Finanza
Conflitti di interesse, le proposte della Commissione d’inchiesta sulle banche
È innegabile che il sistema finanziario attuale presenti notevoli conflitti di interesse, sia a livello di macro-struttura, che di comportamenti dei singoli operatori.
Sul primo versante è la relazione del M5s che propone gli interventi più coraggiosi, tutti volti al recupero del ruolo del regolatore rispetto alla tendenza della vigilanza europea all’auto-regolazione (si pensi all’uso, diffuso soprattutto tra le banche più grandi, dei rating interni per la ponderazione del rischio degli attivi bancari e quindi per la determinazione del RWA – risk weighted assets– utilizzato nel calcolo degli indicatori di adeguatezza patrimoniale di Basilea) e al super-potere attribuito nei fatti alle agenzie di rating (nel sistema standard di valutazione del rischio degli attivi bancari, i coefficienti di ponderazione del rischio si basano sul rating da queste attribuito), e all’inasprimento dei controlli sul sistema finanziario.
In ciò superando a sinistra la relazione di maggioranza (ma in fondo questo non stupisce) e la relazione di minoranza a sinistra del PD, che stupisce (invece) per l’assenza completa di proposte critiche ad una politica liberista a livello europeo che ha fallito, e per l’appiattimento acritico sulle posizioni della BCE e della BdI (che, va detto, nel sistema attuale della vigilanza unica a livello europeo, è la longa manus della BCE): in molti punti la relazione di LeU-SI fa proprie con entusiasmo molte delle posizioni espresse dal governatore Visco nello spiegare la crisi e i fallimenti delle banche.
Vediamo più da vicino queste proposte.
In primo luogo, la separazione, da sostenere in sede europea, tra attività commerciale e attività di investimento delle banche.
La maggiore dimensione delle banche (verso cui continuano a spingere le autorità nazionali e europee, nonostante la già elevata concentrazione del sistema bancario) accentua i conflitti di interesse nel sistema finanziario, dipendendo la maggiore parte di essi dalla coesistenza dentro la stessa banca di funzioni le più disparate, da quelle commerciali (raccolta e impieghi alla clientela), che godono della tutela pubblica, a quelle più rischiose quali l’investment banking e il trading proprietario.
Si noti che in genere la maggiore dimensione si associa ad un mix delle attività più orientato verso attività diverse da quelle tradizionali di intermediazione creditizia, determinando una maggiore incidenza sull’income(la somma dei margini dell’attività bancaria) del margine non da interessi; da studi condotti in ambito internazionale, questa incidenza risulterebbe correlata positivamente e in maniera statisticamente significativa con il rischio sistemico della banca.
La regolazione bancaria storicamente ha oscillato tra due diverse impostazioni: quella “strutturale” e quella “micro-prudenziale”. La prima vieta per legge al banchiere di intraprendere attività che, nell’ottica del regolatore, accentuano il mismatch rischio/scadenze tra passivo ed attivo bancario, che è alla radice delle crisi. La vigilanza micro-prudenziale, invece, lascia il banchiere libero di esercitare la propria azione imprenditoriale (nei fatti lo Stato abdica dal proprio ruolo di regolatore attivo e delega al mercato il ruolo sanzionatorio), ma gli impone di assumere dotazioni di capitale e liquidità ritenute congrue con il livello di rischio assunto (indicatori di Basilea).
La legislazione statunitense e europea hanno negli anni oscillato tra queste due diverse impostazioni. Esempio della prima è il Glass Steagall Act, approvato nel 1933 sull’onda della crisi del ’29, che imponeva la separazione tra banca retail e banca d’investimento, vietando alle banche “commerciali” di acquisire e negoziare azioni o svolgere attività assicurativa. Si torna agli anni ’30 dopo la crisi del 2008; nel luglio 2010, infatti, è stato approvato in USA il Dodd-Frank Act, che contiene la Volcker Rule (dal nome del suo ideatore, l’economista statunitense Paul Adolph Volcker, ex presidente della Federal Reserve), che prospetta la separazione delle attività (retail e trading) ed ha ispirato progetti analoghi in Europa, tra cui il Banking Act della Commissione Vickers in UK e il Rapporto Liikanen, allo studio per vari anni in Commissione Europea, ma ormai definitivamente abbandonato.
