Riflessioni post-8 Marzo
Scrivo queste righe a distanza di quattro giorni dalla manifestazione Lotto Marzo organizzata dal movimento Nonunadimeno in occasione, come facilmente intuibile, della festa internazionale della donna. Nonunadimeno ha manifestato per otto precisi punti: un alt alla riforma strutturale in atto dei centri antiviolenza che li vede sempre più – dice il gruppo – trasformati in servizi assistenziali, un’applicazione migliore e più celere delle procedure di salvaguardia delle vittime di violenza fisica o psicologica, aborto garantito negli ospedali pubblici a chi deve farvi ricorso e possibilmente abolizione dell’obiezione di coscienza, reddito di autodeterminazione da applicare a chi è priva di disponibilità economica e vorrebbe uscire da relazioni violente, permesso di soggiorno svincolato per le migranti che hanno subito violenza, una revisione della legge 107 altrimenti detta Buona Scuola, maggiore spazio alla divulgazione del pensiero femminista nelle sue varie forme e una diversa sensibilità nella narrazione mediatica di fatti che vedono vittime le donne o i loro corpi oggetto.
Alcuni di questi punti sono condivisibili, altri meritano quantomeno una riflessione propositiva e altri ancora un’analisi critica. Rimane il fatto, tirando le somme, che questo 8 Marzo è stata un’incredibile occasione di protesta e rivendicazione. Si sa che c’è chi, anche fra le donne, ha lamentato che Nonunadimeno abbia voluto coinvolgere i sindacati affinché indicessero uno sciopero, in un’epoca in cui assentarsi dal lavoro è permesso solo a dipendenti pubbliche, forse alcune e alcuni delle partecipate, ma non certo a quelle e quelli del mondo del lavoro del privato e alle P.IVA – come a dire, alla faccia dell’inclusione! Ma bisogna ammettere che la nuova ondata femminista, in un giorno in cui l’otto Marzo era la ricorrenza per regalare rametti di mimosa e fare contento qualche ristoratore, è divenuta l’occasione per vedere le donne di 40 diversi Paesi manifestare, con piattaforme e punti programmatici simili e diversi allo stesso modo, perché differente è la velocità a cui viaggia la necessità del femminismo in questi vari stati.
A questo proposito, preciso che non è mia intenzione, qui, citare la genesi di Nonunadimeno e nemmeno riportare i dati raccolti da Eurostat sulla disparità salariale fra dipendenti di sesso maschile e femmine oppure i citare i numeri sulla violenza domestica i quali rendono la definizione “di genere” motivabile, ma voglio, con l’otto marzo quasi alle spalle, rispondere ad alcune domande, tenendo conto anche di alcuni fattori sopra elencati: Nonunadimeno può rappresentare tutte le donne? La Womensmarch l’ha fatto? O si tratta, piuttosto, di piattaforme politiche in grado di includere solo l’insieme delle persone, donne e uomini, che ne condividono i punti?
