Finanza
L’affaire MPS poteva essere archiviato da anni
Venerdì scorso, mentre l’EBA pubblicava gli esiti degli stress test e bocciava MPS, il CdA della banca ha approvato un ambizioso piano di risanamento con l’obiettivo di dare una “Soluzione strutturale e definitiva all’attuale portafoglio di crediti in sofferenza”. Come noto, a inizio luglio la BCE aveva chiesto all’istituto senese di ridurre entro il 2018 il proprio stock di NPL netti di circa 10 miliardi di euro, da 24,2 a 14,6. In risposta alle richieste di Francoforte, MPS ha accelerato i lavori di definizione del piano di dismissione degli NPL, avvalendosi della consulenza di JP Morgan e Mediobanca e confrontandosi sistematicamente anche con il Governo e il Ministero dell’Economia e delle Finanze.
Preliminarmente alla cessione dell’intero pacchetto di sofferenze lorde pari a 27,7 miliardi (10,2 il dato netto), la banca si è impegnata ad aumentare i livelli di copertura dei crediti deteriorati per circa 1 miliardo; di conseguenza le sofferenze nette scenderebbero a 9,2 miliardi. Altri 2,2 miliardi dovrebbero essere utilizzati per aumentare le coperture su altri crediti problematici.
Completata questa fase MPS cederà il suo portafoglio di sofferenze a una società-veicolo (Sec.Co) al prezzo di 9,2 miliardi (33% del valore lordo del portafoglio). Per finanziare l’acquisto la Sec.Co emetterà asset-backed securities o ABS secondo la seguente struttura:
· una tranche senior da 6 miliardi con potenziale garanzia statale (GACS) sulla quota investment grade;
· una tranche mezzanina fino a 1,6 miliardi che verrà acquistata dal Fondo Atlante, la cui potenza di fuoco residua (dopo gli interventi su Popolare Vicenza e Veneto Banca) gira appunto su 1,6 miliardi;
· una tranche junior, anche questa fino a 1,6 miliardi che verrà acquistata dagli azionisti di MPS.
La fattibilità del piano è condizionata al successo di un ennesimo aumento di capitale della banca (il 4° dal 2011) per ben 5 miliardi di euro; incrociando i numeri è infatti evidente che di questi 5 miliardi 3,2 serviranno a realizzare l’innalzamento delle coperture e altri 1,6 miliardi serviranno a comprare la tranche junior. Resteranno appena 200 milioni che si sommeranno al valore corrente della banca, la cui capitalizzazione di mercato è di circa 1 miliardo di euro. Chiaramente, l’effetto iperdiluitivo del maxi-aumento di capitale comporterà un minor valore dell’azione per tener conto del numero di azioni di nuova emissione rispetto alla risibile iniezione netta di capitale di appena 0,2 miliardi.
Queste le direttrici del piano licenziato venerdì scorso dal CdA della banca, senza dubbio ambizioso e con molte incognite, a partire da chi sottoscriverà l’aumento di capitale-monstre che potrebbe anche consegnare la più antica banca del mondo nelle mani di investitori stranieri.
Ma le cose sarebbero potute andare diversamente. Facciamo un passo indietro sino al mese di gennaio 2013 quando l’istituto di Rocca Salimbeni – travolto dallo scandalo dei derivati Alexandria e Santorini – emetteva oltre 4 miliardi di Monti-bond con cui si impegnava a corrispondere allo Stato cedole elevatissime (dal 9% in su). In caso di mancato pagamento in contanti, era prevista la liquidazione delle cedole sotto forma di azioni di nuova emissione, come accaduto a luglio 2015 quando il Tesoro è diventato secondo azionista della banca con una quota di poco superiore al 4%.
Se invece dei Monti-bond lo Stato avesse usato quei 4 miliardi per ricapitalizzare direttamente MPS e diventare l’azionista di maggioranza (all’epoca non c’erano tutti i vincoli Europei introdotti successivamente con la Comunicazione sul settore bancario dell’agosto 2013), forse la banca non avrebbe vissuto la triste parabola che l’ha portata ad avere oggi una capitalizzazione di mercato inferiore al miliardo. Per avere un’idea delle perdite cumulate in questi anni è sufficiente dire che a fine 2005 la capitalizzazione di MPS era di 12 miliardi di euro!
