Finanza
Giubileo bancario: aiutare i debitori in difficoltà senza svendere gli Npl
(*) «Se qualcuno ha un debito per un prestito e una tempesta danneggia i cereali o il raccolto finisce o i cereali non crescono per carenza di acqua; in quell’anno non ha bisogno di dare al creditore alcuna quantità di cereali. Egli (il debitore) lava nell’acqua la tavola in cui è segnato il debito e non paga alcuna rendita per tale anno». Troviamo questa citazione della Legge 48 del Codice di Hammurabi (1792-1750 a.C.) , in un bel documento di S. Alvano e G. Siciliano nei Quaderni giuridici della Consob (“Crisi sistemiche e regolamentazione finanziaria”, luglio 2016).
Cita Hammurabi anche Fabrizio Saccomanni nella prefazione al libro di Sergio Romano “Guerre, debiti e democrazia” (Laterza, 2017) ricordando che il re di Babilonia, nei suoi quaranta anni di regno, per ben quattro volte aveva disposto la cancellazione generale dei debiti.
Qual era la logica di Hammurabi? Se qualcuno ha prestato all’agricoltore il capitale per coltivare la terra (semi, strumenti di lavoro ecc.) e si aspetta di essere ripagato con i cereali prodotti, non può pensare di non correre il rischio delle avversità naturali che, così come distruggono il frutto del lavoro dell’agricoltore, impediscono a quest’ultimo di pagare il debito. È la logica della condivisione del rischio. Saggiamente Hammurabi cancella il debito poiché quel che conta è che l’agricoltore possa ricominciare a lavorare per il prossimo raccolto. Mantenere in vita il debito sarebbe stato socialmente ed economicamente controproducente.
Il tema del debito (bancario in questo caso) è oggi estremamente rilevante in tutto l’occidente e in particolare in Italia, colpita da quasi dieci anni di crisi economica. Sappiamo che la crisi del 2007/2008 è nata con l’esplosione della bolla immobiliare americana ma si è estesa a tutti i paesi “ricchi” grazie alla inestricabile interconnessione dei sistemi finanziari. La bolla era alimentata dalla abbondanza di credito bancario che aveva indotto le banche a finanziare l’acquisto di immobili anche a chi, in tempi precedenti, non sarebbe stato considerato meritevole. La disponibilità di credito favoriva la domanda di immobili, la crescita della domanda ne faceva salire i prezzi, le banche continuavano a finanziare altri acquirenti attirati dal trend in crescita del valore degli immobili, la bolla cresceva a dismisura.
La grande “generosità” delle banche a sua volta era favorita dal diffondersi delle operazioni di cartolarizzazione, cioè di cessione a società veicolo dei crediti erogati e quindi dei relativi rischi. Era l’orgia del cd “originate and distribute”: cioè la banca eroga il credito (quindi compra il debito del cliente) e se ne sbarazza subito vendendolo ad una società veicolo la quale paga il prezzo d’acquisto emettendo obbligazioni che vengono sottoscritte da fondi liquidi alimentati da risparmiatori allettati da alti rendimenti.
Fin qui tutto bene. Le cartolarizzazioni sono un modo intelligente di aumentare la capacità delle banche di erogare credito oltre i limiti dei capitali disponibili.
Le cose si complicano quando i fondi detentori di queste obbligazioni, nell’intento di trasferire altrove il rischio assunto, a loro volta li impacchettano in titoli complessi o in derivati (strumenti di copertura molto sofisticati) che vengono rivenduti sui mercati finanziari.
Il problema è che il cerchio si chiude un’altra volta con le banche che comprano i titoli emessi dai fondi e quindi ritornano a riprendersi il rischio che avevano ceduto al mercato con le cartolarizzazioni. Quando la bolla scoppia, perché i famosi mutui subprime cominciano ad andare in default, il panico si diffonde, gli istituti più esposti saltano (Lehman Brothers, Ben Stearn ecc.) ed il credit boom si trasforma in credit crunch.
Il pessimismo, se non la paura, del banchiere, si trasferisce così dalla finanza all’economia reale che si vede sottrarre l’ossigeno del credito bancario: le imprese falliscono, la disoccupazione aumenta, i debiti verso le banche diventano insostenibili anche per chi non aveva fatto speculazioni, arriva la deflazione, diminuisce il gettito fiscale, aumenta il debito pubblico e quindi il “rischio paese” che fa dilatare il famoso spread, imponendo politiche di austerità che a loro volta fanno fallire altre aziende, creano nuovi disoccupati, fanno crescere le sofferenze bancarie, mettono in crisi le banche che, a causa delle perdite di bilancio, debbono ricapitalizzarsi, quando non falliscono, mettendo a rischio i depositi dei clienti e comunque riducendo in modo drammatico il valore delle azioni in mano ai risparmiatori.
