Finanza

Test Bce, le due grandi debolezze delle banche italiane

29 Ottobre 2014

Chi ha ragione, tra i mercati finanziari e le istituzioni italiane – Banca d’Italia inclusa – sulla valutazione degli esiti del Comprehensive assessment (CA), condotto su 130 gruppi bancari europei, dei quali 15 italiani? A parte gli incredibili incidenti di comunicazione della BCE, cosa dicono i numeri e le tabelle divulgate domenica sera?

Per capirlo, occorre concentrare l’attenzione su alcuni aspetti di maggiore importanza: la debolezza as is delle banche italiane, sia patrimoniale che gestionale; la ragionevolezza della pretesa di rafforzare i patrimoni delle banche sulla base del join up (unione algebrica dei risultati degli AQR – l’esame della qualità degli attivi bancari – e dello stress test); le conseguenze degli errori di comunicazione dei risultati; l’avvenire della vigilanza bancaria europea ed il ruolo della vigilanza domestica.

Debolezza as is. È evidente, in relazione sia alla dotazione di capitale che alle capacità di gestione, se si guardano gli esiti dell’AQR che dello stress test “di base”. L’AQR si è concentrato sui portafogli creditizi e sui portafogli bancari cosiddetti “di classe 3”, cioè, essenzialmente, sugli attivi rappresentati da titoli strutturati e da cartolarizzazioni. Per quanto riguarda i primi: semplificando, gli ispettori (compresi quelli della Banca d’Italia) hanno applicato una metodologia di selezione campionaria ed omogenea sia per valutare l’attendibilità delle rettifiche forfettarie sulle esposizioni in bonis o performing secondo ciascuna banca (considerando anche i valori stimati delle garanzie acquisite dai creditori, cioè, nella maggior parte dei casi, immobili), sia per individuare l’ammontare di queste esposizioni che devono essere riclassificate come non performing; inoltre, gli ispettori hanno rivisto, sempre su base campionaria, la correttezza dei criteri di distribuzione dei non performing loan tra incagli, ristrutturati e sofferenze.

Non sono stati applicati chissà quali modelli statistico-matematici: la metodica adottata dalla BCE per gli AQR è stata mutuata dalla revisione contabile e dall’applicazione dei principi contabili vigenti per le banche (non a caso, gli ispettori nazionali sono stati supportati in loco da team di revisori). I portafogli sui quali l’esercizio è stato condotto sono quelli di vigilanza e i coefficienti per il calcolo degli RWA (gli attivi ponderati per il rischio) cui confrontare i mezzi propri sono gli stessi vigenti per Basilea 3: niente fantascienza e anche poca scienza, in verità (tant’è che, per ovviare alla mancanza di un modello statistico condiviso, per l’elaborazione del quale sarebbero occorsi molti soldi e molto tempo, si è deciso di innalzare l’asticella minima del CET1 all’8%, nonostante Basilea 3 preveda il 5,5 più una riserva di conservazione del capitale del 2,5%.

Ebbene: se si guardano i risultati degli AQR delle banche italiane, ad eccezione delle due maggiori, si realizza subito che le rettifiche su crediti sui bilanci 2013 erano insufficienti anche secondo la normativa vigente. Ma c’è di più: il primo stress test è stato condotto in base allo scenario macro elaborato dalla Commissione Europea del marzo 2014. Di fatto, si è trattato di una proiezione di quelle rettifiche a fine 2014, ipotizzando l’invarianza del portafoglio creditizio: ebbene, la maggior parte delle banche italiane peggiora la performance anche in uno scenario previsivo di breve termine (e tutt’altro che “stressato”).

Si ribatte: e gli attivi valorizzati mark-to-model come i CDO, di cui sono piene le banche francesi e tedesche? e il portafoglio di negoziazione (HfT)? Può darsi che la BCE si sia effettivamente limitata a valutare la semplice “ragionevolezza” dei modelli interni di valutazione di alcune grandi banche. Ed è vero che, se si fosse adottata almeno la metodologia della Fed, si sarebbero riconsiderati i fair value di ingenti posizioni di trading. Ma l’esercizio è stato approvato così (anche dalla Banca d’Italia) e la verità è che le banche italiane non fanno finanza perché non la sanno fare (tranne, forse, le prime due) e finiscono con il gestire passivamente portafogli rigidi, pesantemente esposti al ciclo economico domestico quando non territoriale, generati da processi di screening e valutazione del merito creditizio lacunosi quando non in conflitto di interessi.

