Finanza
La fusione che salva la pelle del Banco e le poltrone dei banchieri
L’aggregazione fra Banca Popolare di Milano e il Banco Popolare, da cui nascerà il terzo gruppo bancario italiano per dimensioni dell’attivo (ex aequo con il Monte dei Paschi di Siena, occorre precisare per non far torto ai toscani), ha ricevuto ieri il primo importante via libera formale da parte dei cda delle due banche. E i pronti complimenti via Twitter del ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, che mai come questa volta aveva ragione di esultare, visto che il buon esito di questa operazione gli evita un problema altrimenti sicuro, e gli permette di festeggiare, insieme con il premier Matteo Renzi, l’avvio effettivo della riforma delle banche popolari.
Il matrimonio bancario sull’asse Milano-Verona si farà però a una condizione, che si aggiunge a quelle usuali in queste circostanze, quali l’autorizzazione Bce (che ancora manca) e i passaggi societari (non semplici sul versante della Bpm). Il Banco Popolare dovrà, cioè, arrivare all’altare con una dote patrimoniale aggiuntiva di un miliardo di euro. Un aumento di capitale significativo ma inferiore al previsto. Ripetutamente negata dagli interessati fino a sabato scorso, la ricapitalizzazione è stata imposta dalla Bce per tamponare, almeno in parte, le perdite implicite sui crediti in sofferenza (sono 14 miliardi cioè più del doppio del patrimonio netto dell’istituto veronese). Nessun allarme, però, al riguardo: sul tavolo ci sono già le garanzie di integrale sottoscrizione fornite dagli advisor Mediobanca e Merrill Lynch, un’accoppiata che nel 2007 fu advisor di un’operazione più complessa, l’acquisizione di Antonveneta da parte di Mps, riuscendo a garantire una ricapitalizzazione cinque volte maggiore. Dunque non c’è alcuna ragione di temere per il successo dell’aumento, tanto più che la richiesta di mezzi freschi servirà a dare un posto di rilievo nell’azionariato a soggetti come la Fondazione Cariverona, utili per stabilizzare sotto l’Arena il baricentro del nuovo gruppo, che parte con una capitalizzazione aggregata di 5,5 miliardi (al 22 marzo).
In questa vicenda, del resto, una buona dose di fortuna ha assistito i protagonisti, compensando il pressappochismo con cui è stata gestita la prima fusione bancaria nell’era della Vigilanza europea. Tra giovedì e venerdì scorso, infatti, quando l’aggregazione sembrava finita in vicolo cieco, Padoan fu avvertito da un’anima pia della Vigilanza: la goffaggine dei protagonisti dell’operazione aveva spinto le cose a punto tale che problemi fin lì rimasti in sordina (i crediti marci del Banco) erano ormai sotto gli occhi di tutti. Tirarsi indietro rinunciando alla fusione avrebbe significato generato un rischio sistemico per l’Italia, di cui il Banco sarebbe stato il nuovo epicentro. Così Padoan, che è già alle prese con Mps e con le quattro banche fallite senza essere riuscito a concludere granché, ha avuto un soprassalto di attivismo.
Il resto lo ha fatto soprattutto la maestria da banchiere d’affari di Alberto Nagel, l’amministratore delegato di Mediobanca che di queste nozze bancarie non solo è il regista ma ne aveva già scritto la sceneggiatura almeno da almeno un paio d’anni fa, brigando affinché Giuseppe Castagna fosse nominato consigliere delegato della Bpm. Dosando promesse e pressioni – vecchia strategia che si conferma vincente – Nagel è riuscito a sensibilizzare alla causa anche Palazzo Chigi, che certo ha il suo interesse a far bella figura alla riforma delle Popolari.
