Era quasi al termine della sua vita Immanuel Kant (1724-1804) quando nel 1798 scrisse nell’ultima opera pubblicata – il Conflitto delle facoltà (1798) – parole come queste sulle sue meditazioni a proposito della guerra: «È conforme al diritto e moralmente buona solo quella Costituzione di un popolo […] tale quindi da poter tener lontana la guerra (origine di ogni male e di ogni corruzione di costumi)». Proviamo a ripercorrere l’itinerario teorico che perviene a questa dichiarazione finale sulla questione della guerra.
Dopo aver elaborato nel corso degli anni ‘80 il trittico delle sue critiche (della ragion pura, della ragion pratica e del giudizio) che chi di noi ha frequentato il liceo si è affaticato a studiare al secondo anno del triennio, Kant aveva optato nei suoi testi a riferimenti riguardanti i processi storici e politici del suo tempo. Alle sue spalle si addensava l’esperienza degli orrori nella sua città natale, Königsberg, appartenente al regno di Prussia, che egli amava molto e dove risiedette per tutta la vita, insegnando logica e metafisica alla celebre Università Albertina per circa 30 anni. Si trattò della terribile guerra dei Sette Anni, scatenata dal re di Prussia, Federico II, a suo dire solo una “guerra precauzionale”, – un po’ come adesso quando i russi definiscono l’invasione militare della Ucraina una “operazione speciale”-, che infuriò assai sanguinosa in Europa dal 1756 al 1763. Kant non poté non rimanere impressionato dall’occupazione della sua città da parte dell’esercito russo per cinque anni fino al 1762, e dallo spaventoso numero dei morti nel suo paese di appartenenza, una vera strage di circa 500.000 uomini, oltre il 10% della popolazione prussiana. Lo scoppio beneaugurante della rivoluzione francese nel 1789, ma poi sfociata nei tragici eventi successivi con il periodo del Terrore, non fece che rinnovare l’avversione per le violenze, i conflitti armati, il dispregio della vita, aspetti sui quali riflettere.
Con quale atteggiamento un filosofo deve affrontare gli eventi che coinvolgono il popolo, si chiede Kant? Ce lo dice in un saggio dal significativo titolo Sopra il detto comune: questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica, pubblicato nel 1793. Egli intende confutare questo asserto tipico della mentalità dell’uomo della strada e se la prende con quelli che chiama gli “uomini pratici” con «gli occhi di talpa fissi nell’esperienza», i quali si soffermano sulla esperienza dell’evento contingente senza una analisi che lo inquadri in una cornice più generale. Tuttavia non risparmia critiche neanche a quella tipologia di “dotti” che si compiacciono di esaltare «la teoria solo al fine di esercitare il cervello». Potremmo trasporre il confronto tra queste due categorie a molti tra i comunicatori dei mass-media odierni in base agli interventi riguardanti la guerra russo-ucraina sui giornali e nei dibattiti televisivi, spesso contrassegnati dalla alternanza tra coloro che si concentrano sul momento contingente del fatto senza una visione generale e coloro che discettano compiaciuti di massimi sistemi in termini astratti e ipotetici.
Forte di questa consapevolezza della necessità di associare visione pratica e riflessione teorica di largo respiro, il che permette di cogliere nel singolo evento un plausibile “indizio storico”, Kant si accinge ad avanzare la sua proposta più audace sul piano storico- politico, un’idea forte della pace contro la guerra, che presenta nello scritto Per la pace perpetua del 1795. La struttura dell’opera è rigorosa, consiste principalmente in due parti, 6 articoli preliminari e 3 articoli definitivi. Tra gli articoli preliminari annota: nessun trattato deve essere stipulato con la tacita riserva di argomenti per una guerra futura; non si debbono contrarre debiti pubblici in vista di conflitti esterni allo stato; nessuno stato si deve intromettere con la forza nella costituzione di un altro stato. Spicca tra gli altri la prospettiva radicale da perseguire del disarmo generale in quanto «col tempo gli eserciti permanenti devono essere aboliti».
Passando agli articoli definitivi come chiave di volta dell’intero progetto di pace perpetua essi sono organizzati secondo una progressione logica: la costituzione repubblicana del singolo stato, la federazione di liberi stati, il diritto del cosmopolitismo universale. Nel singolo stato, la costituzione repubblicana si fonda sulla libertà individuale, sulla dipendenza da un’unica legge e su una uguaglianza di diritti tra tutti i membri della società in quanto cittadini. Fondandosi dunque sul giudizio dei cittadini «sarà assai difficile che essi approvino una guerra nella quale rischieranno la vita, subiranno violenze e stenti, e si assumeranno un carico di debiti per sostenerla», mentre in un regime monarchico sul fare la guerra sarà il sovrano solo a decidere, il quale «nulla ha da rimettere a causa della guerra dei suoi banchetti, delle sue cacce, delle sue case di diporto, delle sue feste di Corte … e quindi può dichiarare la guerra come una specie di partita di piacere».
