Finanza

Banche e sistema bancario ombra

7 Maggio 2018

È straordinario, e al pari molto preoccupante, osservare come nel giro di una generazione –  la mia–  il sistema bancario abbia avuto una così grande mutazione trasformandosi da fattore di sviluppo in co-promotore dell’impoverimento di interi ceti sociali in aree considerate floride e di grande capacità produttiva.

Quando ho iniziato a lavorare in banca, quasi cinquant’anni fa, le banche erano istituzioni, perlopiù pubbliche. Non era sempre stato così. Anzi le banche nascono e prosperano come iniziative private, ma tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento, anche a seguito di vari disastri bancari, la Politica si pose un obiettivo: stabilizzare il sistema bancario per renderlo capace di sostenere lo sviluppo economico e favorire la distribuzione di ricchezza attraverso la riduzione della disoccupazione e l’aumento del reddito medio della popolazione.

Non è stato un processo lineare: nel corso della prima metà del novecento abbiamo avuto almeno un paio di crisi economiche di grande portata e ben due guerre mondiali. Ma il secondo dopoguerra ha avviato un periodo, durato mezzo secolo, di sviluppo diffuso e crescita della ricchezza complessiva.

Questo è potuto avvenire anche perché i paesi più avanzati, a partire dagli Stati Uniti con il new Deal, e quindi i loro uomini politici, avevano adottato strategie e quindi leggi e regolamenti, intesi a salvaguardare la stabilità del sistema bancario correttamente interpretato come un elemento infrastrutturale al pari di ferrovie, autostrade, acquedotti, reti elettriche, scuole, ospedali eccetera. Le infrastrutture per loro natura sono al servizio dello sviluppo economico e, se efficienti, consentono di produrre più valore per il sistema complessivo di quanto ne assorbano.

In Italia questa impostazione trovò concreta applicazione con la legge bancaria del ’36. Per allora un monumento di modernità dove efficacia ed efficienza erano in equilibrio. Grazie a quella legge il sistema bancario italiano è stato stabile per quasi sessant’anni ed ha proficuamente collaborato alla trasformazione del nostro paese da economia prevalentemente agricola a potenza industriale con tutto quello che ne è conseguito in termini di benessere e diffusione, sia pur ineguale, della ricchezza della popolazione.

I banchieri erano consapevoli del loro ruolo e della responsabilità istituzionale che li gravava. Consapevoli prima di tutto del fatto che il rapporto tra banche e cliente è un rapporto essenzialmente basato sulla reciproca fiducia. La banca istituzione aveva all’ingresso le colonne, come le chiese, e veniva aiutata dalla Politica a coltivare la propensione al risparmio della popolazione. Questo non è un principio etico in se, ma è essenzialmente correlato al modello economico corrente.

Se i risparmiatori non portano i loro soldi in banca, la banca non può attivare quel meccanismo noto come “moltiplicatore bancario” necessario allo sviluppo economico favorito dalla creazione di moneta bancaria i cui volumi, nei paesi sviluppati, sono fino a 9/10 volte più grandi della moneta emessa dalla zecca dello Stato.

Almeno in superficie (e forse per molti non solo) i comportamenti dei banchieri, ma anche quelli dei loro dipendenti , erano intonati al loro ruolo istituzionale. Un po’ come accadeva per i dipendenti pubblici. Non era un caso se la struttura gerarchica delle banche era mutuata da quella pubblica ma anche da quella militare: impiegati, funzionari, dirigenti, dirigenti superiori, simile a soldati, sottoufficiali, ufficiali inferiori e ufficiali superiori. Struttura sparita nelle banche italiane dal 2000 in poi.

La soddisfazione di appartenere ad istituzioni rispettate ed autorevoli, era di per sé un elemento distintivo che creava orgoglio e status. D ‘altra parte le regole da osservare erano più coerenti con il principio di stabilità del sistema piuttosto che con quello dell’efficienza economica pura e semplice. Le banche pubbliche non dovevano distribuire dividendi, ma salvaguardare l’equilibrio patrimoniale  ed essere percepite come degne della fiducia collettiva. Si entrava in banca con rispetto. Avere li un conto era un fattore di prestigio. Conservo ancora una copia dell’ “Accordo interbancario per le condizioni” che riportava tassi e prezzi dei servizi bancari che le banche dovevano applicare. Oggi sarebbe corpo di reato.

