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Usa-Cina, giganti dai piedi di argilla, piegati da una montagna di debito
Due anni fa scrissi su questa prestigiosa piattaforma una riflessione in merito alla situazione dei mercati mondiali; indicai quattro fattori critici da considerare quali spie di una prossima, grave, crisi economica. Lo feci, come è doveroso trattando questi temi, con dati alla mano e non condividendo chiacchiere da bar. Il pezzo fece discutere. Ricordo con simpatia, tra i tanti, il commento di un insigne economista della Bocconi: “Lei è un idiota!”.
Oggi, ahi noi, si parla sempre più insistentemente del rischio di una nuova crisi; nel 2018 è corso un brivido nella schiena di tutti, poi parzialmente passato in questa prima metà del 2019. Ma quei segnali, forniti due anni fa, sono ancora validi, anzi. L’unica differenza è che rispetto ad allora la situazione è peggiorata. E se avrete la pazienza di leggere, porterò alla vostra attenzione nuovi numeri altrettanto inequivocabili.
Partiamo innanzitutto col precisare che il rallentamento economico che ha così spaventato i mercati lo scorso anno ha solo minimamente a che fare – per essere generosi – con la guerra dei dazi.
Nel 2018 la Cina ha visto aumentare l’interscambio commerciale con gli Stati Uniti del 10% e i problemi di caduta dell’export dovuti ai contrasti con l’America si sono manifestati solo nei recenti dati commerciali di Febbraio e Marzo. I veri motivi del rallentamento globale sembrano dovuti invece ad una netta contrazione del credito al consumo negli Stati Uniti, che ha procurato una frenata (dati Fed Reserve) nei consumi interni e negli ordini di beni durevoli, unita ad una seria difficoltà della Cina sul fronte della domanda interna.
Lo si vede bene se si allarga l’orizzonte geografico: il crollo delle esportazioni verso la Cina da parte degli altri paesi emergenti è iniziato nell’ultimo trimestre del 2018, eppure tra Cina e EM non c’è una guerra di dazi in corso.
Stessa dinamica vista dall’inizio del 2018 col crollo delle esportazioni giapponesi verso la Cina. E anche qui non c’è una guerra di dazi.
Il calo poderoso delle importazioni cinesi dall’Europa è iniziato nel primo trimestre 2018, ma anche qui non pare ci sia una guerra di dazi.
Sembra semmai che il sistema economico cinese si sia piantato per motivi endogeni, con un problema di domanda più che di offerta.
Se andiamo ad analizzare la curva del Pil cinese dal 2014 (dati National Bureau of Statistic of China) ad oggi si può notare come il rallentamento cinese si iniziato nel terzo trimestre ’14, ben prima delle minacce del Presidente americano e ben prima che Trump pensasse anche solo di diventare Presidente.
Una conferma viene anche dai dati del settore auto, mercato interno quindi. Ad aprile il calo m/m della produzione di veicoli in Cina è stato del -20%, con un -14,5% a/a. Stessa musica dal lato delle vendite, con un -21,4% m/m e -14,6 a/a.
Se allarghiamo il focus anche in questo caso si nota come la produzione di veicoli nell’anno solare sia calata dell’11% mentre le vendite siano andate giù addirittura del 12,1%.
Prendendo in considerazione il settore bancario, anche qui i dati sono poco confortanti: gli Npl (non performing loans) totali delle banche commerciali cinesi ha superato i 2000 miliardi di yuan (circa 300 miliardi di dollari), sui livelli più altri degli ultimi 10 anni.
Passando in rassegna invece la situazione economica statunitense, che gode (apparentemente) di ottima salute, ci possiamo rendere conto di qualcosa di molto serio. L’America del dopo Lehman Brothers, ha usato debito e leva come strumento per uscire rapidamente dalla peggiore crisi finanziaria degli ultimi 80 anni. Missione compiuta. Ma a quale costo? Allacciate le cinture.
