Ucraina, nonviolenza e guerra giusta
Ieri Donatella Di Cesare, professoressa ordinaria di filosofia presso l’Università di Roma “La Sapienza”, è intervenuta nella trasmissione Piazzapulita per ricoprire un ruolo scomodo, ossia per ricordare ai presenti e ai telespettatori, riguardo alla questione ucraina, le ragioni della pace e del non interventismo. Tra l’altro, ha affermato chiaramente che «non è assolutamente accettabile la guerra per conquistare né la libertà né la pace» e pure che «la pace vuol dire anche interrogarsi sulle ragioni dell’altro e pensare di poter avere torto». Parole difficili da accettare per molti oggi in Occidente, perché, sull’onda delle paure e delle contrapposizioni, si tende in questi giorni a costruire un nemico contro cui scagliarsi senza riserve; atteggiamento peraltro molto pericoloso, che potrebbe essere sfruttato, come spesso avviene, da coloro che dalle contrapposizioni nette traggono vantaggi politici, strategici ed economici.
Commentando l’intervento di Donatella Di Cesare, Antonio Vigilante ha pubblicato un articolo molto interessante, nel quale riflette su un argomento da lui lungamente studiato, ossia quello della nonviolenza. Antonio Vigilante per prima cosa nota come una giovane ucraina presente alla trasmissione abbia fatto notare a Donatella Di Cesare che è facile parlare di pace quando la si ha in casa e, quindi, non si è a contatto con l’esperienza terribile della guerra.
Antonio Vigilante prosegue ricordando la distinzione «tra azioni e inazioni necessarie e azioni e inazioni supererogatorie», ossia tra quelle azioni o inazioni a cui siamo necessariamente tenuti da un vincolo morale e quelle che si può decidere di compiere, anche meritevolmente, ma alle quali non si è moralmente vincolati. Vigilante propone l’esempio di un’azione moralmente necessaria, quale quella di soccorrere una persona che sta male, e di una supererogatoria, ossia quella di soccorrere una persona al prezzo della propria vita: alla prima siamo moralmente tenuti, alla seconda, per quanto possa essere considerata eroica e meritevole, non siamo invece necessariamente vincolati. Se qualcuno compie un’azione supererogatoria, prosegue Vigilante, lo apprezziamo proprio perché «ha fatto più di quello che è ragionevole chiedere a qualcuno».
Qui però già ci si offre, a mio avviso, una questione filosoficamente molto spinosa: in base a quali criteri definiamo quali sono le azioni e le inazioni necessarie e quelle supererogatorie? Chi stabilisce ciò che è giusto e non è giusto fare, ciò che è doveroso o soltanto preferibile? Il giudizio personale di ognuno potrebbe essere compromesso da reazioni emotive, paure, interessi, mancanza di lucidità o di informazioni. Nessuno detiene la possibilità di definire norme incontestabili in campo morale.
Antonio Vigilante prosegue definendo l’etica evangelica della nonviolenza come interamente supererogatoria. In effetti sappiamo che nel racconto evangelico Gesù invita i propri discepoli a porgere l’altra guancia a chi li percuota o anche a facilitare l’azione di chi compie un sopruso su di loro, per esempio lasciando il mantello a chi li cita in tribunale per sottrarre loro la tunica:
«Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra, e a chi vuole portarti in tribunale e toglierti la tunica, tu lascia anche il mantello. E se uno ti costringerà ad accompagnarlo per un miglio, tu con lui fanne due. Da’ a chi ti chiede, e a chi desidera da te un prestito non voltare le spalle» (Mt 5,38-42, trad. CEI 2008).
Qui il problema morale si presenta in tutta la sua forza: come si determina il confine tra ciò che è necessario e ciò che è supererogatorio? A mio avviso, questo confine non esiste: è parte integrante della condizione incerta dell’esistenza il fatto che non possiamo mai essere convinti di aver fatto abbastanza. In ogni occasione si può fare di più e in ogni occasione possiamo scegliere di spingere un po’ più in là la dedizione con cui ci si offre al servizio dell’altra persona. Questo aspetto configura a mio avviso l’etica come una realtà essenzialmente utopica: la perfezione etica non può mai essere raggiunta, ma rimane come un punto di riferimento che dirige la nostra azione, sempre necessariamente limitata e insufficiente. Il pensiero nonviolento si fa carico della dimensione utopica dell’etica. Il nonviolento è colui che vuole spingere il proprio agire, o il proprio non agire, sempre un passo più in là verso la non opposizione all’agire altrui. Da questo deriverebbe la possibilità di sottoporre a critica il concetto stesso di resistenza nonviolenta, in quanto, nell’ottica evangelica, ogni resistenza si caratterizzerebbe come violenta.
Da questo punto di vista, non ha senso, a mio avviso, affermare, con Antonio Vigilante, che «non si può chiedere a chiunque di porgere l’altra guancia»: la complessità dell’agire umano è talmente grande che spesso non si può stabilire con totale certezza ciò che sia moralmente necessario fare, ma si può sempre gettare lo sguardo verso l’orizzonte utopico che ci attira a una sempre più totale dedizione all’altro, al diverso da noi, alla persona che ci sta di fronte e ci trascende totalmente con la sua umanità.
