Finanza
Cosa hanno in comune Cameron e Renzi con un venditore di opzioni?
La settimana scorsa l’Economist ha pubblicato un contributo e una sfida, totalmente a sua insaputa, ovviamente, al programma di applicazione delle categorie della gestione del rischio alla società e alla politica cha abbiamo sviluppato in diversi interventi qui su Gli Stati Generali. La colonna Buttonwood, che è sempre un pozzo di suggerimenti e idee, stavolta ha lanciato il paragone tra politica e gestione del rischio a livelli estremamente sofisticati. Il mestiere di chi fa politica oggi, sostiene Buttonwood, non è molto dissimile da quello di chi vende opzioni, e che, come si insegna a lezione, è il mestiere più rischioso che esista. L’affermazione è molto forte e, come vedremo, giustificata su basi tecniche molto naif e fragili, ma solleva questioni interessanti. In primo luogo, è la politica tout-court che assomiglia alla vendita di un’opzione, nel senso che vedremo, o è solo la politica ai tempi della crisi? In secondo luogo, se il paragone è forzato nel modo in cui lo pone l’Economist, si può trovare un’argomentazione tecnica più sofisticata con la quale possa essere affermato?
La somiglianza che l’Economist trova tra chi fa politica e chi vende opzioni riposa su un concetto di base, e abbastanza banale. Vendere opzioni (“scrivere” opzioni è il termine tecnico) è un mestiere molto rischioso, perché si fanno pochi soldi se non succede niente e si può perdere un capitale se succede che dobbiamo onorare l’opzione che abbiamo venduto (se, come si dice, la controparte “esercita” l’opzione). Per l’Economist, il politico vende opzioni perché campa di voti finché non succede niente, ma può perdere tutto il suo capitale politico se capita che debba onorare le promesse che ha sottoscritto.
L’Economist ha ovviamente in mente, e lo cita esplicitamente, la figura di Cameron, che ogni mattina prega il suo Dio affinché nel referendum del 2017 i sudditi di sua maestà non scelgano l’uscita dall’Unione Europea, il Brexit, che ha invece cavalcato nella sua campagna elettorale. Prega ogni giorno perché l’industria finanziaria ha unanimemente preconizzato e minacciato che in tal caso il “miglio quadrato” di Londra ritornerebbe in pochi anni a un posto di alcolizzati e puttane: forse i valori morali non ne risentirebbero più di tanto (vi ricordate in fondo le mail sulle “puttane del Libor”), ma la perdita economica sarebbe enorme. Allora, ecco il paragone: Cameron ha venduto un’opzione sull’uscita dall’UE, e nel caso i sudditi la esercitino, sono cavoli dell’occupante di Downing Street. E poi l’Economist trasporta questa similitudine locale in un parallelo generale, estendendo l’analisi ai casi di opzioni “far-out-of-the-money” (cioè opzioni per le quali la probabilità che vengano esercitate è così bassa da confinare con l’impossibilità). Tra questi l’Economist cita esplicitamente la Le Pen, il nostro Movimento 5 Stelle e Podemos: il Salvini ruspante non viene citato, viene considerato evidentemente “provincia” di Le Pen.
Il paragone dell’Economist è debole e malfermo, e la debolezza sta nella similitudine, riportata anche nel titolo del pezzo, tra opzioni e “bluff”. I mercati, compresi quelli delle opzioni, sono una cosa seria, e chi tratta opzioni non fa bluff di sorta. E non ci può essere “bluff” perché un’opzione è un contratto su un evento che si verifica a prescindere da quello che fanno i contraenti. Se io ti prometto di fare una cosa e poi non la faccio non ti ho venduto nessuna opzione, ma al massimo una promessa “da marinaio”, o più prosaicamente ti ho tirato un pacco. Questo ha profondamente a che fare con la politica: ricordiamo il Prodi leggendario impersonato da Corrado Guzzanti che diceva “anno nuovo, promesse nuove”. Ma le opzioni sono cosa diversa: se il prezzo è oltre una certa soglia, tu che hai venduto l’opzione paghi, e le promesse, come le chiacchiere, stanno a zero.
Ma il guanto di sfida è stato lanciato, e ci viene da cercare altri elementi di contatto tra una promessa politica e un’opzione. Ci interessa soprattutto capire se questo parallelo sia un’accusa alla politica di oggi, e se ne sia una caratteristica necessaria in ogni tempo e luogo. E un parallelo c’è, se guardiamo la stessa giustificazione dell’Economist dal punto di vista di chi compra l’opzione, cioè gli elettori. Acquistare un’opzione significa riservarsi la possibilità di un guadagno senza dover incassare alcuna perdita, significa aggiudicarsi un diritto senza dover fronteggiare alcun dovere. In questa visione, l’offerta politica è effettivamente molto simile alla vendita di un’opzione, e la somiglianza non depone a suo favore. Oggi è comune assistere a promesse politiche di diritti e vantaggi per la collettività o per un gruppo nell’illusione che questo non significhi togliere diritti e vantaggi ad altri gruppi. O in altri casi si rivendicano diritti nei confronti di chi non ha diritto di voto.
Questa politica “paretiana” in cui ci si illude che qualcuno guadagni senza che nessuno perda è la negazione della politica stessa. In primo luogo, l’ottimo paretiano è una questione da tecnici, e non da politici. In secondo luogo, è un’illusione politica, sorretta dall’illusione monetaria. Quando si dice che si indirizzano le risorse a qualcuno mantenendo intatte quelle degli altri, le risorse bloccate si deteriorano per la riduzione del potere di acquisto, e per l’impoverimento relativo di un gruppo della comunità rispetto agli altri. Campione di questa illusione è proprio la politica italiana, con la vicenda del blocco delle pensioni recentemente sconfessata dalla Consulta, e con il blocco degli stipendi nella pubblica amministrazione che ne aspetta il verdetto il prossimo 23 giugno.
Quindi anche questa versione della politica vista come opzione vacilla. Le promesse di guadagno senza perdite, quelle che chiamiamo i “pasti gratis” non esistono nel mondo della politica come non esistono nel mondo della finanza. O meglio, se esistono sono legate a comportamenti irrazionali dei compratori di opzioni che non vengono mai soddisfatte, e di quelli cui non vengono nemmeno mai proposte: è il comportamento noto in finanza come “esercizio irrazionale”. Se no, l’alternativa è che l’elettorato stesso stia da entrambe le parti del mercato, e scambi l’acquisto di diritti su qualche cosa con la vendita di diritti su qualche altra cosa. Diritti in cambio di doveri. E la politica starebbe in mezzo, facendo il lavoro di un “market-maker”, cioè di uno che vende diritti a persone che hanno visioni e interessi opposti (chi scommette sul rialzo e chi sul ribasso).
Quindi, pare che un politico sia più simile a un intermediario che garantisce, che non a un venditore di opzioni. Ma ecco il colpo di scena. Qualche hanno fa, a New York, stavo discutendo su possibili temi di comune interesse con il capo della ricerca quantitativa di Morgan Stanley. Lui suggerì che l’attività di un market-maker è quella di vendere opzioni di segno opposto (rialziste e ribassiste, call e put, rispettivamente) al mercato. Bingo! Un politico è uno che vende opzioni, anche a persone con interessi opposti. L’Economist ha avuto ragione ancora una volta, ma non lo saprà mai, e comunque la giustificazione è molto più sofisticata di quella proposta. E’ addirittura scritta in un articolo che ci ripromettemmo di scrivere, ma che non è mai stato scritto.
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