L’etica professionale era coerente con un impianto normativo e regolamentare orientato allo sviluppo del benessere collettivo nel rispetto dell interesse individuale dove più e dove meno salvaguardato, ma mai del tutto assente. Il dovere come valore aveva una forte, diffusa considerazione ed i casi, non infrequenti, di inosservanza creavano scandalo ed allarme sociale. I comportamenti manageriali cui oggi assistiamo abitualmente  sarebbero stati sanzionati dalle norme oltre che dalla pubblica opinione. Anche i comportamenti privati dei banchieri erano particolarmente rigorosi e i loro stipendi erano non più del triplo o del quadruplo dello stipendio medio di un bancario. Oggi possono superare anche le 500 volte.

Mi è stato raccontato un episodio che descrive esattamente l’etica di allora. Siamo agli inizi degli anni 2000. Consiglio di amministrazione di una potentissima, allora, banca. Viene assunta, per la prima volta, una delibera per riconoscere ai dirigenti e ai consiglieri bonus legati ai futuri risultati. Il presidente fa la proposta che viene accolta. L’unico per il quale non viene deciso alcunché è proprio il presidente. Un consigliere interviene per farlo notare. Risposta del presidente: “quando mi faccio la barba la mattina non voglio chiedermi se la decisione presa ieri l’avevo presa nell’interesse della banca o del mio bonus”.

Perché oggi nessun banchiere si farebbe questa domanda?

Semplicemente perché l’etica è cambiata ed è palese ed accettato, anzi voluto dai soci, che le fortune economiche della banca e quelle del banchiere siano strettamente connesse. Pochi si scandalizzano se i banchieri percepiscono laute buone uscite anche se la loro gestione ha danneggiato la banca. Questi non sono atti banditeschi, ma nascono dai contratti di ingaggio, legittimi e necessari in un mercato molto competitivo dove se vuoi un manager di livello che tranquillizzi gli investitori ed il mercato in generale devi assicurargli i paracadute d’oro sin dall assunzione.

Tutto è cambiato nel 1993, anno in cui il sistema bancario italiano volta pagina. È l’anno in cui la legge del ’36 viene abrogata ed entra in vigore il TUB, Testo Unico Bancario. Cosa cambia? Il sistema bancario italiano si adegua al cambiamento in atto già da un decennio nel mondo occidentale.

Il liberismo ormai aveva preso il sopravvento e, all’insegna del motto “il mercato si autoregola”, le banche, ma non solo le banche, vengono privatizzate alla ricerca dell’efficienza e della creazione di valore. Il punto di partenza è che il sistema economico deve svilupparsi attraverso il debito che diventa la leva principale e la merce più diffusa.

A dir la verità le privatizzazioni del ’93 sono anche figlie della crisi valutaria della lira dovuta all’operazione speculativa messa in piedi l’ anno prima dal finanziere Soros. Un collegamento diretto non mi pare sia mai stato dimostrato, ma di sicuro è accertata la concomitanza. I tempi  erano maturi per disboscare la “foresta pietrificata” del sistema economico italiano, potente, ma sempre meno competitivo, stretto tra l’invadenza della politica corrotta, il debito pubblico crescente, la bassa produttività industriale, eccetera.

Dal 1993 le banche diventano quasi tutte imprese private, cominciano le grandi operazioni di concentrazione, si  adotta il modello della banca universale (ogni banca può compiere qualunque operazione comprese quelle che prima erano riservate a banche specializzate), la vigilanza della Banca d’Italia diventa prudenziale, molto meno dirigistica che in precedenza. Il sistema perde le caratteristiche di un sistema “amministrato”. La “deregulation reganiana” prende il sopravvento.

Al di là di qualunque altra considerazione, quello che qui conta è la mutazione dei comportamenti dei banchieri. Questi hanno ora un solo obiettivo: come qualunque amministratore di un’impresa privata, debbono puntare al profitto ed il profitto della banca diviene il parametro della loro retribuzione. Apparentemente nulla di sconvolgente. Sembra un modo legittimo di premiare il merito. Il fatto è che così si liberano gli “spiriti animali” ben descritti cinquant’anni prima da J.M. Keynes. Keynes non attribuisce una connotazione assolutamente negativa  agli “spiriti animali”, anzi, ma è fiducioso che una sapiente politica economica pubblica sappia incanalare le pulsioni ottimistiche ed istintive degli imprenditori verso il bene comune.

