Finanza
Il paradiso perduto delle banche svizzere e la nuova onda latina a Lugano
Al giorno d’oggi, per un cittadino Ue o Usa possedere un conto in Svizzera è diventato una mezza grana, a causa degli inasprimenti introdotti a più riprese in tema di antiriciclaggio ed evasione fiscale. Figurarsi possedere un’intera banca. Il gruppo Generali ne aveva una, dal 1998, e ci ha messo tre anni buoni per venderla: due per trovare il compratore, più un altro speso a ottenere autorizzazioni e sistemare le carte per il passaggio di proprietà.
La decisione di cedere la Banca della Svizzera Italiana (Bsi), per molti anni un punto fermo del gruppo assicurativo, era stata presa subito dopo l’arrivo dell’amministratore delegato Mario Greco a Trieste, nell’estate 2012. L’operazione si è conclusa solo due giorni fa, quando è stato annunciato il completamento della cessione della Bsi al gruppo brasiliano Btg Pactual per 1,248 miliardi di franchi svizzeri. Al cambio attuale fanno circa 0,9 miliardi di euro. Il prezzo incorpora un “effetto sconto” determinato da una transazione fiscale con gli Stati Uniti (211 milioni di dollari) a fronte di violazioni commesse amministrando il denaro di clientela statunitense; multa da cui il compratore sudamericano è stato tenuto indenne. Storicamente, la partecipazione era in carico sui libri delle Generali a 2,3 miliardi di euro; la vendita perciò ha comportato una minusvalenza (già assorbita nei conti).
La Bsi è passata di mano a un prezzo pari all’1,5% delle masse in gestione (o all’1,9%, se si esclude dal conto la multa di cui si è fatta carico Trieste). Un parametro troppo basso rispetto ad altre private bank paragonabili, è stato notato da diversi osservatori. Senza volersi allontanare troppo da Trieste, per esempio, la stessa Banca Generali – controllata del Leone e quotata a Piazza Affari – viene valutata 3 miliardi di euro, ovvero il 7,5% delle masse in gestione.
Ma era difficile spuntare di più. Negli ultimi anni lo tsunami normativo sull’antiriciclaggio e l’inasprimento dei controlli fiscali e non solo, cui pure la Svizzera sta chinando la testa, ha cambiato le carte sul tavolo. Il risultato è che l’importanza di essere una banca svizzera si è drasticamente ridotta. Vale per i clienti, ma vale anche di più per i proprietari stranieri di banca, se la testa del gruppo ha passaporto Ue o Usa. In ambito europeo, in particolare, la complessità e la pervasività dei controlli richiesti alla capogruppo-banca sono tali che il pieno ossequio, formale e sostanziale, alla normativa Ue rischia di confliggere con le tutele comunque previste ancora oggi da quella Svizzera. Peraltro, prima dell’arrivo di Greco, a un certo punto pure la stessa Banca Generali aveva coltivato l’idea di incorporare la “cugina” Bsi. Il progetto venne freddato da Banca d’Italia, e in particolare dall’allora vicedirettrice Anna Maria Tarantola, che non ne volle sapere di portarsi una “grana” in casa proprio nel momento in cui si avviava la stretta sui paradisi fiscali e si irrigidivano i controlli sul sistema bancario.
Tutto questo non ha fatto che restringere progressivamente il novero dei potenziali compratori Bsi, e Generali non ha potuto che prenderne atto. Chi sfugge, almeno finora, alla new wave sono privati e gruppi fuori dall’orbita Ue e da quella statunitense. Negli ultimi tempi a Lugano si vedono sempre più spesso ricchi latinos, che nel cuore dei banchieri ticinesi stanno sostituendo gli italiani. Con l’arrivo della brasiliana Btg Pactual, che di Bsi vuol fare la piattaforma globale dei propri servizi alla clientela danarosa, si sentiranno ancora più a casa.
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