Quando tutto sembrava ormai perduto, lo storytelling della riforma delle Popolari che rischia di bloccarsi alla prima prova è stata, oggettivamente, una trovata abile, degna di un Filippo Sensi, il portavoce-social-media-manager di Renzi. Ma il lavoro vero, sul campo delle gelosie e degli appetiti locali, ha dovuto farlo Lorenzo Guerini, uno vaccinato alle situazioni bancarie al cardiopalma. Il vicesegretario del Pd era sindaco neo-eletto della ridente città di Lodi quando nell’aprile 2005 il capo della locale banca popolare, tal Fiorani, cominciò a far faville tentando di scalare il cielo, prima di precipitare con tutta la banca al seguito. Banca che più tardi, in un altro giro di valzer, sarebbe finita fra le braccia di quello che oggi si chiama Banco Popolare, e allora era solo la Popolare di Verona e Novara, ma il suo presidente era sempre Carlo Fratta Pasini, uno che è abituato a perdere le battaglie dei bilanci ma a vincere la guerra della poltrona.
La morsa a tenaglia condotta da Nagel a Verona come Milano è servita dunque a far cedere i consiglieri riottosi, ma anche, e forse sarebbe da dire soprattutto, i loro advisor, se è vero che sempre giovedì scorso Carlo Salvatori, capo di Lazard Italia, consulente della Bpm, aveva lasciato intendere che l’unico modo per quadrarla era procedere con una scissione del Banco, convolando a nozze solo con la parte buona: un modo elegante per dire che non c’era modo di procedere, traendosi così dall’impaccio. Ma il comunicato di Padoan di venerdì scorso ha fatto il miracolo. L’operazione ormai moribonda è stata resuscitata, lo stallo è stato ribaltato in un successo: per molti, ma non per tutti.
In primo luogo, è un successo per Nagel, che così consacra la sua fama di banchiere degli affari impossibili, un po’ come san Giuda Taddeo per i casi disperati. E questo per un banchiere d’investimento è praticamente tutto.
Il secondo e non meno rilevante lo porta a casa Fratta Pasini, su cui vale la pena di spendere qualche parola in più, visto che solo sei mesi fa era al punto più basso della sua carriera, bastonato da tutti i lati, pure dal Governo, che aveva cancellato con tratto di penna le banche popolari, mentre il Banco seguiva sempre mestamente Mps nella lista dei convalescenti cronici del sistema bancario italiano. Adesso, invece, Fratta salva la cucuzza e tutto il cucuzzaro. Sarà presidente della terza banca italiana per numero di sportelli, ammesso che oggi avere 2.500 sportelli implichi qualcosa, ma certo è un fatto notevole l’aggregato Bpm-Banco sarà primo in alcune delle aree più ricche dell’Italia, mentre l’ennesimo aumento di capitale del Banco passi in cavalleria come nulla. Un risultato davvero ragguardevole per uno che dal 2007, ha inanellato una discreta serie di passi falsi, a cominciare da Banca Italease, costati un occhio della testa ai suoi soci-azionisti. C’era un momento in cui a Verona Fratta non poteva nemmeno girare per strada, mentre il titolo crollava e i bilanci sanguinavano. Ma hanno fatto prima i soci locali a dimenticarsi delle perdite subite, che lui a lasciare la poltrona: segno rivelatore del fatto che a Verona ci sono valori più importanti degli schei.
Fra i vincitori dell’operazione ci sono poi i professionisti dei consigli di amministrazione: per i primi tre anni ci saranno 19 poltrone a disposizione, più quelle del collegio sindacale. Quattro in più del tetto posto dalla Bce, a cui vanno aggiunti i posti nel cda della futura controllata Bpm spa, spuntata a sorpresa dopo che essere stata data per morte. Dopo la fusione si procederà infatti a uno scorporo di tutte le attività sul territorio delle province storiche della Bpm per conferirle in una società che manterrà il vecchio nome, ma tutto questo durerà solo tre anni. Insomma, un trambusto senza alcuna logica se non quella di creare poltrone e strappare consensi nell’immediato.
