Finanza
Bpm-Banco, le contorsioni per negare l’aumento di capitale che si dovrà fare
Banca sana con banca malata è stata per anni la formula magica delle aggregazioni nel sistema bancario italiano sotto l’egida della Banca d’Italia. Che in cambio della sistemazione chiudeva gli occhi per un po’ di tempo sui problemi. Purtroppo, a volte le banche in oggetto non si sono mai riprese (chiedere al Banco Popolare dopo l’acquisizione della Popolare di Lodi e l’integrazione di Italease).
Per non smentirci, la prima ipotesi di fusione che l’Italia mette sul tavolo della Bce, quella fra Bpm e il Banco Popolare, ripropone il vecchio abracadabra, rafforzato dalla clausola gold delle “nozze fra pari”. E siccome non ci facciamo mancare mai nulla, regista dell’operazione è Mediobanca, un vero artista in questo genere di formule matrimoniali.
Solo che Francoforte non è Roma. E questo spiega perché l’incontro di mercoledì 10 febbraio a Francoforte con la Vigilanza Bce abbia finito per lasciare spiazzati Giuseppe Castagna e Pier Francesco Saviotti, rispettivamente amministratori delegati di Banca Popolare di Milano e Banco Popolare. L’incontro non è proprio andato secondo gli auspici: gli alti funzionari della Vigilanza avevano già pronte le loro contro-osservazioni di massima anche perché, hanno fatto notare mostrando un piccolo dossier di articoli, si erano tenuti al passo con i puntuali aggiornamenti offerti dalla stampa italiana.
Non che la prospettiva di un consolidamento industriale, che vede una banca con una buona dotazione di capitale aggregarsi con una più problematica, dispiaccia alla struttura di vigilanza presieduta da Danièle Nouy. Ma se da noi, storicamente, l’implicita riconoscenza di Via Nazionale verso chi si faceva carico di “un problema del sistema” comportava la concessione di una sorta di periodo di grazia, durante il quale il controllore allentava la presa sul controllato, per Francoforte le implicazioni delle operazioni vanno articolate attentamente ed i tempi di realizzazione degli impegni presi in fase di autorizzazione non sono una variabile da giocare a piacimento del management.
Impegni che nel caso in questione significano una sola cosa: sistemare il problema dei crediti deteriorati dell’istituto veronese, che sono più del doppio dell’ammontare del patrimonio netto tangibile (capitale + riserve – attività immateriali). A fronte di 14,25 miliardi di euro di crediti deteriorati netti, il Banco Popolare ha infatti un patrimonio netto tangibile di 6,5 miliardi. In sostanza, l’istituto di Saviotti sta finanziando attività estremamente rischiose con capitale di terzi e, probabilmente, anche con finanziamenti della banca centrale. La soluzione di questo problema passa per una cessione delle sofferenze (che hanno un tasso di copertura del 38% circa), con probabile emersione di nuove perdite che potrebbero determinare la necessità di una significativa ricapitalizzazione.
Fra gli addetti ai lavori si parla di 1,5 miliardi di euro per la nuova entità Bpm+Banco, grazie alla dotazione apportata dalla Bpm (che ha capitale in eccesso per circa 700 milioni). Questo si compara con 2 miliardi di euro di aumento di capitale che sul mercato veniva ipotizzato come necessario per rafforzare il solo Banco. In sostanza, la sorpresa emergerebbe trascorso un ragionevole tempo dalla delibera di fusione, ipotizzata con pesi uguali. Gli azionisti Bpm sarebbero perciò chiamati a coprire il deficit di capitale di Verona: su di loro ricadrebbero infatti 1,450 milioni euro (€700 di eccesso iniziale più la metà dell’aumento di capitale richiesto da 1,5 miliardi); quelli del Banco Popolare sborserebbero 750 milioni euro (portando a casa un beneficio netto di 1.250 milioni, rispetto a 2 miliardi stimati nell’ipotesi di aumento stand-alone).
«Ci sono alcune cose da mettere ha posto», aveva riconosciuto Saviotti, ma proprio ieri ha negato che il progetto di aggregazione prevedesse un aumento di capitale. Non è la prima volta: due anni fa negò ripetutamente l’esigenza di trasformare in azioni un prestito subordinato convertibile da 1 miliardo di euro. E il prestito in effetti non fu convertito: ma per rimborsarlo fu chiamato un aumento di capitale da 1,5 miliardi di euro. Anche Castagna ha negato di recente la necessità di un aumento di capitale. Ma a differenza di Saviotti lui ha un trackrecord di credibilità fin qui inattaccabile.
Tuttavia, sul punto bisogna essere chiari. Un conto è l’aumento di capitale contestuale alla fusione: che non ci sarà e non è chiesto nemmeno dalla Bce. Un conto è l’obbligo di cedere le sofferenze del Banco in tempi prestabiliti – richiesto dalla Bce quale precisa condizione per il via libera alla fusione – che farebbe emergere l’esigenza di capitali freschi e dovrebbe essere portata a termine a distanza temporale ragionevole, ma non esagerata, dalle assemblee che delibereranno la fusione. Probabilmente entro 12-18 mesi, visto che i 3-5 anni prospettati mercoledì scorso dalle due banche alla Vigilanza europea sono stati giudicati troppo lunghi.