I Monti-bond peraltro sono serviti a ben poco: nel 2014 la banca fa un maxi-aumento di capitale da 5 miliardi e nel 2015 fa il bis con un altro aumento da 3 miliardi. Senza contare i due aumenti precedenti: 2 miliardi nel 2011 su richiesta della Banca d’Italia e il precedente di quasi 6 miliardi per comprare Antonveneta.
Complessivamente dal 2011 la banca ha fatto aumenti di capitale per 10 miliardi di euro (addirittura 16 a far data dall’epoca dell’acquisto di Antonveneta) a spese degli azionisti e dei piccoli risparmiatori.
Ma non finisce qui. Negli ultimi anni la crisi ha acutizzato il problema dei crediti deteriorati che MPS ha tamponato di volta in volta con parziali deconsolidamenti e con accantonamenti cospicui nell’ordine dei 17 miliardi (tanta è la differenza tra il valore netto e quello lordo del portafoglio i NPL). E su questi accantonamenti la banca ha beneficiato di oltre 8 miliardi di crediti fiscali verso lo Stato; in altri termini, attraverso il fisco, MPS ha gravato sulla collettività per più di 8 miliardi.
Sommando questi 8 miliardi di crediti fiscali ai 10 degli ultimi 3 aumenti di capitale otteniamo una stima di quanto il Monte dei Paschi è già costato alla collettività: ben 18 miliardi di euro dal 2011. Ebbene, con una simile somma lo Stato si sarebbe potuto comprare la banca non una volta ma sei volte o anche di più!
Non solo. Optando subito per la nazionalizzazione, il Tesoro avrebbe avuto in mano una banca pubblica con cui sovvenzionare senza violazione della disciplina sugli aiuti di Stato le altre banche del Paese che in questi anni sono andate in tensione sui livelli di patrimonializzazione, da ultime la Popolare di Vicenza e Veneto Banca.
Questo è quello che sarebbe potuto essere. Quello che invece c’è oggi è una banca che ha lanciato l’ennesima mega-ricapitalizzazione che molto difficilmente attirerà gli azionisti esistenti viste le grosse perdite già subìte su un titolo che nell’ultimo anno ha perso l’85%. È quindi verosimile che l’aumento sarà coperto da uno o più investitori esteri. Una possibilità è l’entrata nella proprietà di JP Morgan che ha seguito tutta l’operazione come advisor e partecipa al consorzio di garanzia. Ma non è da escludersi anche l’ipotesi di interventi da parte di qualche fondo sovrano estero, magari cinese o statunitense, intenzionato a crearsi una solida area di manovra sulla piazza italiana per poi penetrare a più ampio spettro su vari settori della nostra economia secondo una precisa strategia di colonizzazione. L’alternativa (ma i dubbi sono ancora tanti) è la creazione di un “Fondo Atlante 2” magari col contributo finanziario di varie casse previdenziali.
Nella prima ipotesi (investitori stranieri) perderemmo il controllo della terza banca italiana, mentre nella seconda ipotesi (Atlante 2) saremmo di fronte all’ennesimo sussidio pubblico indiretto ai danni delle pensioni di domani.
Peraltro il coinvolgimento delle risorse pubbliche riguarda anche altri aspetti del piano di risanamento di MPS. Innanzitutto la tranche mezzanina verrà acquistata per intero dal Fondo Atlante che, come noto, è stato finanziato anche dalla Cassa Depositi e Prestiti. E poi ci sono le GACS, cioè le garanzie statali che potrebbero essere attivate sulla tranche senior: su queste garanzie lo Stato riceverà una remunerazione teoricamente a mercato ma nella sostanza è tutto da vedere, mentre è certo che si esporrà ai rischi di questa tranche. Rischi che difficilmente saranno trascurabili date le dimensioni di questa tranche (più di 3 volte ciascuna delle altre due) e la bassa qualità del portafoglio di crediti ceduti dal Monte.
In conclusione: finora il bilancio dell’affaire MPS è a saldo negativo per lo Stato Italiano e il piano messo a punto la settimana scorsa rischia di peggiorarlo. Eppure bastava nazionalizzare.
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