Finanza
La Cassazione mette un paletto alla cessione di sofferenze
La Suprema Corte, con sentenza n. 9677-17 del 7/2/17 conferma un principio: i terzi titolari di diritti su beni confiscati ai mafiosi, possono ottenere la tutela dei loro diritti a due condizioni. La prima è che i diritti preesistessero al momento della confisca e la seconda che sia dimostrata la buona fede del terzo nel momento della nascita di quel diritto.
Il caso classico è un finanziamento bancario con relativa iscrizione ipotecaria su un immobile successivamente confiscato per reati connessi alle attività mafiose.
Che l’ipoteca sia stata iscritta prima del provvedimento di confisca è facile da dimostrare. Più complicato dimostrare la buona fede della banca.
Proviamo a fare un passo indietro. La tutela dei diritti dei terzi di buona fede sui beni sottoposti a misure di prevenzione antimafia rappresenta un’ottima opportunità per individuare il punto di equilibrio che l’ordinamento ha inteso stabilire tra l’interesse pubblicistico alla repressione delle fattispecie criminali e l’esigenza di tutelare le situazioni giuridiche di soggetti estranei al reato.
La protezione del primo interesse richiederebbe un procedimento di cancellazione dei diritti e delle garanzie relative a tali beni, al fine di sottrarli alla disponibilità di chi li utilizza nell’attività illecita. Tale finalità è altresì ispirata al più ambizioso obiettivo di destinare i suddetti beni al servizio della collettività, inserendoli nel circuito virtuoso della funzionalizzazione ad interessi pubblici, operazione che rileva dal punto di vista economico, simbolico e culturale.
La fattispecie in esame è stata oggetto di attività di studio e regolamentazione ormai già da diversi anni. Nel recente passato ci si è chiesti se, per effetto della confisca, si determini l’automatica estinzione dei diritti dei terzi in questione. A favore dell’estinzione dei diritti dei terzi per effetto della confisca si era espresso un orientamento risalente, sulla base dei seguenti argomenti. Si sottolineava, anzitutto, la natura originaria dell’acquisto per confisca, desunta dalla circostanza che esso si realizza ope legis indipendentemente dalla volontà del precedente titolare. In secondo luogo, si osservava che gli interessi sottesi alla normativa antimafia hanno un rilievo tale da precludere, nella materia in questione, l’ingresso alle regole e alle categorie proprie del diritto civile; la confisca in esame andrebbe pertanto considerata una “sorta di espropriazione per pubblico interesse”, corrispondente ad una generale finalità di prevenzione penale, che consentirebbe persino l’ablazione, senza alcun ristoro, degli eventuali diritti dei terzi sui beni confiscati.
Tutti gli argomenti addotti al fine di giustificare il sacrificio dei diritti dei terzi sono stati sottoposti ad analisi critiche. Ad oggi, infatti, si è esclusa la natura originaria dell’acquisto per confisca. E ciò sulla base della considerazione che quest’ultimo non prescinde dal rapporto già esistente tra quel bene ed il precedente titolare, ma anzi un tale rapporto presuppone ed è volto a far venir meno per ragioni di prevenzione o di politica criminale, con l’attuare il trasferimento del diritto dal privato allo Stato.
Non ha convinto, inoltre, l’idea che il prevalente interesse pubblico alla confisca abbia come necessario corollario il sacrificio dei diritti dei terzi.
Infatti, la funzione della confisca non è costituita dall’acquisizione del bene al patrimonio dello Stato, con il sacrificio dei diritti dei terzi, ma è identificabile, invece, nell’esigenza, tipicamente preventiva, di interrompere la relazione del bene stesso con l’autore del reato e di sottrarlo alla disponibilità di quest’ultimo.
Né, del resto, l’esigenza di tutela dell’interesse pubblico sottesa alle misure di prevenzione potrebbe giustificare la soppressione dei diritti dei terzi di buona fede, la cui posizione è da ritenere protetta dal principio dell’affidamento incolpevole, che permea di sé ogni ambito dell’ordinamento giuridico.