Questo non succede nel periodo che stiamo analizzando. Le banche, liberate dai vincoli della legge del ’36, progressivamente perdono la funzione istituzionale e diventano macchine al servizio del privato profitto anche perché la Politica ne diventa tributaria a causa del pesantissimo debito pubblico.

Ma c’è anche un altro fattore: la progressiva apertura dei mercati favorita dalla tecnologia digitale che prende sempre più piede, aumenta la competizione tra le banche sugli scenari globali e la loro contendibilità. Le banche progressivamente adottano logiche finanziarie riducendo la loro funzione creditizia.

Il fenomeno della mercificazione del debito attraverso le operazioni di cartolarizzazione, prima sconosciute, fa acquisire la prevalenza alle strategie “originate to distribute ” (eroga il credito e vendi il rischio sul mercato dei fondi speculativi), che spinge in alto il moral hazard, cioè l’appetito al rischio, in pieno contrasto con il comportamento prudente tipico del banchiere pubblico della legge del ’36.

La iperfinanziarizzazione del sistema bancario cambia il sistema di valori non solo dei consigli di amministrazione e della alta dirigenza, ma di tutta la struttura decisionale , fino all’ultimo impiegato. Ben sappiamo quanti danni abbiano provocato i sistemi incentivanti parossistici basati sulla vendita dei ” prodotti ad alto rischio ” allo sportello.

In effetti le reti bancarie si sono trasformate progressivamente, ma con velocità, in reti distributive di prodotti finanziari e non, allontanandosi sempre più dalla connotazione infrastrutturale di erogatori di servizi creditizi a supporto dell’economia reale. Oggi gli utili delle banche sono per oltre il 50% dovuti alle commissioni da intermediazione a favore dei fondi di investimento e sempre meno il margine di interesse contribuisce all utile netto.
Pur tuttavia le banche, essenziali per il “sistema dei pagamenti”, non perdono del tutto la funzione infrastrutturale. Solo che ora sono infrastrutture “private” con una bassa incidenza del controllo pubblico e, all inizio del fenomeno, vent anni fa, un celere allentamento delle regole.

Questa dicotomia fra impresa privata e funzione infrastrutturale è all origine dell’alterazione del sistema dei valori e favorisce comportamenti opportunistici. Sempre più orientati al profitto puro e semplice. Uno dei maggiori danni dovuto a regole insufficienti ed inefficienti e’ stato quello di contribuire a diffondere il moral hazard tra i clienti.

In un sistema bancocentrico come quello italiano, la logica dell’ “originate to distribute” ha accentuato la tendenza , molto italiana, degli imprenditori a far indebitare le loro aziende piuttosto che a patrimonializzarle. Da qui il permanente nanismo del nostro sistema produttivo dove il 95% delle imprese ha meno di 10 dipendenti.

Se le banche, prima della crisi, avessero erogato credito con maggiore prudenza, non contando sul trasferimento del rischio al mercato finanziario, forse tante aziende inefficienti non sarebbero neppure nate e tante famiglie non avrebbero comprato case oltre le loro possibilità o non sarebbero andate in vacanza indebitandosi. I meritevoli invece avrebbero avuto più agio di svilupparsi e crescere in un mercato non drogato dall indebitamento compulsivo. Di sicuro la crisi non avrebbe fatto tante vittime, banche comprese.

Ma anche il risparmiatore depositante è stato indotto al moral hazard, spinto dalle reti delle banche ad investire assumendo rischi non valutati e non compatibili, fino all’ estremo della sottoscrizione di titoli illiquidi delle popolari non quotate o ad alto rischio come le obbligazioni subordinate. Altro che il vecchio popolo dei BOT!!

In effetti i risparmiatori non avevano capito in tempo che la fiducia nelle banche, alimentata per tre generazioni, non aveva più lo stesso significato.

Le banche, divenute imprese, erano da considerare rischiose quanto una qualunque altra impresa. È la logica imposta dal tanto vituperato Bail-in, regola, tardiva, ma giusta se garantisse comunque i depositi lasciando il rischio agli investitori che debbono maturare una nuova consapevolezza etica. L’avidità non è buona consigliera per il buon padre di famiglia.

