Finanza
La via dei giuristi alla probabilità ha un solo problema: la giustizia
La probabilità è un monte che si può scalare da due vie, quello della matematica e quello della statistica. È quello che ogni anno dico e ripeto ai miei studenti appena arrivati in un corso di laurea in finanza quantitativa. Loro dovranno sapere scalare la montagna dai due lati. Ma c’è una terza via di scalata, non meno impervia, ed è quella del diritto. I giuristi ne hanno discusso in un convegno a Mantova, la settimana scorsa. Hanno discusso di “alea” o di zara, per usare un nome antico che sarebbe stato più consono alla antica città. Ma dai termini antichi sono emerse, anche agli occhi di uno che come il sottoscritto ha dovuto di tanto in tanto sbirciare i sottotitoli per capire i concetti, riflessioni importanti sul ruolo che la probabilità deve svolgere nelle relazioni che definiscono l’economia dei nostri tempi, insieme agli elementi di preoccupazione che ne possono frenare lo sviluppo. La conclusione che porto a casa è che gli unici elementi di preoccupazione riguardano la capacità del sistema giuridico di assorbire il concetto di probabilità.
È inutile ribadire la centralità della probabilità nel processo di decisione degli investimenti e definizione dei prezzi. Non aggiungerebbe nulla a quello che più volte abbiamo scritto da queste colonne, anche perché sarebbe percepito comunque come un’arringa di parte. E per chi si occupa di finanza quantitativa questa non deve essere percepita come una scelta di campo. C’è un teorema fondamentale della finanza, che risale al 1979, che dice che non possono esistere prezzi di prodotti finanziari se non esiste una misura di probabilità. A chi dice che non esiste un prezzo solo si risponde dicendo che può non esistere una probabilità sola, che è il secondo teorema fondamentale della finanza, che risale al 1981. Deve comunque essere chiaro che non c’è una scelta alternativa alla probabilità. Se la probabilità non c’è, non c’è il prezzo.
Un’obiezione seria, sollevata da un relatore del convegno, è il fatto che la probabilità utilizzata nei mercati non è quella della statistica, ma viene distorta dall’avversione al rischio degli investitori. Un investitore avverso al rischio attribuirà una più elevata probabilità all’evento di perdita, ed è questa probabilità che determina il prezzo di ogni prodotto finanziario. È vero, ed è proprio questo il motivo per cui richiedo ai miei studenti le due vie di scalata alla probabilità. Ma anche questo alla fine, con una di quelle mosse da arti marziali che usa l’attacco dell’avversario contro lui stesso, va a favore della probabilità. Primo, la probabilità esiste, e non esiste prezzo senza probabilità. Secondo, se la probabilità è distorta dal mercato in modo da pesare di più eventi negativi, pare l’informazione ideale per una disciplina che dovrebbe tutelare la controparte più debole e meno informata di un contratto.
E proviamo ora ad attaccare la via di scalata dei giuristi, la più ardua per me. Innanzitutto uno sguardo all’ambiente. Nella mattinata del convegno si è delineato il quadro circostante, che porta naturalmente alla necessità di scalare la montagna. L’ecosistema del piccolo risparmiatore al dettaglio sta diventando meno ospitale, se mai lo sia stato nel passato del cosiddetto “parco buoi”. Il risparmio, che tradizionalmente viveva in tre “silos” separati, prodotti bancari, finanziari e assicurativi, si sta mischiando per divenire in un insieme di prodotti che hanno in comune la stessa caratteristica: il rischio. Da un lato, il risparmio bancario, che secondo l’art 11 del TUB (il testo unico bancario) gode del vantaggio dell’“obbligo di rimborso”, oggi si vede scaraventato nel mondo del rischio di insolvenza dalla nuova regolamentazione del “bail-in”. Dall’altro lato, l’innovazione di prodotto continua a mischiare elementi finanziari e attuariali nei tre silos, sollevando questioni, per l’economista e per il giurista, su quale sia la caratteristica principale di ciascun prodotto, e di come debba essere classificato.
Queste “crepe” e perdite nei silos, come li ha definiti un relatore, o questi “ponti” tra di loro, come ha preferito caratterizzarli un rappresentante dell’IVASS, l’autorità di regolamentazione delle assicurazioni, lasciano il risparmiatore solo di fronte al rischio. Non c’è più un articolo di legge dietro cui ripararsi, non c’è più una delimitazione tra titoli semplici e complessi, perché un titolo con rischio di credito è complesso per definizione. Resta solo una cosa in comune: il rischio, l’alea. La prima via dei giuristi alla montagna della probabilità è stata aperta. Si chiama “alea razionale”, ed è stata aperta da un professore di diritto privato dell’Università di Brescia, Daniele Maffeis. L’alea razionale è la conoscenza, che dovrebbe essere parte integrante del contratto, della probabilità di perdita e della severità della perdita. Se l’alea non è razionale, è cieca: un’esposizione a tutte le conseguenze dell’alea, senza nessuna quantificazione. Pare di capire che l’alea razionale corrisponda alla conoscenza della probabilità, quella che in economia chiamiamo “rischio”, mentre l’alea cieca corrisponde a quello che in economia si chiama “incertezza” (o “incertezza in senso di Knight”, per gli esperti del settore).
