Finanza
Chi finanzia l’educazione finanziaria? Quando finisce l’impunità dei banchieri?
Quando arrivai alla redazione del Sole-24 Ore nell’estate del 1992, uno dei primi argomenti di cui mi occupai fu il bilancio dei crack finanziari che avevano colpito centinaia di migliaia di risparmiatori italiani negli anni 80 (dall’IFL di Vincenzo Cultrera, all’OTC di Luciano Sgarlata alla liquidazione forzata di Europrogramme, all’Italfin, all’Eurogest, etc.). Tutti casi di perdite patologiche, ossia non dovute all’andamento dei mercati, bensì a insolvenze spesso fraudolente, congiunte a sfruttamento sistematico di asimmetrie cognitive. Arrivai a stimare perdite patologiche per 5mila miliardi di lire, che convertiti e rivalutati per l’inflazione farebbero 4,3 miliardi di euro di oggi.
A 23 anni di distanza, con l’azzeramento dei bond subordinati di Banca Etruria, Banca Marche e Carife, siamo da capo. Ancora perdite patologiche per centinaia di milioni di euro spalmate su migliaia di risparmiatori. Nel frattempo, ci sono state Parmalat, Cirio, Giacomelli, i bond argentini, quelli greci etc. Altri danni per svariati miliardi di euro.
Anche in questo, come nei casi precedenti, si reclama l’urgenza di diffondere l’educazione finanziaria come uno dei principali antidoti alla loro possibile replica. Esigenza rafforzata dalla constatazione che l’Italia – uno Paese tra i più ricchi al mondo in termini di patrimonio procapite – viene al 63mo posto nel mondo (dopo Madagascar, Togo e Benin) come preparazione finanziaria dei cittadini, secondo la recente ricerca del della Global Financial Literacy Excelence Center, il centro studi dedicato all’educazione finanziaria guidato negli Stati Uniti da Annamaria Lusardi.
L’educazione finanziaria è un bellissima idea. Ma chi la finanzia, dal momento che non può essere basata solamente sul volontariato (cosa che personalmente faccio da molti anni anche con gli amici dell’Associazione Pieno Tempo) o su qualche portale formativo delle autorità di controllo che ben pochi guardano?
La finanzia lo Stato? Molto improbabile. Il perché è semplice. L’educazione finanziaria non porta voti nel breve periodo. Mentre allo scopo potrebbero essere molto più efficaci i 100 milioni che il Governo ha stanziato (a spese del Fondo Interbancario per la Tutela dei Depositi) come “misura umanitaria” per una parte degli obbligazionisti subordinati. Poi uno dice: «Ma come, con tutta la spesa pubblica parassitaria che c’è, non si trovano le risorse necessarie per formare insegnanti, studenti e cittadini a minimizzare i rischi di perdite patologiche e a gestire efficacemente la propria vita finanziaria, con grandi benefici per la collettività?». Provate a vedere la fine che hanno fatto gli ultimi quattro commissari alla spending review (Piero Giarda, Enrico Bondi, Carlo Cottarelli e Roberto Perotti) e capirete che in Italia è impossibile trovare finanziamenti “a saldi invariati” per progetti condivisibili come quello di cui stiamo parlando.
È vero che nel lungo periodo gli effetti di un piano di educazione finanziaria potrebbero essere notevoli. Il premio Nobel Robert Shiller ha stimato che un piano da 15 miliardi di dollari l’anno rivolto a 50 milioni di cittadini USA avrebbe probabilmente evitato la crisi dei mutui subprime del 2007-2009, che ai contribuenti americani è poi costato 1,5 trilioni di dollari in salvataggi bancari. Secondo Shiller, un piano così imponente avrebbe minimizzato l’indebitamento eccessivo delle famiglie che ha scatenato la Grande Crisi. Ma quale politico, in Italia come negli USA, è in grado di fare riflessioni così lungimiranti e lavorare per ottenere il consenso necessario?
