mix tra CCNL e politiche salariali a livello d’impresa», spiega De Felice.
L’Italia deve fare di più per creare le condizioni per rendere l’economia italiana più produttiva, inclusiva e resiliente a possibili nuove crisi. «L’incidenza dei giovani che non lavorano né studiano (i cosiddetti Neet) si colloca in Italia poco sotto il 20 per cento, 7 punti in più rispetto alla media europea; siamo ultimi nella classifica europea per tasso di attività femminile. Allineare alla media europea il tasso di partecipazione delle donne al mercato del lavoro significherebbe poter disporre di 2,4 milioni di forze di lavoro in più per il paese; analogamente, un miglioramento nei livelli e nella qualità dell’istruzione produrrebbe effetti positivi in termini di produttività, in grado di limitare le conseguenze negative del calo demografico. Raggiungere questo traguardo è una responsabilità collettiva, conclude De Felice.
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