Finanza
Due banche, un matrimonio e un funerale
I soci del Banco Popolare e della BPM hanno approvato la fusione dei due istituti, da cui nascerà il terzo gruppo bancario italiano. Il tempo ci dirà se è stato creato solo un altro, e più grosso, problema. Prendiamo atto, intanto, che queste sono le prime nozze bancarie sotto il segno del Giglio magico.
Fu il Governo Renzi a decidere la trasformazione delle banche popolari (cioè cooperative) in società per azione, e più tardi toccò al ministro Pier Carlo Padoan intervenire per sbloccare l’aggregazione sull’asse Verona-Milano che stava per finire su un binario morto.
Lo stile di Renzi quest’operazione lo porta tutto: preparazione tecnica inadeguata e poi censurata dalle Vigilanza Bce, quindi polemiche contro l’Europa, campagna martellante per mettere fuori gioco il dissenso interno, promesse di pura facciata, accordi di potere per spartirsi poltrone e incarichi e raccogliere consenso sul territorio.
«Quest’operazione di integrazione è stata la più difficile che mi sia capitato di affrontare», ha detto Carlo Fratta Pasini, presidente del Banco Popolare. C’è da tremare: la precedente fusione con la Popolare di Lodi, evidentemente più facile di quella attuale, risale al 2007 e non è stata ancora digerita, e i crediti marci sono tuttora una zavorra per l’istituto veronese.
A Verona il consenso all’operazione è stato bulgaro: favorevole il 99,5%, e questo non deve stupire. La nuova promessa è un monte utili di 1,1 miliardi di euro entro il 2019 (da meno di 600 milioni previsti per quest’anno dalle due banche) ed esuberi contenuti a 1.800 unità. Una cifra che contrasta quella di 3.500 che circola fra i grandi investitori: forse a Londra hanno capito male ma senza tagli di costi per 320 milioni addio ai profitti promessi.
I soci di BPM erano meno convinti ma comunque ha votato a favore il 71%, percentuale superiore al quorum richiesto dei due terzi. L’appello a un’attenta valutazione dei rischi della contraparte fatto dal presidente del consiglio di sorveglianza Nicola Rossi è caduto nel vuoto. Decisivo il sostegno dei dipendenti, pressati sia dai sindacati nazionali legati ai vertici dell’istituto sia da capi e capetti occhiuti (i contrari erano tenuti a registrarsi): hanno votato compatti secondo il volere del management, come usava una volta nelle banche popolari di Lodi, di Bergamo o di Novara.
A Milano ieri pioveva, ma anche con il sole sarebbe stata comunque una brutta giornata: più che un matrimonio è stato il funerale della BPM. Per l’addio alla forma cooperativa non c’era nulla da fare visto che è stata imposta per legge, ma i 150 anni di storia della “banca dei milanesi”, indissolubilmente legati alla crescita e affermazione della città, meritavano maggiore rispetto e prudenza, e uno sforzo di ripensamento strategico che qui non si sono visti, men che meno dalle parti di sindacati e dipendenti.
L’entusiasmo con cui è stata salutata la fusione potrebbe raffreddarsi quando il prossimo 8 novembre verranno diffusi i conti trimestrali delle due banche. La Vigilanza Bce, dicono i ben informati, avrebbe ancora qualcosa da obiettare sui crediti.
In copertina, la cupola del salone centrale di BPM a Milano
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