Se vogliamo invece prendere un esempio concreto di legge veramente mal fatta che induce a comportamenti non etici, anche se legittimi, parliamo del reato di usura così come riformulato dalla novella del ’96. Se l’obiettivo era quello di impedire anche alle banche l’applicazione di interessi esorbitanti, ha fallito in pieno. Basta osservare che da allora i tassi  di raccolta delle banche sono perlopiù costantemente diminuiti fino a diventare negli ultimi anni negativi, mentre i tassi soglia oltre i quali c’è l’usura sono costantemente aumentati ed oggi superano anche il 20%.

Questa legge è servita solo alle banche per penalizzare legittimamente i clienti a rischio crescente. Se i tassi soglia non fossero diventati così alti da incidere significativamente sui margini di interesse , sui quali vengono calcolati i bonus dei banchieri, le banche sarebbero state probabilmente più rigorose nell erogazione del credito e più efficienti nel controllo concomitante del rischio con la positiva conseguenza di doversi disimpegnare, ben prima di quanto sia accaduto, dalle relazioni creditizie a rischio crescente. E questo sarebbe stato un comportamento eticamente e tecnicamente corretto.

D’altra parte, se pensiamo che l’usura non è ancora un reato presupposto ai fini della legge 231 sulla responsabilità amministrativa dell impresa , comprendiamo quanto il Legislatore non abbia avuto la forza di imporre comportamenti eticamente convenienti per l interesse collettivo.

Questa panoramica, un po’ disordinata, ha un punto di sintesi.

Lo sviluppo economico non può essere lasciato solo al mercato. Il mercato non si autoregola, lo stanno capendo anche i liberisti più sfrenati. Non  si possono biasimare i banchieri ed i bancari se, nel vuoto delle regole, si muovono rispettando le uniche obbligazioni cogenti per loro : perseguire il profitto aziendale nell interesse dei loro azionisti che li ingaggiano e li premiano solo per questo fine.

Come conseguenza della crisi  finanziaria del 2007 stiamo  però assistendo da qualche anno ad un fenomeno controintuitivo rispetto alle impostazioni liberiste: la iperegolamentazione. Legislatori e Regulators hanno sentito  il bisogno di scrivere milioni di pagine di leggi, regolamenti, circolari, policy orientate ad intervenire in modo quasi puntiglioso per irreggimentare gli spiriti animali liberati nella seconda metà del secolo scorso: un vero e proprio dietrofront! Si potrebbe dire: finalmente !

La ricerca dell’efficienza nella creazione di valore non può prescindere da comportamenti, non solo legittimi, ma anche etici perché il bene collettivo deve essere considerato superiore agli interessi individuali che possono essere soddisfatti solo se la responsabilità sociale dei grandi operatori economici è osservata come parametro di comportamento. Ma questo accade solo se la legge è adatta a contenere avidità ed interessi individuali in contrasto con l’interesse generale. Ecco qui il primato della Politica.

È un problema di equilibrio da ricercare per ottenere uno sviluppo sostenibile. La ricerca di questi equilibri è estremamente complicata in un mondo digitalizzato e globalizzato. Tornare indietro è impossibile, ma impedire il succedersi di catastrofi e contrastare la polarizzazione della ricchezza è ormai doveroso ed è ormai un sentimento generalizzato. Francamente, però, non sono ottimista,  anche perché non ho personalmente gli strumenti intellettuali per individuare la via.

Mi limito a fare un’ultima osservazione. Le banche e i banchieri sono sempre più condizionati dalle regole dell’iperegolamentazione. Lo scopo è quello di evitare crisi bancarie prossime venture in presenza di crisi economico-finanziarie prossime venture. È un bene? Sì. Ma non vorrei che fosse solo una battaglia di retroguardia.

Come si farà, difatti, a contenere l’espansione del cosiddetto Shadow banking System, cioè del sistema finanziario non regolamentato, un sistema-ombra, che ormai gestisce flussi finanziari per un valore doppio rispetto a quello delle banche ed è costantemente in crescita? Chi ne modererà gli spiriti animali visto che non esiste un’autorità politica globale capace di intervenire legittimamente sullo stesso territorio, il mondo, dove la finanza non regolamentata gioca a tutto campo come battitore libero?

Non ho una risposta, ma ormai l’argomento è della massima concreta attualità.

 

 

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