Finanza
Banca Etruria e conflitto d’interessi: alti strepiti, deboli argomenti
Qualcuno ha di recente lamentato l’abnorme quantità di tempo che si spreca ogni giorno nel dibattere “temi e argomenti dell’attualità irrilevanti”. Il “caso Boschi” è in buona parte ascrivibile a tale malsana tendenza.
Nondimeno, non fosse altro perché se ne discetta da un paio di decenni, in un paese in cui corruzione e scarsa trasparenza sono ampiamente diffuse, quella del conflitto di interessi rimane pur sempre una questione molto importante, meritevole di riflessione più attenta. Attenta, cioè il contrario di quanto abbiamo letto e sentito fin qui. Attenta, ovvero non riducibile alle mera polemica politica da quattro soldi, culminata nella alquanto ridicola mozione di sfiducia del Movimento 5 Stelle.
A essere sinceri, è persino difficile commentare, perché se è vero che si è ascoltato di tutto, l’unica cosa che è mancata è un’articolazione seria che definisse la natura del conflitto di interessi che coinvolge Maria Elena Boschi. Nulla, se non invettive violente quanto vacue – vedi Saviano, che per non avere uno straccio di argomentazione dedica la più parte del suo intervento su Boschi a… Berlusconi (chi altro?) – e accuse completamente generiche. Nulla o poco più.
All’inizio, è sembrato che il vero punctum dolens fosse un presunto favoritismo nei confronti degli (ex)amministratori delle banche coinvolte nel famoso decreto – il cosiddetto “scudo” per gli amministratori, incluso il padre del ministro, “un comma in base al quale chi ha sbagliato non pagherà. Ecco il punto” (sic!) – salvo scoprire poi che si trattava di una frottola mal confezionata, circostanza che ha rivelato assai più dello stato pericolante di certo giornalismo italiano che non del conflitto di interessi.
Dopodiché, constatato che di wrongdoing non c’era traccia, si è passati a sostenere una tesi apparentemente più sottile, obiettando alle osservazioni sull’assenza di trattamento di favore dei parenti,
che il conflitto di interessi è uno stato, una condizione e, come tale, prescinde da qualsiasi atto concreto, perché basta la sola possibilità teorica che un favoritismo/vantaggio di qualche natura possa trovare riscontro. Basta per che cosa, tuttavia?
Sebbene quasi tutti esibiscano certezze granitiche, in realtà vi sono molteplici situazioni di conflitto di interesse potenziale che sono tutt’altro che semplici da dirimere, per cui esiste “doubt” ed è necessario esercitare notevole “judgment” – parole che ricorrono spesso nei codici di condotta dei governi anglosassoni, di norma considerati una sorta di benchmark virtuoso -, tanto che non è infrequente l’uso del condizionale o che si suggerisca di consultare “the Prime Minister” per determinare “the appropriate course of action”, indicando, dunque, il ricorso a una certa discrezionalità (politica). Di sicuro, è inesistente e assurdo l’automatismo delle dimissioni che si è voluto far passare per ovvio negli ultimi giorni.
Si prenda, ad esempio, il Manuale di Condotta del governo neozelandese (quello australiano è molto simile), il cui filo conduttore è duplice, riassumibile con due parole: competenza e disclosure.
Competenza significa che si tende a concentrarsi sull’ambito di azione del ministro oggetto di attenzione, sulle competenze specifiche del suo dicastero,
“If a conflict between a Minister’s portfolio responsibilities and a personal interest is substantial and enduring, it may be necessary to consider a permanent change to some or all of the Minister’s portfolio responsibilities”.
Il governo ha appena concesso un prestito ponte all’Ilva di Taranto: se all’Ilva avesse lavorato il cugino del ministro degli esteri o dell’agricoltura, qualcuno avrebbe sollevato tale polverone? Lecito dubitarne. Nella foga degli attacchi personali, ci si è scordati di dire quali sarebbero le competenze del ministro delle riforme istituzionali in materia di banche e finanza. Questo perché, a ben vedere, non ne esistono.
E, in simili casi, gli obblighi sono solitamente considerati molto meno stringenti che in presenza di responsabilità diretta,
“Where a Minister has a conflict of interest that arises during general decision making (for example, at a meeting of Cabinet or a Cabinet committee), but the Minister does not have ministerial responsibility for the issue, a declaration of interest will generally be sufficient. Having declared the interest, the Minister should either withdraw from the discussion or seek the agreement of colleagues to continue to take part”.
Davvero difficile sostenere che non vi sia stata disclosure, visto che anche i sassi sapevano che alcuni parenti del ministro Boschi lavora(va)no in banca Etruria.
Per il resto, nella misura in cui i membri di un governo hanno costantemente accesso a informazioni riservate, c’è sempre la possibilità teorica di avvantaggiarsene, fino a violazioni di natura penale,
“Ministers must therefore be careful not to use information they access in the course of their official activities in a way that might provide some special benefit to family members or close associates. Passing on commercially sensitive information, or encouraging others to trade on the basis of that information, may also breach the insider trading regime. Such a breach may result in a significant fine or term of imprisonment”,
le quali, però, vanno ovviamente provate, non essendo ancora sufficienti le mere illazioni di Travaglio e sodali.
Nella maggior parte dei casi, la presenza di un potenziale conflitto di interessi non implica in alcun modo la fine dei “diritti politici” del soggetto coinvolto. Le linee guida menzionate sopra servono esattamente a questo: a gestirlo, con modalità diverse a seconda della tipologia e dell’intensità; a ricondurlo in ambito di trasparenza e conoscibilità. Non serve negare che esista, non serve nemmeno prodursi in comiche filippiche e richieste di dimissioni. Serve, soprattutto, un poco di ragionevolezza.
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