L’idea di fondo della proposta della separazione è quella di proteggere i depositanti dal rischio di default indotto dalle attività più rischiose e speculative della banca, rendendo più stabile il sistema del credito. La separazione consentirebbe il fallimento delle attività “speculative”, senza innescare le esternalità negative rappresentate dalla “corsa agli sportelli” e alla paralisi del sistema dei pagamenti. Inoltre, la separazione eliminerebbe qualunque incentivo all’azzardo morale dei banchieri: la tutela pubblica sui depositi e il too big to fail, cioè l’impossibilità di far fallire banche grandi e a struttura complessa per evitare che il dissesto aziendale produca ripercussioni sul sistema, incentivano i manager ad assumere decisioni che aumentano il rischio della banca, a fronte di potenziali maggiori profitti, confidando appunto nella salvaguardia pubblica; favorirebbe, inoltre, la generale semplificazione del businessche sarebbe più facilmente vigilabile, con vantaggio per lo stesso regolatore. La separazione strutturale favorisce, inoltre, la “biodiversità” e la resilienza dei sistemi finanziari. Esiste ormai una vasta letteratura ed è convinzione anche delle autorità di regolamentazione che i sistemi finanziari, proprio come gli ecosistemi, siano più resilienti quanto più abitati da operatori con caratteristiche diverse (banche d’affari, banche commerciali, banche cooperative o rurali, banche etiche). Le banche troppo grandi per fallire, che uniscono banca d’investimento e banca commerciale, violano questo principio fondamentale con gravi rischi per il sistema.
Questa proposta, inoltre, inverte nei fatti l’andazzo del “big is beatiful” in tema banche.
Le spinte dei governi passati e delle autorità di vigilanza verso le aggregazioni degli intermediari trascurano di considerare gli effetti deleteri della maggiore dimensione:
- aumenta il rischio sistemico;
- favorisce comportamenti di moral hazardda parte degli amministratori delle banche, per effetto del too big to fail, con implicazioni quindi sul rischio assunto;
- determina una maggiore complicazione delle attività svolte dalla banca, e quindi maggiore difficoltà a valutare e controllare l’esposizione ai rischi, sia da parte degli amministratori che dei controllori interni e delle autorità di vigilanza;
- accentua i conflitti di interesse nel sistema finanziario, che dipendono principalmente dalla coesistenza dentro la stessa banca di funzioni le più disparate, da quelle commerciali, che godono della tutela pubblica, a quelle più rischiose dell’investment banking.
In aggiunta, è stato ampiamente dimostrato che le economie di scala non si traducono più in maniera automatica e scontata in aumenti di redditività e che la maggiore concentrazione genera condizioni di mercato meno favorevoli per i consumatori, in particolare nel credito alle piccole imprese, nei depositi al dettaglio e nei servizi di pagamento.
Si aggiunga a quanto precede che la spinta alle aggregazioni avviene in presenza di un già elevato grado attuale di concentrazione nel sistema bancario europeo e mondiale, accentuato paradossalmente proprio dalla crisi e dai salvataggi pubblici (6 mega-fusioni dopo il 2007 in USA e 4 in Europa). Il quadro degli operatori bancari è inquietante per gigantismo. Le 33 maggiori banche europee avevano in media nel decennio 2004-2013 attivi, netti da derivati, pari a 2 volte il PIL europeo (le 13 maggiori USA il 60%). In Svizzera e Paesi Bassi le prime 2 banche nel 2013 avevano attivi pari a circa tre volte il PIL, in Francia, Spagna e Regno Unito tra 2 volte e una volta e mezzo, in Italia uguagliavano il PIL, in Germania ne raggiungevano l’80%. Confrontando l’attivo medio delle banche europee con l’attivo medio delle multinazionali europee non finanziarie, il rapporto è di 11,4 a 1.
Con riferimento all’Italia, la relazione del M5s propone inoltre:
- il riacquisto delle quote della BdI da parte del MEF: gli attuali detentori sono soggetti privati (e non più banche pubbliche, come era nella riforma del 1936). La riforma (attuata nel 2014 dal governo Letta) ha dato luogo ad uno status ibrido dell’autorità di vigilanza nazionale: public company posseduta dai vigilati (caso unico di proprietà della banca centrale tra i paesi industrializzati) e contemporaneamente istituto di diritto pubblico, in base alle norme. En passant, ricordiamo che la rivalutazione delle quote (peraltro effettuata con metodi non esenti da critiche) e la fissazione dei dividendial 6% del valore delle quote (un rendimento così elevato è impensabile che non determini distribuzione alle banche proprietarie dei profitti del signoraggio, che sarebbero di pertinenza dello stato) ha distribuito alle banche azioniste plusvalenze rilevanti (la rivalutazione delle quote da 156 mila euro a 7,5 miliardi di euro) oltreché 1,3 miliardi di euro di dividendi nei 4 anni dalla riforma;
- la nazionalizzazione della borsa valori, in quanto organo di importanza capitale per la salvaguardia del risparmio;
- l’attribuzione alla Consob del potere regolamentare sui questionari per la profilatura della clientela, sottraendoli quindi ai vigilati, in evidente conflitto di interesse: la banca predispone l’emissione degli strumenti finanziari, predispone i prospetti finanziari e colloca direttamente gli strumenti finanziari presso la clientela, svolgendo al tempo stesso la profilatura e la valutazione di adeguatezza “MIFID” insieme alla consulenza in materia di gestione di risparmio.