Il secondo articolo definitivo sostiene che il diritto internazionale si deve fondare su un federazione di liberi stati, coalizzati in un foedus pacificum, ovvero una lega della pace, ben più impegnativa di un semplice pactum pacis che è la pattuizione di interruzione provvisoria di uno stato di guerra, in quanto essa si costituisce come un organismo che presiede «la fine di tutte le guerre e per sempre».
Il terzo articolo definitivo che completa le condizioni di una pace perpetua consiste nel sostenere il cosmopolitismo in base a motivazioni di forte spessore intellettuale e morale. L’essere cittadini del mondo oltrepassa il generico sentimento di generosità di chi accoglie, per bontà sua, l’estraneo per una ospitalità transitoria -il riferimento ai migranti di oggi è d’obbligo – in quanto si connota come «diritto di visita, spettante a tutti gli uomini, cioè di entrare a far parte della società in virtù del diritto comune del possesso della superficie della terra, sulla quale, essendo sferica, gli uomini non possono disperdersi isolandosi all’infinito, ma devono da ultimo rassegnarsi a incontrarsi e a coesistere. Nessuno in origine ha maggior diritto di un altro a una porzione determinata della terra». Kant denuncia poi con parole di fuoco i germi di imperialismo coloniale nei confronti degli indigeni da parte degli Stati europei: «Se si paragona con questo la condotta incivile degli Stati civili, soprattutto degli Stati commerciali del nostro continente, si rimane inorriditi a vedere l’ingiustizia che essi commettono nel visitare terre e popoli stranieri (il che per essi significa conquistarli). L’America, i paesi abitati dai negri, le isole delle spezie, il Capo di Buona Speranza ecc., all’atto della loro scoperta erano per essi terre di nessuno, non facendo essi calcolo alcuno degli indigeni. Nell’India orientale (Indostan), con il pretesto di stabilire stazioni commerciali introdussero truppe straniere e ne venne l’oppressione degli indigeni, l’incitamento dei diversi Stati a guerre sempre più estese, carestie, insurrezioni, tradimenti e tutta la lunga serie di mali che possono affliggere l’umanità». In sintesi, Kant evidenzia come l’espansionismo coloniale sia una modalità di guerra mascherata sotto interessi economici ma non meno aggressiva e mortifera.
Segue un’acuta osservazione a partire dalla quale Kant cementa l’idea alternativa di una pace universale: «La violazione del diritto avvenuta in un punto della terra è avvertita in tutti i punti, così l’idea di un diritto cosmopolitico non è una rappresentazione fantastica di menti esaltate, ma il necessario coronamento di un codice non scritto, così del diritto pubblico interno come del diritto internazionale, per la fondazione di un diritto pubblico in generale e quindi per l’attuazione della pace perpetua, alla quale solo a questa condizione possiamo sperare di approssimarci continuamente». Con questa argomentazione kantiana Putin dovrebbe essere perseguito a livello internazionale per una doppia violazione: del diritto internazionale, e, anche, del diritto pubblico interno alla Russia, per l’arresto di migliaia di suoi concittadini del tutto pacifici nel protestare contro la guerra.
Infine, vale sempre tener presente la memoria storica. Königsberg, la città di Kant, venne fondata con questo nome che significa “montagna del re” nel 1255 dai Cavalieri Teutonici col supporto del re Ottocaro II di Boemia e nel tempo prosperò con monumenti pubblici, università, luoghi di culto, giardini diventando la capitale della Prussia orientale. Nel corso della Seconda guerra mondiale il centro storico fu bombardato pesantemente dai Russi. Successivamente nel 1946 la città venne conquistata, distrutta in buona parte e assorbita nell’Unione Sovietica, con la cancellazione della lingua tedesca e della memoria della sua storia fin dal suo toponimo: non più Königsberg , ma Kaliningrad, in onore di Michail Kalinin, uno dei più stretti e fidati collaboratori di Stalin. Gli abitanti in buona parte scapparono o furono trasferiti di forza e dei 370.000 del 1939 ne rimasero solo 73.000 nel 1945, rimpiazzati poi dall’arrivo in città di migliaia di russi. Attualmente Kaliningrad è la base della marina militare russa sul mar Baltico con la dislocazione di testate nucleari. Passando a parlare di Kiev, sorta nel IX secolo e diventata il centro del principale stato slavo-orientale, essa fino a oggi contava circa 3 milioni di abitanti e una fiorente vita come capitale della Ucraina. La lingua ufficiale è l’ucraino e il russo è parlato correntemente da buona parte della popolazione. Sarebbe assai sgradevole che Kiev seguisse le sorti di quanto si è raccontato su Königsberg, con l’augurio che rimanga solo una battuta un fantasioso toponimo di ricambio, tipo Putiningrad. Confidiamo, con le parole di Kant, se non nella pace perpetua, almeno nell’avvio di un processo di pacificazione, un pactum pacis, di cui ha bisogno non solo la gente ucraina ma l’intera popolazione europea, quella russa inclusa.
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Il famoso problema dello schematismo storico. Ben scritto.