La finanziano le banche? Ne dubito. A parte lodevoli iniziative di creazione di cultura finanziaria nella clientela, non mi pare che la missione delle banche oggi sia quella di prestare educazione. E poi, banalmente: rispetto a piani nazionali di formazione, il finanziamento da parte dell’industria bancaria limita la necessaria indipendenza dei contenuti dell’educazione stessa. Forse un giorno anche nel settore bancario nascerà qualche B-Corp (Benefit Corporation), entità a metà tra la società a scopo di lucro e l’ente di promozione sociale, che si occuperà di servizi finanziari erogando nel contempo formazione continua ai propri clienti. Ma l’attesa potrebbe essere lunga.
La finanziano le imprese per i propri dipendenti? Strada da esplorare, ma potrà mai diventare una soluzione sistemica? Le non abbondanti risorse disponibili per il welfare aziendale vengono solitamente indirizzate a quei servizi e a quei beni che prioritariamente sono desiderati dai dipendenti. Secondo voi quanti lavoratori preferiscono una formazione continuativa alla finanza personale rispetto a dei buoni benzina o ad altra formazione la cui utilità è più immediatamente percepita (es: corsi di lingua straniera)?
La finanzia qualche Bill Gates della situazione? Può darsi. Ma bisogna convincere i benestanti filantropi italiani (non molti per la verità) della priorità da assegnare all’educazione finanziaria rispetto ad altri temi come la riduzione della fame nel mondo, la cura di malattie endemiche, il contrasto al cambiamento climatico, etc. Impresa ardua.
La pagano di tasca loro i risparmiatori? Solo in pochi illuminati casi (che noi a YouInvest conosciamo). Appena il 2,4% della popolazione dedica almeno due ore alla settimana a raccogliere informazioni sui propri risparmi (fonte: Centro Einaudi, 2015). Metà degli italiani dedica zero tempo (e non necessariamente sono i più poveri!). Ora, se la grande massa degli italiani non si interessa all’argomento, secondo voi qual è la loro propensione a dedicarci qualche soldo?
Non entro qui nel merito di metodi e contenuti dell’educazione finanziaria, sui quali si potrebbe discutere a lungo. Credo però che parlare di questo affascinante tema prima di aver identificato le risorse da destinare e le loro fonti sia come mettere il carro davanti ai buoi.
Quello dell’educazione finanziaria potrebbe essere un caso di fallimento del mercato. Nel senso che è un qualcosa di cui collettivamente si sente un gran bisogno (individualmente molto meno), ma che né il privato né il pubblico sono in grado di offrire su vasta scala. Se è così, dobbiamo rassegnarci. Presto o tardi ci saranno altre Europrogramme, Parmalat e Banca Etruria che arrecheranno nuove perdite patologiche a grandi popolazioni di risparmiatori.
Solo due condizioni potrebbero allontanare questa eventualità: la prima è che termini finalmente l’impunità globale di banchieri, brokers e “controllori” che in un modo o nell’altro sono protagonisti o complici delle crisi (come ben spiegato in questo articolo dell’Independent). Siamo in una situazione in cui i deterrenti ai comportamenti truffaldini, illeciti o semplicemente omissivi sono ridicoli. Nessun banker protagonista della Grande Crisi del 2008/2009 è stato penalmente condannato. Il massimo della “sanzione” toccò a Fred Goodwin (detto “Fred the Shred”, Fred lo sbrandellatore), responsabile del crollo di Royal Bank of Scotland, al quale la Regina tolse il titolo di Sir. Una violenza inaudita!
La seconda condizione affinché non si ripetano casi come quelli citati è che, pur in assenza di una educazione finanziaria sistematica, i risparmiatori almeno imparino dagli errori. Non è detto che ciò accada, anche perché sappiamo che al settore della finanza personale non possono essere pedissequamente applicati gli schemi razionali di altri campi. Qui sarebbe interessante fare delle ricerche sui comportamenti delle vittime dei crack degli anni ’80 e di Parmalat, Argentina, Grecia etc. negli anni successivi. Sono diventati finanziariamente più saggi? O si sono messi a giocare alle slot machine per la disperazione o per l’ansia di recuperare le perdite subìte? Ma anche per fare queste ricerche, che sarebbero preziose, servono soldi. Chi ce li mette?
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In copertina, filiale di Banca Etruria – Valdarno Post, immagine tratta da Flickr
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