Salva la pelle anche Pierluigi Saviotti, amministratore delegato del Banco, che verrà confermato a capo del comitato esecutivo, anche se non è chiaro per quali meriti sul campo. La fusione tra Bpm-Banco, ha detto questa mattina «mi consente di chiudere la mia carriera professionale con un risultato positivo unico, la nascita della terza banca italiana»: di fatto l’unico verso successo che può vantare da quando è arrivato a Verona nel 2008, non essendo mai riuscito a invertire la rotta, nonostante il tempo e gli svariati miliardi investiti (dai soci). Il ritorno all’utile nel 2015, dopo diversi bilanci in rosso, non bastava infatti a mettere in sicurezza il gruppo.
Tra i vincenti di questa operazione, c’è ovviamente il banchiere Castagna, che così potrà coronare un’ambizione personale perseguita con determinazione, anche a costo di trascinare i soci della Popolare di Milano in un’avventura piuttosto pericolosa. Se non fosse stato per la fermezza della Bce che ha fatto emergere i problemi del Banco, questi ultimi si sarebbero trovati a patire le sofferenze dei veronesi, senza sapere come e perché. La domanda a cui manca ancora una risposta è: nell’interesse di chi è stato condotto il negoziato, prima che da Francoforte arrivasse uno stop alla prima versione dell’aggregazione?
Per chi osserva da Milano, non è detto peraltro che tutti i pericoli siano stati evitati. Il miliardo in più è stato di fatto ricompreso nell’aggiustamento dei rapporti di partecipazione nella nuova entità post-fusione, che prima erano dati alla pari e ora invece sono 54% per gli azionisti del Banco e 46% per quelli della Popolare. Alle nozze la Bpm arriverà peraltro con un surplus di capitale di circa 700 milioni, mentre il Banco, anche considerando il patrimonio aggiuntivo portato dote, rimane comunque indietro nella copertura dei propri rischi su credito, e quand’anche le coperture fossero allineate bisognerà poi vedere quanto il Banco riuscirà a recuperare in concreto cedendo le partite in sofferenza. A quel punto toccherà vendere anche qualche pezzo di argenteria, e parte di questo onere ricadrà anche sulla parte milanese. Il tutto per arrivare a obiettivi che sono imposti dalla situazione specifica della parte veronese. Certo, nel complesso le due banche stimano una «creazione di valore stimata in circa euro 1,9 miliardi, al netto degli oneri di integrazione» (che vuol dire 365 milioni annui a regime, di cui 290 milioni da costi). Ma fra gli obiettivi messi su carta e quelli raggiunti nella realtà, si sa, a volte c’è un abisso.
Chi esce infine perdente è il presidente del consiglio di sorveglianza della Bpm Piero Giarda, che fin qui aveva alimentato il dissenso, esprimendo la sua contrarietà all’operazione nel corso di svariati incontri privati con i rappresentanti dei dipendenti. Ieri invece, insieme con la maggioranza del consiglio di sorveglianza (in dissenso solo due consiglieri: Giampietro Omati e Alberto Montanari), ha espresso apprezzamento per l’operazione, anche se il parere ufficiale, comunque non vincolante, verrà dato più avanti.
Quanto a soci-dipendenti della Milano, che fino alla trasformazione della cooperativa in società per azioni continueranno a determinare le maggioranze assembleari, non va sottovalutata la previsione di «un meccanismo di rappresentanza consiliare» nello statuto della nuova capogruppo. Un vecchio pallino di Fratta Pasini rimesso in circolo al momento giusto: di sicuro aiuterà ad accorciare le distanze, esercitando un discreto fascino sui dipendenti della Bpm. La domanda è se questo potrà bastare a distogliere lo sguardo dalle vertenze sindacali che si apriranno inevitabilmente con la parallela previsione di fissare la sede amministrativa del gruppo a Verona, mentre quella legale sarà a Milano. La parola esuberi è lì dietro l’angolo.
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