Finanza

Atlante: siamo sicuri che sia il vero nome della soluzione?

2 Maggio 2016

In questi giorni molti si sono espressi in merito all’ iniziativa del Fondo Atlante, che si è sviluppata – come dice la stessa presentazione di Quaestio, la SGR che gestirà il fondo – in tempi da record per progetti di questo tipo.

Nelle diverse opinioni raccolte manca un elemento di fondo, che dovrebbe essere sempre presente in queste analisi, al fine di evitare che si pensi, come sta accadendo ormai da diversi anni, che una soluzione finanziaria possa andare ad incidere su un problema molto più concreto di tipo “industriale”. Le banche italiane – ma non solo quelle – scontano anni di politiche di credito basate su garanzie immobiliari che al momento buono si sono rivelate del tutto incapienti a permettere il rientro di quanto erogato. Oppure basate su quella che gli anglosassoni chiamano il relationship banking, dove il driver della decisione creditizia non è il sottostante (piano) industriale, bensì l’appartenenza ad un network relazionale che, a volte, sconfina in un conflitto di interesse. Proprio perché questi due driver hanno portato le banche ad avere oltre 300 mld di Euro di crediti incagliati, oggi in Italia ci troviamo con un sistema finanziario percepito dal mercato come troppo rischioso ed un sistema Paese che rende difficile il recupero dei crediti incagliati.  E questo lasciando da parte le questioni patologiche che tutti abbiamo sotto i nostri occhi.

Ora la gestazione del fondo Atlante, per ammissione dello stesso documento di presentazione dell’iniziativa è stata straordinariamente veloce (dall’11 data dell’annuncio al 29 di Aprile per il closing di un fondo da 4.249 miliardi) in un mondo, quello dei fondi di investimento, dove per arrivare al closing, di solito, sono necessari mesi.

Un minimo dubbio sul perché di tanta rapidità, credo, possa essere giustificato. Ebbene – e va sinceramente dato atto al team di Quaestio della totale trasparenza – leggendo la presentazione del fondo, che inizialmente viene presentato come un fondo per rendere più “liquido” il mercato italiano dei non performing loans (NPLs), si scopre invece essere dedicato “Fino al 70%” ad investimenti “in banche i cui ratio patrimoniali siano inferiori a quelli richiesti e per almeno il 30% in NPLs” (Cito testualmente dalla presentazione di Quaestio SGR). Stiamo dunque parlando di un fondo disegnato per salvare quelle banche (e nel frattempo magari per levare le castagne dal fuoco a quelle istituzioni che si sono esposte un po’ troppo garantendo gli aumenti di capitale necessari) – e sono ahimè molte – che oggi non potrebbero essere salvate a condizioni di mercato.

Sempre dalla presentazione del Fondo si desume che, per quanto riguarda gli investimenti nelle banche, “il Fondo non sottoscrive più del 75% della singola emissione, a meno che la sottoscrizione di una quota maggiore sia necessaria ai fini del buon esito dell’operazione”. E guarda caso due giorni dopo si legge dalle cronache che il fondo potrebbe – non è chiara la esatta allocazione – finire per sottoscrivere il 91% dell’aumento della Popolare di Vicenza ed addirittura oggi si legge di una partecipazione superiore al 99%.

Pur non volendo focalizzarmi troppo sulle numerose coincidenze che si ravvisano nelle tempistiche summenzionate, sempre nella presentazione del fondo, si legge “Il Fondo non esercita attività di direzione e coordinamento sulle banche in cui partecipa”. Questo vuole dire che nonostante abbia sottoscritto quasi la totalità dell’aumento di capitale della Popolare di Vicenza, il Fondo Atlante non agirà da azionista attivo (e di controllo)? Come pensa dunque il General Partner di garantire ai LPs (limited partners), tra cui spicca la CdP, il rendimento atteso (6% annuo, ben diverso, per difetto, come dice lo stesso Fondo nella sua presentazione, dai normali rendimenti dei fondi speculativi che investono in “situazioni distressed”), se il Fondo non intende partecipare attivamente alla direzione ed al coordinamento della sua partecipata?

In sintesi ci troviamo di fronte ad una entità che dovrebbe, con il 70% dei sui denari: i) salvare le banche italiane distressed e ii) farlo a condizioni diverse da quelle di mercato. E per fare ciò utilizza capitale della CdP, delle stesse banche ( quelle sane) e di altri investitori istituzionali. Siamo certi che l’operazione possa essere considerata un’operazione di mercato?

Perché invece di cercare di rattoppare situazioni che in un normale mercato dovrebbero vedere le banche saltare (ed i resposnabili essere giudicati con opportune azioni di responsabilità) in Italia si prosegue cono operazioni di compromesso poco comprensibili dai mercati?