Gli Stati Uniti hanno accumulato un debito con l’estero pari al 50% del PIL (nel 2007 era il 22%). In sostanza l’America per continuare a crescere è stata ed è tutt’ora costretta a fare nuovo debito.
Ma siccome la capacità di risparmio degli americani non è in grado di soddisfare l’offerta, ecco che gli Usa si sono trasformati in un enorme aspirapolvere della liquidità presente nelle altre economie, allettate da investimenti appetitosi sia nell’azionario sia nel reddito fisso. Un enorme flusso di denaro da Europa, Giappone e Asia Emergente, investito in America e sottratto così alla crescita dei paesi di origine di quelle monete.
Qualcuno a questo punto dirà: non è così, non è possibile. I dati sono chiari: nel 1999 gli investimenti esteri sui mercati finanziari degli Stati Uniti erano pari al 54% del PIL, nel 2007 il 52% e oggi siamo al 68%.
Attualmente gli investitori esteri detengono il 50% di tutti i Corporate Bond americani, il 30% dei Titoli di Stato Usa e il 25% della capitalizzazione del mercato azionario USA. Si tratta della più elevata allocazione di risorse dall’estero, riscontrata solo nel 1928 e nel 1999 (purtroppo le coincidenze temporali non sono di buon auspicio).
E non è finita. Il problema è che la qualità di questa montagna di debito è decisamente la peggiore di sempre: il 30% dei Corporates Bonds sono High Yield, il 50% dei Bonds con rating Investment Grade sono BBB (nel 2007 erano solo il 25%), il 27% circa del credito erogato dal sistema finanziario è Subprime (nel 2007 era il 24%) e i Leverage Loans sono raddoppiati rispetto al 2007, pari al 6% del PIL Usa.
Così come va rilevato che negli Usa, dal momento esatto in cui la Fed ha iniziato a rialzare i tassi, si è verificata una sensibile contrazione della domanda di prestiti al consumo. (Fonte FRB, DB Global Research). Tassi più alti, rate più alte, cui ha fatto seguito una crescita delle sofferenze.
In sintesi, i due motori dell’economia mondiale vanno a fatica, sono entrambi cresciuti con il ricorso al debito, lungo un ciclo che sembra essere arrivato vicino al capolinea.
La crescita mondiale in sostanza dipende dallo stato di salute di due giganti la cui crescita è esageratamente collegata a debito e leverege.
Il debito americano, in termini assoluti, segna infatti un +36% rispetto al 2007 mentre quello cinese un +120% .
La Cina che ha ben chiara la situazione, ha deciso di puntare tutto sul Made in China 2025 e sulla Belt and Road. L’America ha giocato la sua carta fiscale lo scorso anno per dare un nuovo boost. E adesso?
Di certo c’è che gli Usa sono apparentemente molto forti ma paradossalmente molto deboli perché dipendenti dai capitali stranieri che sorreggono la mostruosa macchina americana.
Ago (a tre punte) della bilancia in questo momento: Fed, dollaro e inflazione. Un deprezzamento del dollaro, una crescita dell’inflazione o nuovi interventi sui tassi potrebbero mettere davvero a rischio questo delicatissimo equilibrio. E vista la delicatezza del momento, appaiono quanto meno distoniche le uscite twittarole e canterine del presidente Trump che nel momento stesso in cui chiede energicamente il taglio dei tassi e un dollaro più debole, forse no sa o non vuole sapere che tali dinamiche potrebbero innescare reazioni imprevedibili.
A questo punto la domanda che io stesso mi faccio è: quale sarà il trigger point, il momento di rottura? La risposta è sempre la stessa, la fiducia degli investitori.
Negli ultimi 10 anni c’è stata una evidente distorsione della percezione rischio-rendimento. Per trovare rendimenti ritenuti accettabili, si è andati a prendere più rischio. Quando il rischio-rendimento percepito oggi non sarà più ritenuto accettabile, anche solo banalmente perché il rendimento non sarà più remunerativo (perché l’inflazione cresce o il dollaro si indebolisce), allora lì ne vedremo davvero delle belle.
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