Come rileva dalle predette considerazioni, uno degli aspetti più significativi della fattispecie de qua è il principio di buona fede, ancora oggi al centro della pronuncia di legittimità di cui in oggetto.
Afferma la Corte, infatti, che “ai terzi fa carico l’onere della prova […] relativamente alla mancanza di collegamento del proprio diritto con l’altrui condotta delittuosa o, nell’ipotesi in cui un simile nesso sia invece configurabile, all’affidamento incolpevole ingenerato da una situazione di apparenza che rendeva scusabile l’ignoranza o il difetto di diligenza”.
L’argomento, per le banche, è complicato dalla circostanza che sia per “regole” che per “mestiere” sono tenute a conoscere approfonditamente la vicenda del destinatario del finanziamento al di là della “situazione di apparenza creata dal reo e dai terzi intestatari dei beni, situazione di apparenza che non poteva essere superata con l’ordinaria diligenza e che quindi ne giustifica l’ignoranza”.
Non dimostra la buona fede, sostiene la Corte, “l’avvenuto rispetto della procedura interna per la concessione di finanziamenti”.
Motivazione giudicata “contraddittoria ed illogica perché attribuisce al positivo espletamento della procedura interna il significato di affermare l’esistenza della buona fede in capo all’istituto finanziario”.
Secondo la Cassazione “la motivazione deve piuttosto indagare, al fine di riconoscere la buona fede, il contenuto dell’istruttoria svolta dall’istituto finanziario che ha erogato il finanziamento con particolare riferimento ad una seria, approfondita ed autonoma ricostruzione (anche mediante l’intervento di organi tecnici esterni alla filiale ovvero anche a livello di audit) delle caratteristiche soggettive e patrimoniali dei soggetti coinvolti”.
Dunque se ne può identificare il contenuto nella mancanza di qualsiasi collegamento del proprio diritto con l’attività illecita del preposto, indiziato di mafia, derivante da condotte di agevolazione o di fiancheggiamento, ma non basta.
Sulla base di tali premesse la Corte pare statuire che le banche, per dare prova della loro buona fede, debbano dimostrare che, dalle indagini effettuate in sede di istruttoria per la concessione del prestito, non sia possibile desumere che i richiedenti fossero affiliati ad associazioni criminali.
Applicando tali principi la Cassazione esclude che, nella fattispecie, si possa invocare lo stato soggettivo di buona fede giacché operatori bancari, particolarmente fiscali ed attentissimi nella elargizione di prestiti, scoperture bancarie e mutui ipotecari, operando secondo abituali prassi creditizie, avrebbero dovuto accertare senza difficoltà le qualità sociali ed economiche di clienti tanto particolari.
Dopo aver fornito dettagliate indicazioni su quali elementi debbano essere indagati dal giudice di merito per decidere sulla buona fede del terzo, conclude: “l’attività dell’istituto deve anche avere ad oggetto la verifica dello scopo e della finalità del negozio giuridico, con riferimento all’effettività e concreta operatività dei soggetti economicamente coinvolti […] allo scopo di adempiere ai doveri propri dell’intermediario finanziario con riguardo, tra l’altro, alla normativa antiriciclaggio”.
Nella sua pragmatica chiarezza, la decisione in esame è gravida di conseguenze sia per le banche erogatrici che per i cessionari dei relativi crediti, tanto più che, come ormai è evidente dalla cronaca, le attività criminali suscettibili dei provvedimenti di confisca penale non sono limitate, come accadeva in passato, a territori ben individuati e ristretti, ma sono presenti in tutto il Paese.