Ma andiamo avanti. Lo stress test “vero” è il secondo, ritenuto “apocalittico” dalla stampa italiana. Qui il tracollo del sistema nazionale è dovuto certamente alla penalizzazione di partenza dell’AQR (se la qualità del credito è peggiore di quanto risultava dai bilanci, è verosimile che sia più sensibile al peggioramento della congiuntura economica), ma soprattutto all’ipotesi dell’aumento di 2 punti percentuali del tasso medio a lungo termine sul debito sovrano. In altre parole: nei portafogli bancari ci sono troppi titoli di Stato, classificati impropriamente come afs: qui i funzionari di Francoforte sono stati cattivelli con noi, perché hanno ridotto l’efficacia dei cosiddetti “filtri prudenziali” applicati discrezionalmente dalla Banca d’Italia al calcolo dei mezzi propri delle banche e, sia pure in misura progressiva, hanno immaginato che il CET1 (il patrimonio di qualità primaria) delle banche italiane fosse esposto agli effetti di una nuova, drammatica crisi del debito sovrano.

Qui si mostra la seconda grande incompetenza del nostro ceto bancario: a partire dall’estate 2012 ha contato esclusivamente sulla riduzione dei tassi indotta dalle scelte della BCE, utilizzando le LTRO soprattutto per comprare titoli di Stato a lungo termine (e le banche minori hanno fatto anche peggio). Gli aumenti di capitale richiesti alle banche. Da questo punto di vista, la critica al CA è fondata: come si può imporre sacrifici agli azionisti e ai portatori di obbligazioni convertibili delle banche ritenute carenti di capitale, sulla base di uno stress test come quello del CA? Oltretutto si pone un problema giuridico, perché le regole di vigilanza prudenziale vigenti (Basilea 3), recepite nelle legislazioni nazionali dell’UE (e non solo dei Paesi che adottano l’euro), prevedono tutt’altro. E poi la vigilanza bancaria conferita per decisione del Consiglio Europeo alla BCE, relegando un organismo anch’esso di diritto comunitario come l’EBA al ruolo di mero consulente tecnico (dell’EBA fanno parte anche i regolatori inglesi): come ci si difende dalle decisioni della vigilanza di Francoforte?

Gli errori di comunicazione della BCE. Le banche italiane, come si è visto, non hanno fatto i compiti a casa, almeno fino a tutto il 2013. Ma additarle come le peggiori in Europa non è stato un mero errore degli uffici stampa di Francoforte. Soprattutto la sottolineatura giornalistica degli esiti dello stress test rimanda alla dipendenza, reale e perniciosa, degli attivi delle banche italiane dal rating del debito pubblico italiano. E questo, a sua volta, rimanda a Draghi e alle scelte compiute a partire dal famoso “whatever it takes”.

Il futuro della Vigilanza. Quando l’Italia aveva la sovranità monetaria e il sistema bancario era quasi interamente in mano pubblica, il potere della Vigilanza sulle banche (e sui grandi clienti di queste ultime) era enorme. Male o bene che fosse, quel tempo è definitivamente passato; ma la vigilanza domestica, alla vigilia del congedo, rimedia un brutto voto dal CA. Da un lato, non è stata in grado di “preparare” bene i suoi allievi all’esame esterno (anche se poi gli esaminatori sono stati gli stessi che davano le ripetizioni); ha ingaggiato battaglie per il cambiamento del management delle banche ritenute in peggiori condizioni, con risultati incerti: è andata bene con MPS (ma poi non si è riusciti a trovare un azionariato stabile e l’aumento di capitale di 5 mld. è apparso subito insufficiente), male con BPM e Carige, malissimo con Veneto Banca. Dal 4 novembre (un giorno fausto, per l’Italia, una volta), i progetti di fusione, gli aumenti di capitale, le dismissioni delle 15 banche “di sistema” saranno discussi e decisi a Francoforte. In inglese.

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