La mia risposta, che andrò ad argomentare, è sì: su alcuni punti, fra cui il principale è la violenza, possono rappresentare tutte le donne e, in una visione intersezionale, gli esclusi dall’eteronormatività, ma racchiudere l’opinione di tutte su altre questioni non è possibile, perché almeno in Occidente le donne godono di libertà politiche che un tempo erano loro negate, con le quali sono diventate più indipendenti ottenendo quella condizione per cui l’esigenza dell’una non è necessariamente quella individuale per l’altra, come accade illo tempore fra gli uomini. Fare un paragone con le suffragette, per intenderci, è fuori luogo: non c’è Paese, in Europa e negli Stati Uniti, in cui le donne non possano votare su basi di scelta personale. Il merito di questo è, ça va sans dire, di autori che hanno trattato di libertà come Mary Wallstonecraft e John Stuart Milll, per fare un nome femminile ed uno maschile. Mary Wallstonecraft ha scritto “Sui diritti delle donne”, mentre John Stuart Mill è stato autore del saggio “La servitù delle donne”. Entrambi i pensatori non concepivano la libertà secondo lo stesso modo di vedere di Rousseau, ma anzi, Mary Wallstonecraft non mancò di etichettare come sciocchezze alcune assunzioni del filosofo svizzero; ne apprezzava il metodo educativo, ma riteneva che dovesse essere esteso alle donne laddove invece questo pensatore propendeva per un approccio pedagogico diversificato per i due sessi. John Stuart Mill individuava invece nella prevaricazione maschile, ottenuta perlopiù con la forza, un evidente liberticido in quanto veniva impedita la piena espressione delle capacità di una persona, assoggettandola in un ruolo frutto di retaggi passati. Questo lo riportava anche nel suo saggio più famoso, “Sulla libertà”, nella cui prefazione non nascose lo sconforto per la dipartita della defunta moglie, Harriet Taylor, che ne revisionava le opere rendendole migliori. Oggigiorno il problema del diritto al voto e dell’educazione paritaria è – nella nostra parte di mondo – sorpassato oppure marginale; rimane sicuramente la questione della liberazione dalla relegazione ai lavori di cura, spesso a carico solo della parte femminile della famiglia, in Italia – è noto – sicuramente più che in Svezia, ma passi in avanti sono stati fatti e non perché le donne che hanno avuto una carriera hanno voluto comprarsi una qualche via di uscita dal patriarcato, soggiacendo alle regole maschili del gioco, ma grazie a quell’estensione delle libertà auspicata da Mary Wallstonecraf e sostenuta qualche decennio dopo da Mill e dalla sua amata moglie Harriet Taylor in pieno periodo di suffragette. Quando leggo nel comunicato di Nonunadimeno che l’obiettivo è «la libertà collettiva e individuale – mentale, fisica e di possibilità – da ciò che questa società patriarcale e neoliberista ci impone, contro la nostra volontà», ho un senso di stordimento perché se è chiaro cosa sia il patriarcato, storicamente, non c’è la stessa evidenza su cosa sia il neoliberismo e se il riferimento è al liberalismo come modo di intendere la società; temo che Mary Wallstonecraft, John Stuart Mill e Harriet Taylor sarebbero colpiti dalla stessa interdizione. Altro non fosse che quel comunicato parla di «libertà individuale» come punto di approdo, facendo cenno anche alla possibilità, si immagina – fra le altre – economica. La mia opinione però sui diversi modi di intendere la libertà individuale è di poco conto, in un’analisi sulle ragioni per cui la piattaforma Nonunadimeno, per quanto lodabile, non può rappresentare tutte le donne e – aggiungo – le persone che si battono per una visione non binaria. Devo allora riprendere l’excursus storico.
I temi trattati e su cui si battevano i movimenti femminili nel ‘700 fino ai primi del ‘900 erano l’accesso alla studio, alle attività lavorative riservate solo agli uomini e al diritto al voto; ad un certo punto è incorso l’aborto, ancora oggi argomento di discussione quanto più caldo. In Italia, si sa, si è dovuto attendere il 1978. In quegli anni, di mobilitazioni e accesi confronti, possiamo ricordare approcci alla libertà femminile diversi: mentre Adele Faccio e Emma Bonino facevano attivismo per ottenere una legge che garantisse l’accesso all’interruzione volontaria di gravidanza, Carla Lonzi, nome storico per il femminismo italiano, esprimeva altre riflessioni, dedite più al raggiungimento