Il richiamo finale alla normativa antiriciclaggio è da tenere in particolare considerazione per le conseguenze che possono colpire direttamente le banche. Ne deriverebbe che se non si riuscisse a dimostrare la buona fede, c’è il rischio di vedersi ascrivere reati connessi alla normativa antiriciclaggio. L’alternativa alla buona fede è la mala fede, o, come minimo, la colpevolezza nel non avere applicato norme imperative. Insomma credo che questa sentenza sia ben più rilevante del caso concreto su cui decide.
Altro aspetto significativo: se è molto probabile che una banca, seguendo le “istruzioni” del S.C. possa dimostrare la buona fede (e per farlo deve avere tutte “le carte a posto”, ma anche dimostrare di essersi fatta tutte le corrette domande tecniche che la sentenza enuncia con precisione da manuale di tecnica bancaria), molto meno probabile è che questo riesca a farlo il creditore, succeduto nella titolarità del diritto che si vuole tutelare dalla applicazione della confisca, a seguito di cessione del credito.
Come è noto i crediti bancari sono ormai diventati oggetto di un mercato dove si compravendono alla stregua di qualunque merce, specie se in sofferenza. Un credito ipotecario in sofferenza è normalmente oggetto di procedura esecutiva che può essere interrotta, se non impedita sin dall’origine, dal provvedimento di confisca.
Come potrà il cessionario tutelare il suo diritto di creditore ipotecario di fronte al ricorso proposto dalla Agenzia nazionale per l’Amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata? Dovrà dimostrare la buona fede, ma non la propria, in sede di acquisto del credito, bensì quella della banca cedente in sede di erogazione.
Ebbene devo ritenere che questa prova sia ben difficile da sostenere.
Nella cessione di crediti non è previsto che il cessionario acquisisca la documentazione utilizzata al momento della concessione del credito, anche perché ben difficilmente la banca cedente vorrà “scoprire le sue carte” rischiando di sentirsi contestare dal cessionario errori di valutazione o di procedura. Nella cessione pro soluto, il cedente garantisce l’esistenza del credito e non altro. Impensabile e controproducente fare diversamente nell’economia delle operazioni di cessioni massive pro soluto nelle quali è evidente l’intenzione del cedente di liberarsi dalle problematiche connesse al credito ceduto.
Né d’altra parte c’è un interesse diretto del cedente a fronteggiare le pretese dell’“Agenzia per i beni confiscati” non avendo più la titolarità del credito per il quale ha già incassato il prezzo di cessione; suo unico fine.
Non solo, ma non si vede perché il cedente debba esporsi a censure anche gravi (v. norme antiriciclaggio disattese) in un procedimento pur complesso per la dimostrazione della sua buona fede, specie se i fatti da dimostrare sono risalenti.
È quindi molto probabile che il cessionario si trovi in estrema difficoltà. Se sarà stato accorto avrà previsto una clausola di revisione del prezzo nei casi in cui un credito valutato come ipotecario si ritrovi successivamente privo delle garanzie. C’è però da aspettarsi che il cedente si opponga alla revisione del prezzo, sostenendo che il provvedimento di confisca è successivo alla cessione, ma è anche revocabile sulla base di elementi e procedure che dovranno essere fatti valere, i primi, e coltivate, le seconde, legittimamente solo dal titolare del credito ceduto e quindi dal cessionario.
È evidente la complessità da affrontare che in ogni caso può comportare concrete difficoltà nelle valutazioni ai fini della determinazione del prezzo di cessione così tanto condizionato da fattori di incertezza.
Probabilmente, l’unica via d’uscita è data dal diritto, contrattualmente previsto in contratto, di retrocedere dal cessionario al cedente il credito affetto dalla confisca del bene ipotecato con ripetizione del prezzo.
È l’unica soluzione consigliabile che i cessionari farebbero bene a prevedere per difendersi anche nei casi in cui sussistano, sia pur solo sospetti, che il credito acquisito possa essere affetto da problematiche usuraie risalenti alla fase in bonis del credito poi classificato a sofferenza e ceduto.
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