Finanza
Imparare dal crac: ancora una volta il pacco lo vende la “tua” filiale
Luogo di democratici sudori e disagi egualitari, la montagna tende naturalmente all’interclassismo, e poco contano i propri natali e il proprio reddito di fronte ai limiti di sentieri e pareti sui quali l’invito a «cedere lo passo» suona malissimo. Se i sentieri in questione son quelli delle Dolomiti ampezzane, diventa altissima la probabilità che la classe media in gita possa imbattersi nella crème della finanza italiana in soggiorno a Cortina, com’è capitato l’estate scorsa a mio padre e ai suoi compagni di passeggiata.
«Tutti bancari?», chiede l’affabile escursionista al gruppetto di 60-70enni incrociati sotto la Croda Rossa. «No, io sono chimico, niente banche», al che l’attenzione di Maurizio Sella, patron della banca omonima e già presidente ABI, si volge ad A., pensionato di Banca Marche: «Ah, Banca Marche…ci costerà un miliardo, Banca Marche». In quell’istante i sorrisi si spengono e, dopo un rapido scambio di convenevoli, il dottor Sella, atteso per un dinner a Cortina, si allontana di buon passo, lasciando A. a meditare.
In quei giorni, il bubbone di Banca Marche, Banca Etruria, Carife e Carichieti era prossimo a scoppiare, ma non tutti, nemmeno tra i dipendenti ed ex dipendenti, sembravano consapevoli della situazione. Ora che il governo è intervenuto e mentre la canea si divide tra le richieste di dimissioni della ministra Boschi e la demonizzazione delle «banche assassine» in sé, varrebbe la pena di riflettere sulle lezioni che abbiamo subito in questi giorni.
La prima lezione è relativa alle competenze economiche degli Italiani. E’ stato ricordato come nel nostro paese e nel resto dell’Europa meridionale – il grosso dei cosiddetti PIIGS, sempre noi – l’alfabetizzazione finanziaria sia molto scarsa, se confrontata a quella di Nord Europa, UK e USA. Che in quei paesi il cittadino medio abbia una maggiore consuetudine con le cifre, cioè con la matematica (finanziaria e non) spiega soltanto in parte la differenza, e la dimestichezza anglosassone coi “prodotti finanziari” di ogni tipo è evidentemente dettata da ragioni molto pratiche.
Che si tratti di economie e società tradizionalmente liberiste (USA) o storicamente globalizzate prima della globalizzazione (Paesi Bassi) o apertesi rapidamente ai mercati finanziari con la crisi del Welfare State (Svezia, Germania), in tutti quesi paesi i cittadini hanno fatto di necessità virtù: se l’urgenza di integrare una pensione costringe a districarsi nella selva dei fondi, se già prima della maggiore età un ragazzo spesso si deve confrontare con la realtà di un sostanzioso debito legato ai propri studi universitari, risulta evidente che masticare quella materia diventa un fatto di sopravvivenza, tanto che, ad esempio, in UK le competenze finanziarie di base sono entrate nei programmi scolastici.
Forse, prima di introdurre i giovanissimi allo studio della pseudoscienza delle finanze, si potrebbe far loro conoscere un po’ di scienza propriamente detta, ma è vero che al livello in cui ci troviamo, una minima infarinatura di economia e sistemi finanziari, oltre che a rendere più sicura la gestione dei propri risparmi a quei fortunati che riescono a metter via qualcosa alla fine del mese, servirebbe a far comprendere meglio il mondo in cui viviamo a tutti, e quindi ad aumentare la consapevolezza democratica media, all’insegna del motto einaudiano «conoscere per deliberare».
Ciò detto, dovremmo anche chiederci se sia davvero stato il nostro analfabetismo finanziario ad aver reso inermi i risparmiatori che hanno perso i risparmi di una vita nei crac di Banca Etruria e delle altre. In altri termini: davvero occorre un PhD in Money and Finance per capire che quando ti si propone un investimento che rende il doppio di un BOT, l’idea di buttarci ogni singolo centesimo risparmiato in una vita di lavoro è semplicemente folle? «Ma mica abbiamo giocato in borsa!» è l’obiezione più comune di chi ha perso tutto.
In effetti lo schema sembra ancora quello tradizionale di un risparmio e di un investimento ancorati alla concretezza, al territorio che si abita, alle facce conosciute: la casa di proprietà e il conto nella cassa di risparmio sotto casa, dove a proporci l’affare è magari figlio del Bepi, nipote di Nani e insomma “uno dei nostri”. Ed ecco la seconda lezione, forse la più dura da accettare, in un momento di grande – e spesso giustificata – paura di tutto ciò che sta fuori dal proprio piccolo mondo: neppure dentro a quel mondo siamo davvero al sicuro.
Non basta più guardarsi dal piccolo promotore finanziario pirata, dal mariuolo di paese che sparisce dalla circolazione dopo aver bruciato i risparmi di parenti, amici e conoscenti, né dalla multinazionale finanziaria «senza radici e senza volto»: occorre guardarsi dalla stessa piccola banca locale, prodotto secolare dell’ambiente in cui si è cresciuti e in cui si è lavorato, dalla banca che «parla la tua stessa lingua», da quella che «ti assomiglia». Non è la prima volta, non è il primo crac di questo tipo, certo, ma stavolta, fragili come siamo, l’effetto psicologico sembra più profondo. Vedremo. L’idea di somigliare a certe banche è difficile da accettare, e ancora più difficile è cominciare a porci seriamente qualche domanda su di esse – e su di noi.
Immagine di copertina: https://www.flickr.com/photos/teegardin/
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