Questa descrizione del fenomeno è molto semplificata, ma ci fa capire perché il nostro Paese è afflitto da una situazione critica del sistema bancario su cui pesano 350 miliardi di crediti deteriorati su circa 1.600 miliardi di prestiti. Dei 350 miliardi di crediti deteriorati, circa 200 sono classificati a sofferenza, cioè crediti in gran parte non recuperabili. Le banche italiane hanno già stanziato più di 120 miliardi di perdite presunte su questi crediti, perdite che hanno eroso il valore delle loro azioni in mano ai risparmiatori che quindi stanno pagando il peso maggiore della crisi insieme agli imprenditori falliti e ai disoccupati. Già questo scenario è di per sé grave. Sappiamo che questa situazione ha portato allo stremo almeno sette tra le nostre banche più importanti, tanto che adesso lo Stato, e quindi tutti i cittadini, deve intervenire per evitare il peggio.
Ma il dramma non finisce qui. Il peso delle sofferenze, impedisce a tutte le banche di tornare a finanziare efficacemente l’economia il che è uno dei fattori (non l’unico) che impedisce la ripresa. Ecco allora che dopo la “neutralizzazione” di Atlante (che era un ‘ottima idea se qualcuno non avesse deciso di non farla funzionare) le banche sembrano avere una sola scelta: vendere le sofferenze ai fondi speculativi.
Questa soluzione costa cara. I fondi pagano le sofferenze tra il 10 e il 20% del valore nominale del credito, mentre le banche le hanno sui bilanci a valori compresi tra il 40 e il 50%. La perdita che ne conseguirebbe, da 40 a 60 miliardi), è insostenibile.
Bisogna trovare un’altra strada. E il “Giubileo delle banche” sembra quella meno dannosa. Bisogna prendere atto che la crisi colpisce tutti e tutti debbono dare il loro contributo. Ma contemporaneamente bisogna rimettere le banche in carreggiata e il maggior numero di imprese nella condizione di tornare a produrre. Per non parlare della necessità di consentire contemporaneamente al maggior numero di cittadini possibile di uscire dall’angoscia delle esecuzioni immobiliari. La questione riguarda circa 10 milioni di persone.
Ripartendo dalla Legge 48 di Hammurabi, bisognerebbe indurre le banche ad accettare che i debitori possano definire il loro debito a un valore non inferiore al prezzo offerto dai fondi. Le regole del Giubileo dovranno prevedere che più il pagamento del debitore si avvicina al valore netto di bilancio, maggiori saranno i benefici per il debitore.
Non si tratta di un’operazione semplice e non risolverà tutti i problemi anche perché, trattandosi di un intervento straordinario e non ripetibile, dovrà essere fatto “a vecchio”, cioè ne potranno beneficiare solo i debitori dichiarati in sofferenza con l’ultimo bilancio approvato dalle banche per evitare comportamenti opportunistici sia delle banche sia dei debitori.
Alcuni benefici del Giubileo bancario:
- le banche registrerebbero perdite ben inferiori a quelle conseguenti alle vendite ai fondi;
- le banche si libererebbero delle sofferenze senza dover ricorrere ad improbabili aumenti di capitale estremamente dolorosi per i loro attuali azionisti;
- non correremmo il rischio di cedere, per pochi spiccioli, ad investitori esteri la governance del nostro sistema bancario che deve restare organico agli interessi del Paese;
- le banche potrebbero tornare a far credito in modo efficiente;
- decine di migliaia di famiglie potrebbero tornare alla serenità avendo a disposizione, in prospettiva, nuovo reddito spendibile per sostenere la domanda interna;
- migliaia di imprese potrebbero tornare a produrre inducendo gli imprenditori che ci credono a capitalizzarle adeguatamente;
- non meno rilevante, eviteremmo che le perdite delle banche si trasformino in guadagni di fondi speculativi esteri i cui proventi, spesso, non costituiscono fonte di gettito per l’Erario italiano;
- i tribunali verrebbero alleggeriti di centinaia di migliaia di procedure giudiziarie lente e costose;
- il nostro patrimonio immobiliare non continuerebbe a perdere valore a causa della spropositata offerta di vendite all’asta.
Non ci nascondiamo le tante difficoltà di una operazione di questo tipo che, peraltro, potrebbe essere avviata dalle banche in modo autonomo e autoregolamentato. Riteniamo tuttavia che alcune regole ed alcune formule incentivanti, sia per le banche che per i debitori, non possano che essere varate dal Legislatore che deve aiutare a “voltare pagina”.
Sotto altra prospettiva, potrebbe ipotizzarsi la costituzione di una grande “bad bank”, con capitale sottoscritto pariteticamente dal Ministero dell’Economia e dal sistema bancario (in conformità o in deroga all’ordinamento comunitario) che possa acquisire al valore contabile l’intero “monte sofferenze” del sistema al 31 dicembre 2016 (circa 80 miliardi di euro), in tal modo prevenendo l’emersione di ulteriori e consistenti perdite derivanti dalla cessione degli NPL ai prezzi imposti dai fondi internazionali, che sono certamente espropriativi.
Puliti i bilanci, le banche non incontrerebbero più i limiti che le autorità di controllo impongono in tali fattispecie, potendo riaprire ”i rubinetti” del credito in maniera consistente. Inoltre, per le partite di maggiore consistenza, potrebbe altresì ipotizzarsi la possibilità di retrocessione di una parte dei plusvalori ricavabili nel lungo periodo dall’attività di recupero, ferma restando per contro l’estraneità delle cedenti a qualunque effetto di perdita.
*articolo a quattro mani di Dino Crivellari e Roberto Tieghi
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