Sul versante più direttamente riferito ai conflitti di interesse nei comportamenti dei singoli operatori del sistema bancario, il tema più diffusamente trattato da tutte le relazioni è quello delle “porte girevoli”:cioè il conflitto di interesse in capo al vigilante nel vigilare, se ha aspettativa o addirittura accordo in corso per futuri sviluppi lavorativi presso il vigilato. Tutte le relazioni suggeriscono l’allungamento dei vincoli di incompatibilità.
Da parte del M5s si propone, inoltre, la costituzione presso ogni singola autorità di vigilanza di un fondo ad hoc a cui gli esponenti degli organi di amministrazione e controllo e l’alta dirigenza dei soggetti vigilati versino annualmente almeno un terzo dei loro compensi lordi a titolo di garanzia per eventuali azioni civili e penali connesse all’ambito bancario-finanziario di riferimento o di provenienza e comunque per ogni genere di risarcimento danni derivante da violazioni di carattere normativo o regolamentare ovvero a titolo di garanzia per corresponsioni effettuate in applicazione di sanzioni amministrative; somme ritirabili decorsi 5 anni dalla cessazione del mandato in assenza di una delle suddette cause preclusive: la misura avrebbe una evidente funzione dissuasiva dal compimento di violazioni normative.
In conclusione, si noti che l’attuale approccio assunto dalla MIFID (e riconfermato dalla MIFID II) in tema di conflitti di interessi degli intermediari è di tipo soft e si fonda sui due seguenti punti:
- individuazione delle aree salienti in tema di conflitto di interessi dell’intermediario, tra cui attività di ricerca e consulenza in materia di investimenti, negoziazione per conto proprio, gestione del portafoglio e prestazione di servizi finanziari alle imprese, ivi compresi la sottoscrizione o la vendita nel quadro di un’offerta di titoli e i servizi di consulenza in materia di fusioni e di acquisizioni;
- utilizzo di due strumenti principali di prevenzione/soluzione dei conflitti: le misure organizzative per identificare, prevenire e gestire il conflitto e la disclosure dello stesso.
La ratio che emerge può così riassumersi:
- il conflitto di interessi – e in particolare quello determinato dalla multi-funzionalità delle imprese di investimento e delle banche – è inevitabile e a questa inevitabilità il legislatore deve “rassegnarsi”. Sceglie quindi un approccio diverso da soluzioni più drastiche quali appunto la separazione, sopra richiamata, che testimoniano di contro che il legislatore può, ove il conflitto risulti troppo rischioso per l’efficienza e l’equità del mercato, vietare che una banca possa svolgere (direttamente o nell’ambito del gruppo) alcune attività di intermediazione finanziaria. L’approccio MIFID sceglie, quindi, di non eliminare il conflitto, ma di gestirlo. Quindi, la soluzione più coerente con questo fine è, appunto, l’adozione da parte degli intermediari di misure organizzative che consentano all’impresa di individuare, prevenire, gestire il conflitto;
- tuttavia, riconosce la MIFID, se le misure organizzative non sono sufficienti allo scopo, soccorre l’obbligo di disclosure del conflitto. Quindi implicitamente la direttiva è consapevole dei limiti nell’efficacia delle soluzioni organizzative interne. Inoltre, assegna (in maniera discutibile e non convincente secondo alcuni studiosi) la protezione dell’investitore dal conflitto alla sua capacità di lettura della disclosure dello stesso e nel consenso all’operazione a seguito della disclosure. Misura questa che scarica di fatto sul risparmiatore l’onere di informarsi e quindi tutelarsi dal conflitto.
La proposta della separazione va quindi in direzione opposta.
*
(Seconda puntata – continua)
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