A di là della diatriba tra Keynes e Knight degli anni 20 del secolo scorso tra rischio e incertezza, è chiaro che la scelta tra alea razionale e cieca è tanto rilevante in quanto ci sia asimmetria informativa tra l’intermediario finanziario e il cliente. Se siamo disposti ad assumere che la banca abbia maggiore cultura finanziaria del cliente, allora più che Keynes e Knight rileva l’aforisma di Freak Antony, riscritto in termini giuridici: “se l’alea è cieca, la sfiga ci vede benissimo”. Se l’intermediario ha una nozione di “alea razionale” che il cliente non ha, potrà avvalersene per disegnare il contratto, riducendo i rischi a proprio carico e trasferendoli a carico del cliente. Sotto il profilo della scienza economica e della teoria dei contratti non paiono esserci quindi controindicazioni alla scelta dell’ “alea razionale”. E anche cinquanta anni di teoria delle decisioni aggiungono che i decisori sono avversi all’incertezza ancora più che al rischio, e cioè preferiscono scommesse per le quali conoscono la probabilità di vincere (lotterie non ambigue, è il termine tecnico).
Qual è quindi l’unica controindicazione, l’unico problema che si può immaginare in un mondo in cui nei contratti finanziari scriviamo la probabilità di perdita? Qual è il punto veramente impervio della via di ascesa giuridica al monte della probabilità? È il nostro sistema giudiziario. I nostri giudici non sono pronti a trattare di probabilità, e a prendere decisioni su un’affermazione di tipo probabilistico. Che succede se viene dichiarata una probabilità di perdita degna di un rating tripla A e la perdita di verifica? Il pericolo è che si ricorra al giudice. Potrà verificare il giudice che la probabilità sia stata valutata con la professionalità necessaria? Questo è il quesito che rimane, e che aleggia sull’alea.
In realtà abbiamo già oggi sotto gli occhi un esempio di come il nostro sistema giudiziario sia inadeguato a tutelare l’offerta di trasparenza, ed è la vicenda dei casi giudiziari che si sono sviluppati intorno all’iniziativa del consorzio di banche Pattichiari, sotto l’egida dell’ABI, a seguito del fallimento di Lehman. Per la trasparenza sulla trasparenza, devo riconoscere il mio conflitto di interessi sul tema, avendo io difeso il consorzio Pattichiari in molti di questi casi. Ma al di là dei conflitti di interesse, e dei pareri sul torto e la ragione delle parti, quello che interessa è che il sistema giudiziario ha dimostrato una capacità di dirimere una questione probabilità che non è distinguibile dal lancio di una moneta o di un dado. È la cosa che mi ha fatto scegliere di lasciare la consulenza sui casi giudiziari.
L’elemento che preoccupa di più è che la litigiosità si è indirizzata proprio sull’indicatore basato sulla probabilità. Senza entrare nel dettaglio, ricordiamo che il progetto Pattichiari era basato su due misure; il rating, che teneva in considerazione il rischio di credito, ed il Value-at-Risk, per il rischio di mercato. Gli investitori hanno perso soldi per l’evento di credito, il default di Lehman, e hanno intentato causa per il rischio di mercato criticando il Value-at-Risk. Chiedetevi perché. La risposta è che è più facile far decidere il giudice su qualche cosa che ha difficoltà a capire, e per giunta quello che ha difficoltà a capire in questo caso ha proprio a che fare con la probabilità. Non serve a molto il fatto che i giudici si facciano aiutare da consulenti tecnici, perché difficilmente riescono a convincere i giudici della differenza tra un evento certo e uno probabile, insomma sull’alea.
Di fronte a questo neo, questo segno meno, che comunque è comune alla società italiana tutta (il fatto che la giustizia non funziona), resta il fatto che l’“alea razionale”, introducendo più trasparenza e completezza nei contratti, renderebbe minori le cause di litigio giudiziario. Se un giorno si riuscisse davvero a limitare le liti temerarie, che infestano tutta la nostra attività giudiziaria, la scelta dell’alea razionale non avrebbe controindicazioni. E se esistesse una magistratura del risparmio, fatta di giudici in grado di scalare il monte della probabilità dalle vie da dove salgo io e da quelle aperte da Daniele Maffeis, il problema sarebbe risolto.
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