Ancora più importante, perchè i nostri decision makers non cercano invece di affrontare i veri problemi in modo diretto e trasparente?

a)      In Italia ci sono troppe banche ed in generale troppo piccole. Il Governo Renzi ha cercato, in più modi, di favorire le possibili aggregazioni ma, nel paese dei campanili, siamo sicuri che questo sia sufficiente? La nostra economia è (purtroppo) ancora un’economia di PMI – secondo l’ultimo studio Moody’s i cui risultati sono stati riportati dai giornali la scorsa settimana, esse rappresentano il 67.3% del valore aggiunto, il più alto nell’Europa occidentale, pari solo a quanto accade in Portogallo ma ben più alto dello stesso valore in UK, Francia e anche in Spagna. Normalmente le PMI che operano nello stesso settore sono concentrate nelle stesse zone (solo per fare qualche semplicistico esempio le piastrelle a Sassuolo, l’oreficeria in Toscana o a Valenza, gli elettrodomestici nelle Marche) e si rivolgono spesso alle stesse banche (BCC o popolari) ben radicate negli stessi territori. È quindi naturale che se un settore merceologico entra in crisi, una (piccola) banca locale non può che soffrirne di conseguenza. In economia si chiama concentrazione del rischio.

Sarebbe forse opportuno che i nostri decisori pubblici cominciassero a pensare ad iniziative che permettano al nostro sistema creditizio di svincolarsi da tale concentrazione. Se questo vale per le piccole banche vale anche per le medio grandi, che sono di fatto, con forse l’unica eccezione di Unicredit -diamone atto ad Alessandro Profumo quando cercò, nonostante Fazio, di costruire una banca Europea – banche domestiche e soffrono quindi dello stesso problema di concentrazione sul rischio Italia (elemento questo sottolineato anche dalle attuali polemiche con i tedeschi sull’impatto del rischio che deriva dai portafogli di titoli di stato). Perché il governo, cercando di favorire un vero afflusso di capitale privato magari usando i denari della CdP come “anchor investor”, non prova a promuovere, con gli opportuni strumenti che ha a disposizione, una vera concentrazione del settore e magari ad indirizzare, di concerto con la BCE e con Banca d’Italia, la creazione di una banca italiana capace di crescere e competere internazionalmente con i grandi gruppi bancari europei (HSBC, BNP Paribas, Deustche Bank, Santander solo per fare qualche nome)?

b)      Il problema degli NPLs non si risolve né con il fondo Atlante né con altri tentativi – di per sé destinati all’insuccesso in quanto nessuno oggi può pensare di contrastare le masse di migliaia di miliardi di Euro che si muovono su questi assets – di cambiare le dinamiche di mercato. Come molti illustri commentatori, nonchè la stessa presentazione del fondo Atlante e, non da ultimo, il Presidente del Consiglio hanno sottolineato, se si vuole dare una spinta alle quotazioni degli NPLs italiani bisogna agire sui veri drivers del valore di tale asset class: efficienza del recupero del credito, capacità di escussioni rapide delle garanzie, certezze dei tempi della giustizia civile, favorire il recupero del credito anche con la pesante penalizzazione del debitore e dei suoi azionisti. Visto che l’Italia, a mio avviso sbagliando, si è illusa di poter fare da sola, quando altri Paesi, come ad esempio la Spagna, molto simili a noi per tessuto economico, si sono piegati alla “troika” ed hanno chiesto il denaro degli enti multinazionali per risolvere l’indigestione di NPLs che sono derivati dalla crisi in cambio di una limitata cessione di sovranità, ora non possiamo che soffrire delle conseguenze di tale scelta. I capitali vanno dove più gli conviene e, allo stato attuale delle cose, se gli investitori specializzati in NPLs considerano che in Italia i prezzi di mercato si aggirano tra i 15-20 centesimi per Euro di valore nominale, valori ben lontani dai valori di bilancio di tali crediti, non credo che uno o più Fondi Atlante gli faranno cambiare idea. I capitali vanno dove possono ottenere il miglior ritorno aggiustato per il rischio ed a prezzi superiori a quelli che sono oggi offerti non pensano che investire in NPLs in Italia sia un buon affare.

In sintesi ben vengano iniziative come quella di Atlante ma chiamiamole con il loro vero nome: iniziative che utilizzano il denaro di alcuni soggetti “politicamente interessati” – CdP, banche, assicurazioni – per “allungare il brodo” senza voler/poter davvero affrontare i veri problemi di un paese che ancora non vuole riconoscere che la stagione del “piccolo e local è bello” si è definitivamente conclusa.

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