dell’autocoscienza che secondo lei mancava alle donne. Ella riteneva che tramite l’autocoscienza e la coscienza di sé le donne potessero esprimere una sessualità non patriarcale, non finalizzata al piacere del partner maschile, ma tramite cui ottenere il proprio. L’aborto era, per la Lonzi, un modo per favorire il dominio sessuale maschile, disimpegnarlo ulteriormente e permettergli di inferiorizzare il piacere femmminile in un rapporto caricandola inoltre dell’onere di interrompere quella gravidanza da cui non ne aveva tratto nemmeno beneficio fisico. Per questo non sostenne campagne per l’aborto. Le più recenti vicende comparse sui giornali hanno certamente fatto rinascere un dibattito sull’interruzione di gravidanza e, in particolare, sull’assenza di un equilibrio negli ospedali, quando non in intere regioni, fra medici obiettori e non e qui si può dire che i pareri dei vari movimenti femministi e delle loro rappresentanti sembrano convergere: c’è chi ritiene ci si debba ispirare al modello svedese, in cui l’obiezione di coscienza nelle strutture ospedaliere pubbliche non è ammessa, ma in generale già l’ottenimento di un reale equilibrio sarebbe un primo step per ogni femminista italiana. E’ però vero che negli Stati Uniti esiste il movimento Feminist Pro Life, a cui è stato intimato di non partecipare alla WomensMarch. L’intimazione era giusta, in quanto quel movimento sicuramente si scontrava con le ragioni di protesta e qui è il punto: la WomensMarch statunitense aveva un esplicito orientamento politico. Theresa Shook, la principale promotrice, non faceva e non fa di certo fatto mistero del suo sostegno ad Hillay Clinton e di essere, quindi, una elettrice democratica. Un gruppo di donne conservatrici, come quello che compone le Feminist Pro Life non poteva che stonare in una simile manifestazione.
Faccio perdipiù presente, sempre per il dichiarato fine di questo pezzo, che fra le organizzatrici della WomensMarch v’era pure una certa Linda Sarsour, nota negli Stati Uniti in quanto attivista a favore delle minoranze islamiche e per condividere l’applicazione della Sharia. Proprio nei giorni successivi alla marcia del 21 Gennaio, alcuni utenti di Twitter ricordarono l’attacco di Linda Sarsour verso un’altra femminista, di origine musulmana ma divenuta atea proprio dopo aver sperimentato sulla sua pelle la deriva religiosa che si può verificare nell’Islam, Ayaan Hirsi Ali. Hirsi Ali non è la sola ad avere una posizione meno inclusiva verso le religioni e, in particolare, su quella islamica, anche la francese Elisabeth Badinter è conosciuta per aver espresso precise opinioni che le sono costate una fatāwā.
La WomensMarch è stata negli Stati Uniti una manifestazione non solo femminista, ma anche di rivendicazione di una precisa piattaforma politica che, naturalmente per quel che sono le regole della democrazia, non tutte le donne potevano condividere, in quanto individui in grado di esprimere liberamente una precisa idea programmatica e aggregarsi fra altre che la pensano nello stesso modo.
Voler essere inclusive con le migranti, come sembra esserlo Nonunadimeno già dal logo grafico con le matrioska, è molto probabilmente divisivo.
Sarebbe poi forse troppo comodo citare la GPA, argomento destinato ad essere sempre più presente nell’opinione pubblica. Fra le rappresentanti del femminismo abbiamo esempi di personalità favorevoli, come Chiara Lalli, e altre che non lo sono, fra cui Daniela Danna; a nessuna delle due toglierei qualcosa per capacità nei rispettivi ambiti e giudicherei soltanto l’opinione che mi convince di più, però non le immagino nemmeno scrivere assieme un saggio.
La sintesi che posso trarre, da questi elementi sommati, è che sul tema della violenza la netta maggioranza dotata di amor proprio sarà sempre disposta a lottare per non essere sopraffatta e costretta con la forza, come volevano gli auspici di Mill, e non vi saranno donne che vorranno rinunciare al voto e ad essere rappresentate politicamente. Esprimere la propria preferenza politica (non soltanto con il voto) è però una scelta individuale e che non sempre si può tramutare in una lotta di genere; e laddove la si volesse interpretare come tale, lo si potrà fare solo in riferimento a gruppi – per quanto a maggioranza femminile – con piattaforme e punti di analisi differenti.
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