Su questo punto, secondo quanto risulta a Stati Generali, Bankitalia starebbe cercando di dare una mano ed a tal fine il vicedirettore generale di Via Nazionale Fabio Panetta è intervenuto discretamente per cercare di rendere più flessibile l’atteggiamento dei colleghi europei sui tempi di realizzazione. Tempi stretti, infatti, esporrebbero Castagna e gli altri consiglieri di gestione a critiche da parte della base azionaria e dei dipendenti e a possibili recriminazioni, se dovesse venire fuori che la necessità di un aumento di capitale, quale conseguenza della fusione con il Banco, era già noto in partenza. Per i vertici di Bpm, insomma, il sentiero è molto stretto: da un lato non si può dire tutto papale papale, rischiando di far fallire l’operazione (molti fondi del resto hanno già preso le distanze da Bpm); dall’altro, Castagna dovrà dire quanto basta per evitare accuse di comportamenti scorretti o omissioni di comunicazioni verso il mercato.
Oltre a scaricare sugli azionisti Bpm il peso dell’aumento di capitale, quali implicazioni comporta l’operazione? Sinergie di rilievo sui costi, soprattutto del personale. Circa 3.000 esuberi stimati sinora, probabilmente in modo conservativo. La chiusura della sede di Lodi, troppo vicina a Milano, e probabilmente anche di quella di Novara. La ripartizione delle funzioni chiave tra Milano e Verona, con spostamenti rilevanti di dipendenti in funzione dell’attività svolta. Il tutto con l’aggravante di non poter contare su agevolazioni fiscali e contributive che, secondo quanto riferiscono fonti vicine al dossier, sono state chieste al Governo, incassando però un secco no dal ministro Pier Carlo Padoan, che pure è stato ed è tuttora fra i mentori dell’aggregazione, insieme con il governatore Ignazio Visco.
Ma se gli azionisti ed i dipendenti della Bpm non beneficiano significativamente dell’operazione, il management invece dovrebbe acquisire un peso di rilievo nella governance in una banca di primario rilievo dimensionale. Castagna dovrebbe diventare l’a.d. del nuovo gruppo, con uno stipendio stimato di circa 2,2-2,4 milioni di euro l’anno, una situazione decisamente migliore rispetto a quella che gli era stata prospettata nel corso dei colloqui preliminari con Ubi Banca, dove avrebbe dovuto accontentarsi solo della poltrona di direttore generale, e una remunerazione più contenuta.
Quel che ancora di più sorprende in questi accordi di governance è la conferma ai vertici della nuova entità storico dello gruppo dirigente veronese, che poco ha da vantare a parte la lunga permanenza al potere. A cominciare dal conte Carlo Fratta Pasini, presidente della Popolare di Verona (poi diventata Banco Popolare) ininterrottamente dal 2004, e dallo stesso Saviotti, che nonostante gli otto anni trascorsi da quando sostituì Fabio Innocenzi (unico manager a pagare per gli errori su Italease) non è ancora riuscito a rimettere in sicurezza il Banco. Anzi, proprio a Saviotti si devono gli immani quanto vani sforzi per salvare il gruppo immobiliare di Danilo Coppola dal crac, ristrutturandone il debito, salvo poi arrendersi all’evidenza, e chiederne il fallimento: una situazione ingarbugliata, che è ben lungi dalla soluzione.
Nella nuova entità, comunque, la solidità della posizione di potere di Castagna, e dei consiglieri della Bpm a cui sono stati promesse posizioni nel consiglio della nuova entità e delle controllata, è meno robusta di quello viene percepito. La sopravvivenza di Bpm come entità giuridicamente autonoma all’interno del nuovo gruppo, che è comunque priva di qualsiasi giustificazione industriale, è limitata a tre anni, secondo quanto discusso finora. Il comitato esecutivo della nuova entità, poi, dovrebbe circoscrivere il ruolo dell’amministratore delegato mentre l’aumento di capitale sarà anche il momento per l’ingresso in forze, a valori favorevoli (grazie allo sconto che normalmente si applica), della Fondazione Cariverona, pronta a investire 1 miliardo di euro nelle Popolari. Denaro che verrà impiegato sull’asse Verona-Milano, più che verso Veneto Banca e Popolare di Vicenza, come si è scritto finora. La fondazione veronese si andrà ad unire ad investitori vicini al Banco che sono già largamente presenti nel capitale e sono stati visti acquistare titoli della Bpm in passato. A dispetto delle aspettative di centralità di Castagna, quindi, il comando rimarrà saldo nelle mani dei centri decisionali veronesi che orienteranno nel tempo i sacrifici ed anche una possibile razionalizzazione delle sedi.
Ma qualche timore nelle teste dei vertici milanesi e scaligeri bolle: la delibera della fusione richiede una maggioranza qualificata del 75 per cento. Il rischio che un’operazione così non passi in assemblea è elevato. Meglio allora trasformare prima le banche in società per azioni, cosa che richiede una maggioranza semplice, e poi deliberare la fusione con le maggioranze tradizionali. Purtroppo il mercato oggi non aiuta: il prezzo dei due titoli è sceso abbondantemente al di sotto del prezzo medio degli ultimi sei mesi, rilevante per il recesso in sede di trasformazione. Meglio aspettare allora che la media dei prezzi scenda, e prendere tempo.
Nella foto, la cupola del salone centrale di Palazzo Meda a Milano, sede della BPM
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