Antonio Vigilante passa poi a ricordare che la nonviolenza «è una forza che agisce nella realtà storica, e la realtà storica è il luogo di una complessità irriducibile a leggi e meno che mai a slogan», suggerendo così che non ha senso affidarsi a slogan semplicistici che intendono la nonviolenza come una scelta semplice e netta nel suo radicalismo. Inoltre, secondo Vigilante, «resistere scegliendo la via nonviolenta è una scelta supererogatoria» e «nessuno può chiedere a un popolo una simile scelta supererogatoria».
L’errore di Antonio Vigilante consiste a mio avviso nel voler conciliare la scelta nonviolenta con il diritto. La rivendicazione del diritto è di per sé una scelta non aderente al principio della nonviolenza, e il passo del vangelo di Matteo prima citato ci mette proprio di fronte all’eccezionalità di questa realtà. Non so se Gandhi. cui Antonio Vigilante fa riferimento, abbia elaborato un concetto realmente coerente di nonviolenza. Di sicuro sappiamo che in Europa ci sono stati pensatori radicalmente nonviolenti e radicalmente antinazisti che si sono interrogati sulla legittimità di una resistenza armata al nazismo. Vigilante tende a mio avviso a ricondurre il concetto filosofico di guerra giusta, intesa ovviamente secondo i suoi criteri, al concetto di nonviolenza. Sembra che Vigilante suggerisca che in certi casi la guerra può essere giusta, come quando si compie una lotta di resistenza all’occupazione, e, in quanto giusta, la guerra giusta non è violenta. Qui si ha una sovrapposizione tra due concezioni filosofiche che dovrebbero invece rimanere ben distinte: quella della guerra giusta e quella della nonviolenza. Nessuna guerra, neppure la più pretesamente giusta e la più legittima del mondo, è mai compatibile con il concetto di nonviolenza. Nel vangelo di Giovanni si leggono le parole di Gesù a Pilato:
«Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù» (Gv 18,36, trad. CEI 2008).
Mi sembra che questa affermazione sia in sintonia con quanto è scritto nel passo di Matteo prima trascritto: la nonviolenza non segue le regole di questo mondo. La nonviolenza è estranea al diritto e alla legge di questo mondo, perché segue una legge che trascende il mio “io” per aprirmi ad una accettazione totale della trascendenza dell’altro e del suo agire sulla mia vita. La nonviolenza è utopica e radicale: non è una questione di slogan, bensì di concetti filosofici da tenere ben presenti nella loro specificità.
Comprendo che ci siano pensatori e intellettuali che rivendicano il diritto dell’Ucraina all’autodifesa: è un diritto, appunto, di questo mondo; comprendo molto meno però come alcuni rivendichino la possibilità di ritenere conciliabile la resistenza armata con il pacifismo e la nonviolenza. Non esiste la nonviolenza armata. La nonviolenza è sempre, necessariamente, un’utopia disarmata e disarmante.
5 Commenti
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Non esiste diritto se non c’è dietro la forza di farlo valere.Tale premessa è d’obbligo in un mondo nel quale ogni giorno si deve mangiare per non morire e le risorse sono limitate;un mondo nel quale la lotta per la sopravvivenza è la regola
Mi chiedo, poi, perché si debba tirare sempre in ballo la superstizione religiosa, in particolare quella cattolica, fonte di intolleranza continua da 2000 anni, a partire dalla divinità descritta nei testi “sacri”, nei quali gesù/dio minaccia e condanna per l’eternità chi sarà colpevole di non credere in lui; nei quali dio uccide e suggerisce di farlo; nei quali gesù annuncia di voler essere una spada che divide le famiglie (a causa della fede.
Per fare del bene la superstizione religiosa non serve; al contrario essa è SEMPRE terreno fertile per l’intolleranza, a qualsiasi latitudine ed in ogni tempo: ancora oggi la chiesa cattolica è vettore di omofobia, maschilisimo e contro leggi civili come l’eutanasia e, soprattutto contro la pianificazione familiare, procovando quella sovrappoplazione nei paesi poveri come filippine e sudamerica che comporta maggiore povertà
Qui la mia risposta: https://antoniovigilante.substack.com/p/cosa-non-e-la-nonviolenza?utm_source=facebook&s=w
Non sono d’accordo, e ho scritto perché nel mio breve pezzo.
Ha perfettamente ragione Vigilante. La scelta di porgere l’altra guancia è rispettabilissima come posizione individuale di natura in senso la to religiosa. Nei rapporti tra stati significherebbe solo negare l’esistenza del male nella storia e invitare i violenti nazionalisti espansionisti al banchetto. Possibile che dai tempi di Chamberlain e Churchill qualcuno non abbia ancora imparato la lezione ?