Finanza
La foresta pietrificata
Il problema delle nostre banche non risiede nella bassa patrimonializzazione (anche se vi sono evidenze storiche ed empiriche per questa) bensì nella bassa qualità dei propri attivi. Bassa qualità che significa bassa redditività e alto rischio, non adeguatamente incorporato nei valori a cui le diverse attività sono iscritte a bilancio.
Il primo, e più importante fattore di rischio è dato dalla massa di titoli di Stato in cui sono da sempre investiti i portafogli bancari ed in particolare dall’estate 2012, cioè da quando i tassi nominali interni hanno cominciato a scendere, per effetto della recessione e della politica monetaria della BCE. Pochi dicono che i titoli degli Stati dell’Eurozona (quindi anche i nostri, anzi, soprattutto i nostri) godono di un privilegio nelle scelte di portafoglio delle banche: sia Basilea 2 che Basilea 3 prevedono ponderazione zero per gli investimenti non di trading in titoli di Stato, indipendentemente dal rating creditizio dello Stato emittente, ai fini del calcolo del capitale da accantonare a fronte del rischio di credito assunto: in altre parole, prestare denaro allo Stato italiano non costa alcun capitale aggiuntivo alle banche italiane. Ciò non è vero per gli investimenti in obbligazioni bancarie, ad esempio: il fattore di ponderazione varia dal 20 al 100% e dipende dal rating esterno. Per di più, le banche italiane utilizzano impropriamente una regola contabile residuale, la quale consente di sterilizzare nel conto economico le eventuali minusvalenze registrate sulle posizioni assunte sui titoli di Stato (ciò incentiva, tra l’altro, l’acquisto di titoli a lunga scadenza, più sensibili alle variazioni dei tassi di interesse di mercato). Gli investimenti in titoli di Stato godono inoltre di un vantaggio impareggiabile sul fronte della gestione della liquidità, perché possono essere utilizzati come collateral nelle operazioni di anticipazione con la BCE senza penalizzazioni sul prezzo e considerati senz’altro come riserva primaria nel calcolo dell’indice di sopravvivenza a breve termine che le banche europee dovranno rispettare a partire dal prossimo 1°gennaio.
Tuttavia, qualunque investitore sa che il mercato finanziario non ritiene ugualmente rischioso acquistare obbligazioni emesse dalla Grecia o dall’Italia o dalla Germania (il famoso “spread”). Quindi è lecito chiedersi: fino a quando sarà accordato questo privilegio? La piccola cattiveria degli ideatori dello stress test “avverso” è indicativa: i regolatori bancari (certamente l’EBA e, forse, anche quelli della BCE) sono allineati alla tesi rigorista secondo cui anche uno Stato può fallire e quindi, se si vuole un sistema bancario solido, è necessario che le banche nazionali non assumano una quantità eccessiva di rischio nei confronti del Governo del proprio Paese. I regolatori e la Commissione Europea ricordano bene ciò che accadde nel 2010-2011 con le banche greche, i cui attivi erano largamente esposti nei confronti del proprio Governo, alla vigilia di una ristrutturazione assistita del debito pubblico nazionale. Come noto, il sistema bancario greco fu “salvato” con fondi comunitari, mentre la gran parte del debito ristrutturato venne trasferito alla banca centrale ellenica e quindi alla BCE. Ma quella era la Grecia: che accadrebbe con l’Italia?
Il secondo fattore di rischio risiede nell’economia reale ed in particolare nella situazione del mercato immobiliare domestico. I prezzi degli immobili sono troppo rigidi verso il basso e le rilevazioni ufficiali o le stime dei periti non riflettono il valore effettivo di trasferimento. Le banche italiane sono esposte sul mercato immobiliare sia direttamente (prestiti a immobiliaristi e costruttori) sia indiretto (ipoteche acquisite a fronte di prestiti non performing), ma l’entità del rischio non emerge pienamente nei loro bilanci. Per rendersene conto, basta considerare che gli acquisti pro soluto di non performing loan assistiti da garanzia reale immobiliare (esclusi i mutui alle famiglie, che in Italia sono invece performing) avvengono ad una media del 10-15% del valore nominale, contro un tasso medio di copertura delle sofferenze del 55%: la differenza sarebbe una perdita di capitale pari almeno al 30% (45-15) dello stock lordo di queste sofferenze, anche se assistite da ipoteca di primo grado. Naturalmente, questa differenza sconta l’assoluta mancanza di un sistema giudiziario efficiente, che agevoli la vendita immediata degli immobili di proprietà di debitori in default: ma il risultato è questo.
In conclusione: il “rischio Italia” grava in parte sul “rischio banca”: il primo è percepito più basso di quanto lo sarebbe se il secondo non fosse a sua volta percepito come relativamente elevato. Il vecchio sistema “banche-assicurazioni-Tesoro” è ancora operante. E, nonostante quello che ci piace dire, le regole e le prassi europee sono state finora piuttosto benigne (nel senso del “benign neglect” nei nostri confronti. Tutto ciò ha salvato il Paese dal default verso il quale era incamminato nel 2011 e nel 2012. Ma il prezzo da pagare è che gli investimenti esteri non affluiscono, soprattutto nelle banche e nelle assicurazioni, le quali non trovano quindi i capitali di cui necessitano per “ripulire” i propri attivi. E se questi attivi assomigliano ad una grande foresta pietrificata, non c’è modo di far finire il credit crunch.
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